ACQUEDOTTI ROMANI

ACQUEDOTTI ROMANI

Spegnevano la sete di Roma sospesi tra cielo e terra

Nella campagna intorno a Tivoli, in provincia di Roma, la donna in blue-jeans e l’uomo vestito di velluto puntavano con determinazione verso una siepe dall’aria particolarmente arruffata. “È qui” disse a un tratto la donna, la signora Cecilia Roncaioli Lamberti, docente di Didattica del latino all’Università di Roma, e poi sparì, come inghiottita dal suolo.
Soltanto la sua voce ci raggiunse da sotterranee lontananze: “Seguitemi, voi due!” L’uomo – che era suo marito – e io ci lasciammo andare a piedi in avanti giù per un varco che lei aveva aperto nell’intrico spinoso della siepe, e sbucammo nel canale scavato nella roccia di un capolavoro ingegneristico degli antichi Romani: un condotto largo circa un metro e alto due con tracce di cemento impermeabile ancora visibile sulle pareti e la parte inferiore scolorita dal secolare scorrimento delle acque. Un tempo questo canale convogliava verso Roma un fiume d’acqua; oggi é intasato dalla vegetazione e dai depositi formatisi secoli fa.

“Ora vi mostro il mio preferito” disse la professoressa Lamberti quando tornammo fuori, e raggiungemmo in macchina una solitaria e imponente arcata di straordinaria bellezza. Sotto di essa scorreva mormorando un ruscello, il Fosso della Mola di San Gregorio, e i pendii delle colline tutt’intorno erano fitti di alberi. Quello che vedevamo era un rudere dell’acquedotto della Marcia, costruito nel II secolo per rifornire d’acqua Roma. “In qualunque altro paese questo sarebbe un monumento nazionale” dissi io. “Oh, certo” rispose la signora Lamberti. “Ma qui ne abbiamo troppi. Le arcate crollano, i canali si riempiono di detriti per chilometri e chilometri, e tutti stanno a guardare”. Ma non i coniugi Lamberti, ultimi arrivati di una lunga schiera di archeologi dilettanti che studiano i percorsi degli antichi acquedotti. Mentre ci allontanavamo, la signora vide un punto dove alcuni cantonieri avevano scavato nel fianco della collina, e i suoi occhi allenati notarono qualcosa. “Inginocchiati, caro” disse al marito, poi gli salì sulle spalle per esaminare meglio i mattoni da poco venuti allo scoperto di uno dei pozzi che i Romani avevano costruito per motivi di ventilazione e per le esigenze degli addetti alla pulizia e alle riparazioni dell’acquedotto.
“Splendido” commentò la signora.
“Prendi nota del luogo”.

IL COLOSSEO – Jean-Baptiste Camille Corot (Vedi scheda)

Segmenti di acquedotti sollevati su arcate rimangono ancora in piedi in Francia, Spagna, Medio Oriente, Africa settentrionale e in tutti gli altri posti raggiunti dai Romani. Essi testimoniano la grandezza di Roma non meno autorevolmente del Colosseo o del Foro, e inoltre avevano una funzione più nobile: rifornivano d’acqua la popolazione.
Ci fu un tempo in cui Roma aveva circa 1.300 fontane, 11 grandi bagni pubblici e 867 di dimensioni più modeste, 15 ninfei (fontane monumentali) e due laghi artificiali per le parate navali. Undici acquedotti facevano arrivare ogni giorno nella città 145 milioni di litri d’acqua, una portata di cui i Romani andavano particolarmente fieri dopo che per quattro secoli avevano dovuto accontentarsi dell’acqua di alcuni pozzi poco profondi, di qualche sorgente, e del Tevere.

Verso la fine del I secolo il curator aquarum, o magistrato delle acque di Roma, un cittadino esemplare di nome Sesto Giulio Frontino, poteva menare giustamente vanto del senso pratico romano con queste parole: “Come si possono paragonare le inutili piramidi d’Egitto, o le improduttive seppur famose opere dei Greci, a costruzioni come le nostre?” La domanda era retorica, ma Frontino non aveva tutti i torti: i cittadini dell’Urbe preferivano l’acqua, fonte di vita e garanzia di igiene, ai monumenti.

