WILLIAM FAULKNER – Vita e opere

WILLIAM FAULKNER

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William Faulkner divenne celebre con un romanzo scritto per fare un po’ di quattrini, fu acclamato come portabandiera di tutte le avanguardie letterarie, venne quindi dimenticato e sepolto come un . provinciale che aveva avuto già troppa gloria, fu infine riscoperto da un grande critico e lanciato alla conquista del premio Nobel; ma nessuno riuscì mai a trarlo dal fondo della sua scontrosa solitudine, del suo splendido isolamento.

Era un uomo del Sud, un antico aristocratico che respingeva in blocco il mondo moderno, il campione di una razza di cui si va smarrendo perfino il ricordo.
Chi ha letto anche uno solo dei suoi libri tortuosi e impossibili, aggrovigliati e stupendi, l’immagina come una specie di gigante nel cui sangue bollivano e si scontravano passioni violente, conflitti insanabili, tempeste da tragedia greca.
E invece era un tipo minuto, piccolo di statura, tutto pelle e ossa: un contadino del vecchio Sud che sognava a occhi aperti la meravigliosa epopea dei padri al tempo della guerra di Secessione e malediceva l’epoca in cui il destino lo costringeva a vivere.
Per lui la parola “onore” aveva il significato di un comandamento biblico, di un precetto assoluto che il Nord, mercantile e affarista, aveva calpestato, avvilendo la divinità dell’individuo in una religione nazionale delle viscere, nella quale l’uomo non ha doveri verso la propria anima.
E appunto per combattere contro questa che egli riteneva una degenerazione, fino all’ultimo dei suoi giorni si batté col furore di un cavaliere antico e la suprema follia di un Don Chisciotte moderno, convinto com’era, tra l’altro, che solo un grande fallimento, lo avrebbe laureato scrittore di statura universale.

LA CONTEA FAVOLOSA

Si chiamava William Faulkner ed era figlio di un allevatore di cavalli, poco meno che povero. Ma nel vecchio Sud dove aveva visto la luce, il Sud percorso dal gran fiume Mississippi, il nome che portava aveva ancora, durante la sua infanzia, un significato prestigioso. Infatti il suo bisnonno William Falkner (la u fu aggiunta in seguito al cognome) era stato uno degli eroi della guerra di Secessione, che aveva opposto il Sud aristocratico e tradizionalista al Nord mercantile e dinamico.
Comandante del 2° Reggimento di Fanteria del Mississippi, il colonnello Falkner aveva riempito delle sue gesta tutta la regione, diventando un personaggio leggendario.
Questo personaggio sconcertante, mezzo pioniere e mezzo avventuriero, non fu però soltanto un valoroso soldato. Toccò a lui, alla sua intraprendenza, costruire la prima ferrovia dello Stato.
Ma non basta. Fu anche scrittore. Pubblicò parecchi romanzi, tra cui uno, La rosa bianca di Memphis, ebbe un clamoroso successo presso il pubblico. E concluse infine la sua vita “inimitabile” con una morte violenta in duello: esattamente la morte che più si addiceva al personaggio che aveva cosi magnificamente impersonato.

Non c’è quindi da meravigliarsi che il pronipote ne idealizzasse la figura, ponendola al centro di alcune vicende romanzesche, tutte ambientate nella favolosa contea di Yoknapatawpha, che funge da sfondo alla maggior parte dei romanzi e dei racconti di Faulkner.
Nella trasposizione fantastica e mitizzata del suo cantore, l’eroico colonnello assume il nome di John Sartoris, e noi lo vediamo campeggiare, per esempio, nel romanzo Gli invitti, una delle opere più eloquenti dedicate da Faulkner al vecchio Sud.

Questo, tuttavia, non significa che Faulkner sia uno scrittore da “memorie di famiglia”. Al contrario, egli non indulge mai alle tenerezze sentimentali dei ricordi, diretti o ereditati. La sua ambizione è di tutt’altra natura: è di “cantare” coralmente tutto intero il Sud, contrapponendo le sue antiche virtù ai vizi del Nord.
Yoknapatawpha è nome indiano; vuol dire “acqua che scorre attraverso la pianura”. Di questa contea immaginaria Faulkner fa il teatro di un’epopea che non ha l’eguale nella storia letteraria del Novecento.
È curioso e significativo il fatto che di Yoknapatawpha noi abbiamo notizie precise e minuziose forniteci dallo stesso Faulkner. Come è noto, di essa lo scrittore disegnò varie carte geografiche, su una delle quali, quasi a ribadire i diritti inviolabili della fantasia, scrisse: “William Faulkner, unico proprietario titolare”.

