PARTIGIANI DI TUTTO IL MONDO SUGLI SCHERMI

Giovani partigiani (1951) film della Corea del nord

PARTIGIANI DI TUTTO IL MONDO SUGLI SCHERMI 

Si ritiene comunemente che, a parte i festival cui partecipano pochi fortunati, l’estate sia una stagione morta per il cinema. Non è sempre vero. Capita d’estate, specie nelle grandi città, che anche le case americane organizzino delle rassegne retrospettive, le quali ci possono dare un utile panorama storico dei temi che una volta Hollywood trattava e oggi non tratta più. Tra questi temi, in primo luogo è quello della Resistenza.

Non pretendo di esaurire tutti i titoli, ma solo con quelli più noti possiamo vedere che, negli anni di guerra e di Roosevelt, Hollywood alimentava i suoi soggetti con i drammi dei popoli di tutto il mondo. Si può dire ancora una volta che l’esempio sia partito da Charlie Chaplin, il cui famoso Dittatore, prodotto già nel 1940, fu proiettato in Italia subito nel 1945, e poi misteriosamente tolto dalla circolazione.

Hollywood pullulava allora di cineasti e artisti europei costretti a rifugiarsi in America dalla dittatura o dalla guerra. Bertolt Brecht e Hanns Eisler collaboravano con Fritz Lang per Anche i boia muoiono; Joris Ivens dava consigli a Lewis Milestone per Fuoco a Oriente (ma poi il Ministero della Guerra gli vietò il Mikado troppo realistico del suo documentario sul Giappone per la nota serie Perchè combattiamo, di Capra e Litvak); Lubitsch, prendeva in giro come poteva gli hitleriani, in Vogliamo vivere (dall’amletico titolo originale To be or not to be); Zinnemann si affermava con La settima croce, da un romanzo della scrittrice comunista tedesca Anna Seghers; e Jean Renoir, in Questa terra è mia, pur senza riuscirvi, tentava di ricostruire laggiù il clima della sua patria occupata.

A questo proposito, il giudizio di uno storico come Sadoul è piuttosto duro. “Hollywood consacrò alla Francia un certo numero di film sulla Resistenza – leggiamo nell’ultimo volume apparso della sua monumentale Histoire générale du cinéma (Le cinéma pendant la guerre, De noël, Paris) -, ma così pieni di falsità che nel dopoguerra si rinunciò prudentemente a presentarli nel nostro Paese. Il nostro Paese occupato era, in questi film, popolato di “petainisti” convinti e di alcuni cinici che facevano il doppio gioco. A Parigi come a Roma, la scoperta che si poteva organizzare una resistenza, era portata di solito da un anglosassone paracadutato”.

C’è della verità, indubbiamente, nel sarcasmo dell’illustre critico; tuttavia, quando in tempi abbastanza più recenti abbiamo visto sugli schermi italiani un vecchio film americano come La croce di Lorena, confessiamo che il suo sincero antifascismo ci ha fatto piacere. Nonostante le inverosimiglianze, le approssimazioni e le grossolanità, dieci anni orsono il cinema americano, con alcuni dei suoi registi più esperti (Conway, Milestone, Garnett, ecc.) o dei suoi giovani di maggior talento (Dmytryk), poteva celebrare la Resistenza sovietica (Fuoco a Oriente), norvegese (La luna è tramontata.., La bandiera sventola ancora), francese (La croce di Lorena), tedesca (La settima croce), polacca (Vogliamo vivere), cecoslovacca (Anche i boia muoiono), cinese (La stirpe del drago), giapponese (I prigionieri di Satana), filippina (Gli eroi del Pacifico), ecc.

Potrebbe, questo, succedere oggi?

È naturale che le cinematografie dei paesi europei occupati dai nazisti abbiano rievocato la resistenza dei loro popoli con toni autenticamente drammatici. Alcune di queste cinematografie hanno derivato da quella grande esperienza le loro opere migliori. Abbiamo già visto esempi francesi e italiani. Ma ci sono dei Paesi che hanno dedicato all’argomento nazionale un’intera serie di film, e sono quelli socialisti o di democrazia popolare.
Cito l’URSS con Arcobaleno.., Gli indomiti.., Il compagno P.., Zoia.., La giovane guardia, ecc., fino al più recente Uomini coraggiosi; cito la Polonia con L’ultima tappa.., Fiamme su Varsavia.., La città indomita.., La casa solitaria; cito la Cecoslovacchia con Barricata muta.., Uomini senz’ali.., L’oscurità bianca.., Le tane dei lupi.., Ghetto Terezin.., La trappola.., e perfino con un breve delizioso film di pupazzi, La rivolta dei giocattoli.