I resti degli acquedotti che assicuravano tutta questa abbondanza idrica sono talmente grandiosi, e cosi pervasi da un senso di antico e di eterno, che facilmente hanno fatto nascere credenze e convinzioni sbagliate. Molti per esempio sono convinti che le eleganti arcate servissero a far affluire l’acqua a una quota sufficiente per assicurare la distribuzione ai sette colli della Città Eterna. E invece le arcate avevano le funzione di garantire una pendenza costante e rallentare così la velocità dell’acqua impedendole di far esplodere i rozzi tubi di piombo che costituivano le condutture sotterranee di Roma. La cosa ha lasciato sbalorditi gli ingegneri moderni, i quali si chiedono come abbiano potuto i loro colleghi di tanti secoli fa calcolare con tanta precisione e ottenere una pendenza di quasi tre metri per ogni 1000 di condotta scavata nella roccia e sollevata su arcate.
Un’altra errata convinzione é che gli acquedotti avessero i condotti sollevati su arcate: in realtà, erano quasi sempre sotterranei. Dei 428 chilometri di acquedotti controllati da Frontino, solo 64 erano sopraelevati.
Un fatto che può destare sorpresa in noi moderni é l’impossibilita per gli antichi Romani di bloccare il flusso.
Una volta incanalata in un acquedotto, l’acqua di una polla, di un lago o di un fiume arrivava a Roma, e nessuno poteva farci niente. Quando c’erano riparazioni urgenti da fare l’acqua poteva essere deviata mediante dighe e canali temporanei, ma non poteva essere fermata.

Aqua marcia (Fonte immagine: Wikipedia – Chris 73

Chiaramente, le sezioni che colpivano di più la fantasia erano quelle sopra le arcate. L’acquedotto dell’acqua Marcia era lungo più di 95 chilometri e dissetava il cuore amministrativo di Roma, il Capitolino.
Costruito per i primi 90 chilometri sotto terra secondo le tecniche ingegneristiche per quei tempi più moderne, sbucava in superficie negli ultimi cinque arrivando fino alle porte della città. In seguito altri condotti si aggiunsero, “a cavalluccio”, a quello già sorretto dalle arcate di questo maestoso acquedotto, che in un punto del suo tratto sudorientale era attraversato per due volte da un’altra fila di arcate su cui giacevano sovrapposti i condotti in cui scorreva l’acqua di altre due sorgenti.
Un altro mito da sfatare é quello della perfezione tecnica degli acquedotti. La verità é che le sezioni sopraelevate erano veri e propri colabrodo. A Roma si possono ancora ammirare, soprattutto all’inizio della Via Appia, le massicce rovine dell’antica Porta Capena, che un tempo sosteneva un condotto e che per le grandi perdite d’acqua fu soprannominato l’arco gocciolante, poiché chiunque ci passasse sotto veniva inevitabilmente asperso.
Nei tempi antichi l’acqua era un privilegio delle famiglie patrizie, che la ricevevano per prime; poi venivano le fontane e i bagni pubblici, e infine i semplici cittadini. Quando il probo Frontino assunse la carica di magistrato delle acque, scoprì non solo alcuni acquedotti bisognosi di urgenti riparazioni, ma anche una sorta di tangentopoli ante litteram: tutti, a Roma, dai pubblici funzionari ai privati cittadini, passavano mazzette agli impiegati dell’acquedotto per potersi attaccare alle condutture e procurarsi l’acqua per la casa o per il giardino. Frontino studiò meticolosamente il funzionamento dell’intero sistema idrico, mise in riga i subalterni, ripulì la città e lasciò un’opera monumentale, il De aquaeductu urbis Romae, che quasi 1500 anni dopo permise ai papi del Rinascimento di restaurare il complesso di opere.
Il declino della rete di grandi acquedotti cominciò nel IV secolo, quando Costantino, il primo imperatore cristiano, trasferì la capitale a Costantinopoli. Seguirono il primo sacco di Roma, per mano dei Goti, nel 410, quello dei Vandali nel 455 e nel 537 l’assedio degli Ostrogoti di Vitige, i cui soldati devastarono tutti gli acquedotti che riuscirono a trovare. Dopo Vitige, affermano alcuni esperti moderni, “Roma rimase senz’acqua per 1000 anni”. In realtà un po’ d’acqua arrivava ancora: quella del Tevere, e quella dell’acquedotto di Aqua Virgo, che alimentava la fontana di Trevi e che gli Ostrogoti non erano riusciti a distruggere perché il condotto era quasi completamente sotterraneo, e i guastatori di Vitige non lo avevano localizzato.

Ciò non toglie che, per tutto il Medioevo, Roma soffrì di una sia pur relativa penuria d’acqua. Le prime vittime furono i giardini, poi toccò alle grandi fontane. Poche cose danno un senso di tristezza e di abbandono come una fontana senz’acqua, ma il suo saccheggio va ancora oltre, e fu proprio quello che accadde: nobili spiantati si impadronirono delle statue per adornarne i loro palazzi-fortezze, i cortili e i giardini; cittadini che avevano bisogno di materiale edilizio abbatterono le colonne per utilizzare il marmo, oppure staccarono qua e là pezzi per puntellare le loro abitazioni cadenti.
Il risultato fu che le fontane svanirono, letteralmente.

