TEATRO ALLA SCALA DI MILANO (NABUCCO – Giuseppe Verdi)

Io e Marianna stiamo passeggiando mano nella mano per le vie di Palmanova, quando all’improvviso…

“Attenzione, prego!… Ecco a voi l’unica, inimitabile, irripetibile Macchina del Tempo. Con appena un euro potrete fare comodi viaggi su e giù per i secoli, qua e là per lo spazio alla scoperta di epoche lontane. Prossimo viaggio Milano, anno 1842. Si parte fra cinque minuti… in vettura!”…
Simpatica questa Milano di circa centosettanta anni fa. Simpatica e tranquilla: senza auto, senza smog, senza televisione. A pensarci bene, è forse una città un po’ troppo tranquilla per i nostri gusti. Avevamo intrapreso questo viaggio sperando in po’ di avventura, soprattutto pensando al Risorgimento e a dominazione austriaca. È vero che qua e là si vedono solo austriaci e che se si entra in un caffè del centro è facile ascoltare giovani intellettuali discutere di Mazzini e di unità d’Italia, nel complesso quel sentimento patriottico che abbiamo letto libri non sembra proprio essere ancora molto diffuso.

Quanto a divertimenti non ne parliamo neanche: cinema e televisione devono ancora essere inventati, figuriamoci poi la discoteca! Per ascoltare un po’ di musica è necessario suonarsela o andare a teatro. Già, a teatro, perché no? Un manifesto che abbiamo visto poco fa in piazza Duomo annunciava per stasera al Teatro alla Scala la terza replica di una nuova opera di un giovane musicista: Nabucodonosor di Giuseppe Verdi.

È deciso, ci andiamo.

Ah, ecco il teatro. Bello, bello davvero. I lampioni a gas illuminano con discrezione la facciata e sotto il porticato d’ingresso si accalca una gran folla. Ci uniamo anche noi e subito non possiamo fare a meno di notare che sì, questo sarà pure un evento culturale, ma di certo rappresenta anche un’occasione mondana per l’aristocrazia e la ricca borghesia milanese, che sembrano essersi date appuntamento qui per esibire tutta la loro opulenza. Ma accanto a giovani e vecchie signore tutte sfarzosamente ingioiellate e a eleganti sussiegosi signori è facile vedere un pubblico più modesto e meno appariscente: sono gli appassionati, gli intenditori, i fedelissimi che sempre accorrono a teatro per acclamare i propri cantanti preferiti o magari per fischiare sonoramente tutto ciò che non è di loro gradimento.

L’opera, in quanto spettacolo complesso, è meglio vederla e ascoltarla a teatro. Né l’ascolto discografico, né quello televisivo restituiscono tutta la sua forza espressiva, quindi ci fa piacere partecipare a una serata operistica, approfittandone anche per notare i diversi atteggiamenti del pubblico.
Con un sentimento di grande curiosità mista a emozione entriamo trepidanti nella grande, magnifica sala.
Il nostro posto di platea ci permette di ammirare stupefatti sia gli stucchi dorati, le pitture sul soffitto, l’enorme lampadario, sia la struttura e l’organizzazione del teatro stesso. Quella distinzione sociale nella composizione del pubblico che abbiamo notato all’ingresso risulta ancora più evidente nella ripartizione interna dei posti. Qui in platea, dove prende posto in gran parte l’elegante borghesia milanese, poche file di scomode panche permettono di sedersi solo a qualcuno, mentre gli altri rimangono in piedi.

Ma la nostra attenzione è subito catturata dagli ordini sovrapposti di palchi, che fanno da sontuosa cornice all’intera sala: è qui che la nobiltà di Milano siede, chiacchiera, riceve visite e, chi l’avrebbe mai detto, consuma persino rapidi pasti. D’altronde, come ci spiega un anziano frequentatore del teatro che ha trovato posto accanto a noi, i palchi sono di proprietà di quegli stessi marchesi, conti, baroni che li hanno acquistati prima ancora che la Scala fosse edificata, consentendo così di trovare i fondi necessari all’opera di costruzione, completata nel 1778.

