LE ARTI NELLA BELLE EPOQUE

LE ARTI NELLA BELLE EPOQUE

Il modernismo

“Modernismo” è il termine col quale si indicano genericamente le diverse correnti artistiche affermatesi tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento e se ne sottolinea la comune tendenza a mettersi al passo con lo sviluppo della civiltà industriale nei suoi aspetti più innovatori. Come per la letteratura, anche nel campo delle arti l’atteggiamento verso il passato fu di sostanziale rottura, di rifiuto degli antichi modelli ottocenteschi, sia sul piano del contenuti che su quello dello stile. Nell’ambito del modernismo, inoltre, venne manifestandosi una certa volontà di avvicinare l’una all’altra le arti maggiori (architettura, scultura, pittura) anche in rapporto alle loro applicazioni pratiche (edilizia, arredamento, abbigliamento, ecc.). Si ricercò una funzione nuova per la decorazione e si tentò di elaborare uno stile capace di imporsi su tutta l’area culturale europea.

Nel fervore “modernista”, infine, era chiaramente avvertibile lo sforzo di esaltare i valori spirituali di una epoca che in realtà non sembrava lasciare molto spazio a tale generosa aspirazione. In seguito, quando i connotati della civiltà industriale si fecero, nel bene e nel male, più netti e quando più chiare ne emersero le contraddizioni, il modernismo si dissolse, generando le cosiddette “avanguardie” artistiche, portatrici di concezioni radicalmente nuove.

Casa Batlló di Antoni Gaudí

Urbanistica e architettura

Ho già ricordato come l’architettura fosse venuta trasformandosi in qualcosa di più complesso, intimamente collegato al modo in cui crescevano le città per effetto dell’espansione industriale. Lentamente prima, con ritmo sempre più accelerato poi, i centri urbani si evolvevano assumendo volto e funzioni del tutto nuovi. L’afflusso di grandi masse umane, attirate dalla prospettiva di un lavoro stabile e redditizio in una industria che richiedeva continuamente mano d’opera, creava problemi gravi che ponevano l’esigenza di una modifica alla radice delle strutture cittadine. Problemi di difficilissima soluzione, poiché se tutti concordavano sulla loro esistenza, aspro era invece il disaccordo sulla maniera di risolverli.
Interessi conservatori si opponevano infatti ad ogni proposta rinnovatrice, tendente a incidere sui valori tradizionali – economici, politici, sociali e culturali – che erano alla base della vecchia ossatura delle città. Nota giustamente il critico G. C. Argan: “La storia dell’urbanistica è la storia del conflitto tra una scienza rivolta all’interesse della comunità e la coalizione degli interessi e dei privilegi privati; una storia di programmi rimasti inattuati e di interventi parziali” (da “L’arte moderna 1770-1970“, Edizioni Sansoni, Firenze).

Da tale conflitto – della cui asprezza siamo testimoni, oggi, in misura ancor maggiore che nel passato – non poteva derivare che una pratica urbanistica improntata al compromesso fra gli opposti interessi, più spesso rivolta a mortificare i bisogni, oltre che la dignità, degli strati cittadini più poveri. Basti pensare a quanto avvenne a Parigi, sul finire dell‘Ottocento, con la creazione dei “boulevards”, grandi arterie cittadine per lo scorrimento veloce del traffico ottenute “sventrando” i quartieri popolari e sospingendo alla periferia importanti masse urbane; basti pensare a quanto fu realizzato a Roma e Napoli, a imitazione del modello francese, con i massicci sventramenti nell’area del centro (la via Nazionale nella capitale e il cosiddetto “rettifilo” nella città partenopea) e con analoghe conseguenze.

Questa, in sostanza, era la logica prevalente, contro la quale si levavano le voci appassionate di architetti e di ingegneri che prospettavano per le città una dimensione affatto diversa. Ai primi del Novecento, il francese  Tony Garnier (Lione, 13 agosto 1869 – Roquefort-la-Bédoule, 19 febbraio 1948) proponeva una “città industriale”, costruita a misura di una comunità completamente impegnata nella produzione e nella quale figura predominante doveva essere quella del lavoratore, “cittadino” per definizione (1).