Fontana di Trevi

Fu solo durante il Rinascimento che i papi avviarono il restauro in grande stile degli acquedotti. Ne1 1429 l’umanista Poggio Bracciolini, che ricopriva la carica di segretario apostolico, scoprì nella grande biblioteca del monastero di Monte Cassino il manoscritto perduto del De aquaeductu urbis Romae. Sulla base di questo prezioso documento, il papa Nicola V ordinò il restauro e la pulizia del fedele acquedotto di Aqua Virgo, lo ribattezzò Acqua Vergine e ne ripristinò l’antico percorso, facendolo entrare nella citta in vicinanza della Fontana di Trevi. Oggi gli acquedotti che portano acqua a Roma sono sei, di cui due riattivati dai papi, due che in parte attingono ancora alle antiche polle originarie, e due realizzati nel dopoguerra. Attualmente la fornitura d’acqua della capitale é sufficiente, eppure è pari alla meta della quantità pro capite che arrivava nell’Urbe 2000 anni fa. Oggi come secoli fa ciascuno degli acquedotti rifornisce più di una fontana, secondo lo stesso preciso sistema di alimentazione a caduta che in origine funzionò così bene per portare l’acqua fino a Roma.
Molte cose sono cambiate nel corso dei secoli. Nel 1938 si pensò di regolamentare in qualche modo il sistema recuperando in parte l’acqua delle fontane che finiva nella rete fognaria per generate corrente elettrica e installando impianti di pompaggio.

Oggi l’acqua delle fontane principali viene recuperata e riciclata. Una visita alla monumentale Mostra dell’Acqua Paola, sul Gianicolo, può rivelarsi molto istruttiva. Questa fontana del XVII secolo fu fatta riattivare da papa Paolo V, che volle restaurato e potenziato nella portata l’acquedotto costruito nel 109 dall’imperatore Traiano perché rifornisse il colle e il sottostante quartiere di baracche.
La Mostra viene chiusa e prosciugata una volta la settimana per consentire il lavoro di ripulitura degli esperti dell’acquedotto comunale a cui si uniscono spesso gruppi di volontari che amano le fontane quanto i coniugi Lamberti amano gli acquedotti.
Una mattina di primavera decisi di assistere alla pulizia della Mostra.
Per prima cosa, gli addetti si arrampicarono dietro la fontana e aprirono una pesante porta che dava su un serbatoio di raccolta in pietra nel quale si sentiva scorrere impetuosamente l’acqua. Poi sollevarono un coperchio di metallo e inserirono una chiave gigantesca che, girando lentamente nella serratura – ci vollero due uomini per compiere l’operazione – provocò l’abbassamento di una lastra metallica che bloccò il flusso dell’acqua. Spuntarono altre chiavi, venne aperta una seconda porta, si materializzarono gradini di pietra che si perdevano nel buio più completo. Scendemmo con cautela, e il rumore dell’acqua si fece più forte. Qui, nell’oscurità, c’era una fila di nove antichi serbatoi di pietra, ciascuno dei quali aveva sul fondo un tubo di piombo. Da qui veniva distribuita l’acqua di Traiano che, dopo essersi riversata nel serbatoio di raccolta più in alto, passava nei nove serbatoi da dove raggiungeva poi nove diversi punti della città. E allora come facevano gli antichi Romani a fermare il flusso quando era necessario? Con un tappo di legno che veniva inserito nel tubo.

Nel corso di soggiorni discontinui a Roma in un arco di 30 anni credo di aver visto tutte le fontane della città, eppure ogni tanto un muro o una piazza me ne regalano una assolutamente nuova che mi scaglia contro i suoi spruzzi come se fosse offesa con me perché non mi sono mai accorto della sua esistenza. Io le chiedo scusa e proseguo per la mia strada, ma poco dopo mi fermo di nuovo davanti a una delle tante fontanelle di cui sono disseminati i marciapiedi di Roma.
Questa modesta piccola fontana é la logica erede dei trionfi d’acqua di un tempo, un dono per il ragazzino assetato o con i piedi sporchi, una provvidenza per il fioraio del negozio all’angolo, un invito per il cliente del vicino fruttivendolo, una carezza per l’orecchio del passante, e una testimonianza della generosità della terra. E dopo aver fatto tutto questo, l’acqua scende gorgogliando in quelle antiche cloache per trascinar via le scorie della città, proprio come faceva un tempo, quando tutto ebbe inizio.

 

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