Il pubblico più popolare, quello che è qui unicamente per ascoltare l’opera, si pigia nell’ultima fila di palchi verso il soffitto, nel cosiddetto loggione, a cui si accede per un prezzo ragionevole. Questo pubblico con il suo entusiasmo ci conferma che l’opera affonda le sue ragioni d’essere anche nei ceti sociali più deboli, i quali trovano in questo spettacolo una temporanea occasione per evadere dalle difficoltà quotidiane.

Sia le mie riflessioni, sia il chiacchiericcio dell’intera sala sono bruscamente interrotti dall’entrata dell’orchestra, che sistema a ridosso del palcoscenico e inizia ad accordare gli strumenti. Subito dopo urla e applausi piovono da ogni parte all’indirizzo di un uomo giovane, con la barba, vestito di scuro, che ringrazia con fare impacciato. Chiedo spiegazioni al nostro gentile vicino che mi risponde…
“Ma come, non conoscete ancora Verdi? Da tre giorni a Milano non si parla d’altro!”.
Non faccio in tempo a riprendermi dall’emozione che ecco l’orchestra attacca il preludio, che serve a introdurre gli spettatori nel clima espressivo della vicenda biblica narrata nell’opera. Il sipario si alza e scopre il palcoscenico già affollato da gran massa del coro: è il popolo ebreo che piange la propria crudele sorte nel tempio di Salomone a Gerusalemme.
Gli ebrei sono schiavi a Babilonia e cantano con nostalgia il ricordo della loro patria…, il pensiero vola alla loro terra, e nel suono austero del loro canto riecheggiano, di tanto in tanto, solari armonie mediterranee.
Man mano che la vicenda avanza, io e Marianna facciamo la conoscenza dei protagonisti e impariamo ad apprezzare la caratterizzazione vocale affidata da Verdi a ognuno: voce di basso per il saggio Zaccaria, tenore per il sentimentale Ismaele, di soprano per la perfida Abigaille e voce di baritono per lui, Nabucco, re di Babilonia.
È straordinario come anche per noi, che pure siamo abituati prodigi dell’elettronica dei giorni nostri, questo spettacolo fa sì di musica, ma anche di recitazione, di scene, di costumi, luci e di magie varie riesca a risultare tanto affascinante e coinvolgente se realizzato con maestria.
E non importa se le scene sono di cartapesta, se la protagonista è troppo grassa per il suo ruolo o se anche nei momenti più drammatici i personaggi non riescono a fare a meno di cantare: l’esplicita finzione teatrale tutto giustifica e tutto permette, ponendo la storia narrata su un piano diverso dalla semplice rappresentazione realistica. Anzi, ci accorgiamo che la maggior parte del pubblico presente questa sera alla Scala tende istintivamente a immedesimarsi in ciò che avviene sul palcoscenico. Così la lontana vicenda delle sofferenze del popolo ebreo sotto la tirannia babilonese viene intesa come metafora della condizione dell’Italia alle soglie del Risorgimento. Ora che ci facciamo caso, tre colori dominano nell’abbigliamento dei presenti: il bianco, il rosso e il verde.
Volete scommettere che quel sentimento patriottico che non avevamo troppo avvertito in giro per la città trova in questa brillante serata teatrale l’occasione buona per manifestarsi? Il meccanismo di immedesimazione raggiunge il suo culmine quando gli schiavi ebrei nel terzo atto intonano Va, pensiero: tutto il teatro si anima, diventa una cosa viva, palpitante. C’è chi fra il pubblico si unisce al coro, chi si commuove fino alle lacrime; c’è persino chi prorompe in un temerario “Viva l’Italia!”.
Solo gli occupanti di qualche palco e gli ufficiali austriaci rimangono impassibili con facce da far paura…

Le stesse scene d’entusiasmo si ripetono al termine dell’opera, confermandoci come il giovane Verdi abbia saputo interpretare in musica le aspirazioni e le tensioni di tutta un società. Ci rendiamo così conto che il teatro, oltre che un luogo d’incontro, di crescita culturale, di divertimento può anche essere un mezzo per comprendere il proprio tempo.

