LA MARCIA SU ROMA

LA MARCIA SU ROMA

Emilio Lussu (Armungia, 4 dicembre 1890 – Roma, 5 marzo 1975) è stato uno scrittore, militare e politico italiano, eletto più volte al Parlamento e due volte ministro. Fondatore del Partito Sardo d’Azione e del movimento Giustizia e Libertà. Antifascista, fu aggredito, ferito e poi confinato a Lipari; infine, una volta evaso, fu profugo all’estero per circa quattordici anni. Prese parte come ufficiale alla prima guerra mondiale, dove fu più volte decorato, alla Guerra civile spagnola come dirigente politico e alla Resistenza italiana.

Ecco come  Emilio Lussu, ha descritto nel suo volume “Marcia su Roma e dintorni”, l’evento che segnò l’ascesa di Mussolini al potere.

“La marcia è decisa, secondo i nuovi piani, il 26 ottobre a Napoli. La mobilitazione fascista avviene tra il 26 e il 27. Il 28 deve avere inizio la ‘marcia’. È attorno a Roma che si devono decidere le sorti d’Italia? Mussolini prende il treno a Napoli, traversa Roma e si confina a Milano. Milano sta dalla parte opposta, a 600 Km. da Roma ,se fosse rimasto a Napoli, sarebbe stato più vicino. Originale ubicazione di combattimento. Anche con la strategia moderna, 600 Km. di distanza dal grosso che combatte sono effettivamente molti. Ma in compenso, Milano ha il vantaggio di essere a pochi chilometri dalla frontiera svizzera.

La mobilitazione fascista avviene come può. Nella gran parte delle regioni non avviene affatto. Contro uno Stato che si difende non è facile prendere l’offensiva. In tutta Italia si dice: “questa marcia finisce in galera”. Ma il governo è dimissionario.

Il comando generale delle forze fasciste si fissa a Perugia. Lo compongono Bianchi, De Bono, De Vecchi e Balbo (i capi fascisti che Mussolini aveva incaricato di dirigere la marcia su Roma). Il duca d’Aosta (cugino del re Vittorio Emanuele III), che ha promesso tutto il suo appoggio all’impresa, si porta clandestinamente nei dintorni di Perugia. Colonne fasciste sono ammassate a Civitavecchia, a Mentana, a Tivoli. Tutte dovrebbero puntare su Roma. Ma regna il più grande disordine. Contrattempi, ritardi, equivoci spezzano le varie colonne e ritardano gli ammassamenti. La grande parte è senz’armi; molti sono armati di fucili da caccia; i fucili militari sono senza cartucce. Solo alcune mitragliatrici delle squadre toscane sono in buono stato. I viveri cominciano a essere insufficienti dal primo giorno.
“Vogliamo mangiare” urla impaziente la colonna di Mentana. E poco mancò non s’ammutinasse. In alcune città di provincia, i fascisti riescono a occupare di sorpresa alcuni edifici pubblici. Mussolini, a Milano, si barrica nella sede del suo giornale (“Popolo d’Italia”) e fa mettere attorno una fitta barriera di reticolati. “Bisogna difendere il nostro fortilizio a ogni costo”, dice la sera del 27, alla vigilia. La ‘marcia’ ha così inizio col comandante che sta fermo e si cinge di filo spinato.
Un forte nucleo di fascisti milanesi invade il posto di guardia della caserma degli alpini, in via Ancona e lo occupa. Prontamente interviene il colonnello con un battaglione inquadrato.
“Viva l’esercito”, gridano i fascisti.
“Molte grazie”, risponde il colonnello. “Ma se non sgombrate entro cinque minuti ordino il fuoco”….
La situazione diventa difficile. Il battaglione si è schierato e inasta le baionette. Il capo fascista comprende che non può discutere oltre. Chiede un minuto di tempo e chiama Mussolini al telefono. Il ‘duce’ è presto informato di tutto. Esce dal fortilizio e si precipita nella caserma. Rapido e agitato è il colloquio tra il colonnello e il ‘duce’. Il colonnello, perduta la pazienza, fa suonare la tromba. E’ il segnale per l’assalto. Ogni intesa diventa impossibile. Non c’è nulla da fare.

“Sgombrate” comanda il ‘duce’ ai suoi… e rientra nel fortilizio.

Roma è sempre calma. Gli ottimisti dicono: “Bastano due cannonate e tutto è finito”. L’esercito occupa la reggia, i ministeri, le stazioni, le centrali elettriche, le poste e i telegrafi, tutti i punti strategici.
Cannoni, autoblindate, mitragliatrici si mettono in movimento, i dirigenti del fascio cittadino sono arrestati. Nessuno oppone resistenza. Nessuno si muove.

Giungono notizie allarmanti sull’agitazione nelle province. Finalmente, al Consiglio dei ministri, prevale la tesi che sia adottato lo stato d’assedio. Il re consente. Non vi sono altre vie. Bisogna difendere lo Stato.

Il 28 lo stato d’assedio è proclamato in tutta Italia. Le prime istruzioni telegrafiche del governo sono chiare: “Arresto, con qualsiasi mezzo, di tutti i capi fascisti”. I poteri civili cominciano a passare in mano dell’autorità militare… A Milano, il prefetto chiama Mussolini. Il condottiero della ‘marcia’ esce una seconda volta dal fortilizio e si presenta in prefettura, remissivo come il primo cittadino ubbidiente alla legge. Il prefetto gli comunica gli ordini del governo: è l’arresto.
La situazione si è capovolta. Il panico scompiglia  le file fasciste. Lo Stato si difende?
“Tradimento! Tradimento!”, urlano i fascisti. Ma lo scompiglio non dura a lungo. Alle 12.40 dello stesso giorno 28, l’Agenzia Stefani (agenzia giornalistica (come l’attuale ANSA) comunica: “Lo stato d’assedio è revocato”. Che cosa è mai avvenuto? Semplicemente questo. L’onorevole Luigi Facta (1861-1930) si è presentato al re per la firma del decreto di stato d’assedio, insieme deciso.
Il re ha risposto: “È impossibile, io non posso firmare un decreto simile”. L’onorevole Facta ha insistito rispettosamente. Invano.
“Desidero”, dirà più tardi il re all’onorevole De Vecchi, “che gli italiani sappiano che io solo non ho voluto firmare il decreto di stato d’assedio”.
“Viva il re!” gridano i fascisti… L’esercito rientra nelle caserme.
Il 29, Mussolini riceve dal re l’invito telegrafico di formare il ministero. Parte da Milano e arriva a Roma il giorno dopo. Roma è in festa. Sventolano bandiere tricolori e si formano cortei.

Le colonne fasciste, rinfrancate, riprendono baldanza. Esse sono ancora troppo lontane da Roma. Le più vicine sono a 100 Km. Occorre del tempo perché possano arrivare in città. Il governo invia loro viveri e direttive di marcia. Solo due giorni dopo, il 31, entrano in Roma e sfilano, deliranti, di fronte al Quirinale.

Il re è al balcone. Al suo fianco sono la famiglia reale e Mussolini in camicia nera. “Viva il re!” acclamano, per ore, le ‘camicie nere’.
“Ma è il re dunque che ha fatto la marcia su Roma?” commenta il popolino.

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