C’è indubbiamente un bel divario tra l’interpretazione della Resistenza offerta da certi cineasti conformisti, o addirittura collaborazionisti, di paesi marshallizzati, e l’approfondimento storico e ideologico che il tema assume in molte delle opere citate or ora, o, sullo stesso piano di difesa contro l’invasione, nei film della nuova Cina (Figlie
della Cina.., Campo di concentramento a Xinjiang), della Corea (Giovani partigiani) e del Vietnam (Il Vietnam combattente) Il divario sembra più acuto e risulta più immediato, se si paragonano i film dell‘una e dell’altra Germania: il qualunquismo e il cinismo della Germania di Bonn che rifugge dalle responsabilità giungendo, nel recente film del tedesco Helmut Käutner realizzato in Austria-Jugoslavia, L’ultimo ponte, a non saper scegliere tra partigiani e nazisti; e il serio esame di coscienza degli artisti democratici, iniziato nel 1945 con Gli assassini sono tra noi (il medesimo titolo che, a suo tempo, Hitler proibì a Fritz Lang) e proseguito ad esempio dallo stesso regista Wolfgang Staudte col film Rotation, di cui tutti hanno apprezzato il valore al festival di Locarno.

Cosi bisogna riconoscere che c’è differenza tra la posizione ambigua di un film come quello austriaco di Georg Wilhelm Pabst, Duello con la morte, dove un professore d’università combatte la Gestapo vestendo la divisa delle SS e adoperandone i metodi, e la schiettezza del film. sulla Resistenza del popolo danese, La terra sarà rossa (1946), o del documentario olandese presentato a Cannes lo stesso anno, Sulla strada insieme, girato durante l’occupazione a rischio della vita e degno della scuola di Joris Ivens.

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Tralasciando gli altri Paesi, veniamo a parlare della situazione presente in Italia. I tempi della documentazione garibaldina (Giorni di gloria; curato nell’immediato dopoguerra da De Santis, Visconti, Pagliero), del racconto appassionato con tutto il calore dell’attualità (Il sole sorge ancora), sono certo trascorsi. Ma nessuno, nè i registi, nè i produttori intelligenti, può pensare onestamente che l’argomento della Resistenza sia esaurito. Carlo Lizzani, che ha già fatto Achtung, banditi! ed è sempre stato uno dei più convinti assertori della necessità di sviluppare questo tema, sta studiando un nuovo film con la collaborazione di Ferruccio Parri. Un altro progetto è quello di Massimo Mida, di portare sullo s‘chermo L’Agnese va a morire, il romanzo partigiano di Renata Viganò. Ma il progetto più grande sarebbe il film sui sette fratelli Cervi. Lo stava affrontando Pietro Germi quando, accortosi che quarta famiglia di eroi nazionali era ed è una famiglia di comunisti, agli, da buon socialdemocratico, preferì rinunciare all’impresa.

Con i Cervi infatti, con le loro opere, la loro vita e la loro morte, già si scrive la storia più progredita dei nostro Paese.

Il tema del patriottismo e della libertà è eterno. Alessandro Blasetti, nel film sui Mille di Garibaldi intitolato 1860, precorreva l’epopea patriottica attuale con la resistenza dei picciotti siciliani. Un giovane regista come Piero Nelli, con quale maturità può interpretare un episodio del nostro Risorgimento nel suo primo film La pattuglia sperduta, trasformando con naturalezza i soldati di Carlo Alberto in partigiani. Un altro regista esordiente, Fausto Fornari, ha
girato uno dei più commoventi cortometraggi dell’epoca con le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, breve film che, premiato a Venezia, è stato vergognosamente tenuto lontano dai nostri schermi.

Intanto sono apparse, in un nuovo volume, le Lettere ai condannati a morte della Resistenza europea. Nel mondo del cinema si parla tanto di (co-produzioni non mercantili. ma artistiche, tra le diverse nazioni, e si auspica anche in questo campo la collaborazione internazionale.
Quale soggetto sarebbe più nobile e più elevato di queste lettere, per un film veramente europeo?

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