Allo studio di nuove ipotesi urbanistiche si accompagnava, naturalmente, il tentativo di stabilire alcuni punti fermi sul piano dello stile. Poiché era generale convincimento che non si potesse definire la forma architettonica di una città facendo astrazione dalle sue funzioni effettive, ingegneri e architetti si trovarono dinanzi a un problema arduo: le fabbriche, infatti, avevano contribuito non poco a conferire ai grandi agglomerati urbani un aspetto deprimente, grigio, ferruginoso, cosa che contrastava assai nettamente con le proposizioni degli urbanisti. Questi pensarono allora che si dovesse mobilitare l’arte per abbellire le città e renderle gradevoli a coloro che dovevano viverci.
Ne scaturì la creazione di uno stile che era espressione tipica del modernismo: l’art nouveau (arte nuova), ovvero stile floreale o liberty.

Perché floreale? Semplicemente perché si cerca di riprodurre nelle città le forme festose e armoniose della natura, della campagna. Ci si sforza, in altre parole, di portare nei centri urbani un surrogato di quegli elementi naturali ormai sempre più lontani dalle moderne “foreste di pietra”.

Partendo da questo presupposto, gli architetti ricorrono al “floreale” non tano per abbellire un singolo edificio quanto per operare sulla fisionomia dell’ambiente urbano nel suo insieme. I materiali adatti per il tipo di ornamentazione proposto dall’ “art nouveau” abbondano e sono reperibili a basso costo: possono quindi essere utilizzati senza parsimonia, come suggerisce la fantasia dei costruttori.

Hotel Tassel – Victor Horta

Gli esempi sono molti e tipici: le stazioni del “metrò” parigino vengono ornate da Hector Guimard (Lione, 10 marzo 1867 – New York, 20 maggio 1942)  con cancelli in ferro battuto riproducenti forme simili a fiori; lo spagnolo Antoni Gaudí (Reus, 25 giugno 1852 – Barcellona, 10 giugno 1926) costruisce edifici che sembrano altrettante sculture, ricchi di smalti e ornamenti in mosaici; così Victor Horta (Gand, 6 gennaio 1861 – Bruxelles, 9 settembre 1947) realizza la facciata della “Maison du Peuple” e la casa dell’Avenue Louise a Bruxelles, usando con larghezza decorazioni in ferro battuto.

Ma “art nouveau” non è solo decorazione di edifici: uno dei suoi più autorevoli esponenti, il belga Henry van de Velde (Anversa, 3 aprile 1863 – Oberägeri, 25 ottobre 1957) sostiene infatti che esso deve ispirare, in eguale misura, la costruzione di un palazzo, di una scrivania o di una sedia. Gli urbanisti devono cioè rivolgere la loro attenzione tanto all’ambiente quanto all’individuo: un unico discorso formale, afferma Van De Velde, deve armonicamente collegare il mobile, l’appartamento, l’edificio, il quartiere, la città.

Tuttavia, nonostante le premesse umanitarie da cui era partita (rendere più accettabili le città per coloro che vi lavorano e vi abitano) questo tipo di arte non fu popolare: via via privata di quegli elementi che potevano suonare come critica al modo in cui veniva organizzandosi la civiltà dell’industria, essa finì col mettersi al servizio di quest‘ultima e degli interessi che ne erano alla base.

La condizione del cittadino-lavoratore non si modificò, l’operaio rimase confinato in quartieri squallidi e tetri,  col solo – e assai relativo – vantaggio della vista dei fiori in ferro battuto generosamente distribuiti sulle facciate di edifici che erano le restavano simboli di un potere e di una condizione a lui sostanzialmente ostili. Non a caso l’ “art nouveau” declinò proprio nel momento in cui lo scoppio della guerra mondiale rendeva manifesta, tra l’altro, l’inconsistenza dei propositi umanitari della borghesia capitalistica.

(1) è attorno a questo periodo che nasce, con caratteristiche del tutto particolari a causa delle specifiche condizioni di ambiente, la moderna urbanistica americana. L’occasione venne dalla necessità di ricostruire Chicago, distrutta nel 1871 da un terrificante incendio. L’esigenza di utilizzare al massimo gli spazi – dettata dalla visione di una città molto concentrata – spinse alla costruzione dei primi grattacieli in struttura metallica. L’architettura si orientò così verso le grandi dimensioni, in funzione dell’intenso ritmo della vita d’affari americana.

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