Zitti e Muti!

Improvvisamente un bip-bip elettronico ci avverte che è ora di scappare e tornare alla Macchina del Tempo che sta per ripartire. Lasciamo precipitosamente la Scala e corriamo per le strade di una Milano già addormentata. Prima che la Macchina si metta in movimento facciamo appena in tempo a scorgere alcuni ragazzi che in un angolo buio stanno rapidamente scrivendo sul muro… Viva VERDI.

Ciao Marianna… da te vola il mio pensiero…
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Giuseppe Verdi ritratto da Giovanni Boldini
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IL NABUCCO…, UN INNO SENZA DIVISA
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Critica e pubblico sono oggi concordi nel non annoverare il Nabucco fra le opere maggiori di Verdi. Eppure il coro “Va, pensiero” è senz’altro una delle pagine più famose e celebrate del maestro emiliano.
Il tempo è lentissimo…, la melodia va su e giù per clivi e per colli, a grandi respiri…, l’accompagnamento è tipico dell’Aria, ma è anche da Serenata…, il tono è solenne e vagamente chiesastico, come di una liturgia all’aperto. E il ritmo, che tranquillità…, il verso sarebbe sì il decasillabo, verso marziale (mi ricorda… “S’ode a destra uno squillo di tromba”…, e in Verdi… “Guerra! Guerra! S’impugni la spada”…, “Si ridesti il Leon di Castiglia”)…, ma qui il ritmo si è tolta la divisa e non è nemmeno più riconoscibile all’ascolto.
In breve, questo canto nazionale è tutt’altro che un inno di marcia e di lotta; chi avesse dubbi, basta che pensi al passo breve, rapido, scandito e incalzante con cui marciano “Bandiera rossa”…, “L’Internazionale”…, “El pueblo unido”…, la “Marsigliese”. Questa è invece una meditazione da fermi, anzi da seduti. Gli antichi ebrei sulle rive dell’Eufrate, appunto: come gli italiani sull’arida sponda del Ticino prima del ’48, una meditazione che prece e prepara l’azione. È che i nostri connazionali del tempo di Nabucco hanno “fatto politica” con questo inno.
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IL TEATRO LA SCALA DI MILANO

La Milano neoclassica ha nel Teatro alla Scala la sua creazione architettonica più significativa, simbolo di quegli ideali di sobria bellezza e armonia formale propri del secolo dei lumi. Il celebre “tempio della lirica”, entrato a ragione nella leggenda milanese, fu progettato dal folignate Giuseppe Piermarini, dopo la distruzione nel febbraio del 1776 del Teatro Regio Ducale, ed innalzato (1778) sull’area della demolita chiesa di S. Maria alla Scala (da cui il nome).

La facciata, in stile neoclassico con due ali arretrate, presenta un modesto frontone del timpano scolpito a bassorilievo, raffigurante il “Carro di Apollo”, e un portico destinato ad accogliere le carrozze che portavano il pubblico sino alla porta d’ingresso.
Il vero motivo d’interesse dell’edificio è rappresentato tuttavia dall’interno che racchiude la meravigliosa sala a ferro di cavallo, famosa in tutto il mondo per l’incantevole acustica e l’ampio palcoscenico (780 mq), grande tanto da consentire ogni possibilità scenografica. Una volta di legno centinata è sospesa sulla platea, lunga 21,50 metri ed estesa 405 metri quadrati. La sala, che ha due gallerie e quattro ordini di palchi con al centro il palco reale, è illuminata da un gigantesco lampadario centrale (di 362 lampadine) sopra il quale si trova una cabina dotata di riflettori.

La Scala, che risentì pesantemente dei disastrosi effetti provocati dal bombardamento del 15 agosto 1943, presenta, nel suo aspetto attuale, costruzioni laterali in aggiunta al piano originario del Piermarini. Sulla sinistra è stato sistemato dal 1911 il Museo Teatrale della Scala, costituito da collezioni riguardanti l’arte drammatica (di grande interesse la raccolta verdiana). Nella Via Filodrammatici ha sede la Piccola Scala, filiazione dal 1955 della Grande Scala.