Dunque Yoknapatawpha comprende un territorio di 2400 miglia quadrate e ospita complessivamente una popolazione di 15.611 anime, in gran parte contadini e boscaioli, di ciascuno dei quali idealmente Faulkner conosce a memoria vita, morte e miracoli, come si suol dire. Ecco perché può raccontarne le gesta senza preoccuparsi di ordinare i fatti in una precisa successione cronologica, anzi mescolando a bella posta passato, presente e futuro.
Capitale della contea è Jefferson, una tipica cittadina del Sud, che per certi aspetti può ricordare Oxford, nel Mississippi, dove Faulkner visse da ragazzo, ma eretta a simbolo di tutto un mondo perduto, che la fantasia del romanziere ricrea col disperato amore delle cose troppo a lungo sognate e idealizzate.

UNA VITA DA ROMANZO

Nella immaginaria contea di Yoknapatawpha non figura, anagraficamente, il cittadino William Faulkner, che risulta nato a New Albany, il 25 settembre 1897.
Ma se mai una persona reale dovesse entrare nella favola romanzesca di Jefferson e dintorni, questa persona non potrebbe essere altra che lo stesso Faulkner.
Se appena consideriamo a grandi linee la sua vita, William Faulkner ci appare come un vero e proprio personaggio da leggenda, che si colloca bene solamente nel clima teso e un poco allucinato di Jefferson. Qui egli respira a proprio agio e cammina tra la gente, sicuro che nessuno gli chiederà mai se il tale o il tal altro episodio che gli piace raccontare di sé sia vero o sia falso. Potrà sembrare strano per un autore così celebre, ma la verità è che non esiste una sola biografia dello scrittore che sia completamente veritiera.
Tutti i biografi hanno aggiunto qualcosa al ritratto del personaggio Faulkner, senza che l’interessato abbia battuto ciglio e abbia cercato in qualche modo di correggere errori, denunciare inesattezze.
“L’importante è che parlino di me” ebbe a dichiarare una volta cinicamente. Ma in realtà la sua non era niente altro che una suprema indifferenza per le chiacchiere della gente.
Non a caso, del resto, Faulkner non si è mai preoccupato di leggere che cosa scrivevano i critici dei suoi libri.

“Io non leggo niente dei contemporanei – precisò a un giornalista che lo intervistava dopo il conferimento del premio Nobel, nel 1950. – Io sono un contadino. Vivo in provincia, nella mia fattoria, e allevo cavalli come mio padre. Se sento il bisogno di aprire un libro, prendo un classico. Shakespeare, per esempio. E mi basta”.

In un certo senso, era vero. Guai però a prenderlo in parola, a credergli alla lettera. Dietro la sua scontrosa facciata contadina Faulkner era un letterato agguerritissimo, che coscientemente aveva frantumato il grande romanzo ottocentesco per giungere a penetrare al di là dell’apparenza delle cose, per portare avanti il discorso iniziato da scrittori d’avanguardia come James Joyce, il “profeta” del “monologo interiore” e del “flusso della coscienza”. Ma tutto questo non accadde subito né tutto d’un colpo.
Lettore disordinato, insofferente d’ogni disciplina, Faulkner si formò la propria cultura al modo tipico degli autodidatti, imparando molto dalla vita e poco dai libri, almeno finché non ebbe trovato ciò che cercava.
Allora partì a galoppo sfrenato, come un cavallo di razza; e nessuno lo fermò. Solo la morte ebbe il potere di arrestare per sempre il suo cammino.

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GLI ANNI DELLA MATURAZIONE

William Faulkner non compì studi regolari. A Oxford, nel Mississippi, dove suo padre si trasferì con la famiglia quando egli era ancora bambino, frequentò svogliatamente le scuole pubbliche, senza però giungere a conseguire il diploma che gli avrebbe consentito di iscriversi all’università.
Fannullone per istinto e ficcanaso per vocazione, piuttosto di seguire lezioni, che non lo interessavano minimamente, preferiva andarsene in giro per la città ad ascoltare i discorsi della gente.
Ben presto, suo padre dovette cominciare a preoccuparsi di quel figlio lunatico e scansafatiche, che non prometteva nulla di buono. Ma non ci fu modo di raddrizzarlo e di metterlo sulla giusta via. Cosi, senza arte né parte, il futuro romanziere arrivò ai vent’anni.

A questo punto, un intervento esterno giunse opportunamente a salvare dall’accidia il pronipote del colonnello Falkner, che si scoprì a un tratto un sangue guerriero nelle vene. Forse solo per evadere dalla noia di Oxford, forse per compiere anche lui qualche impresa grande o forse per tutti e due questi motivi insieme, il giovane decise di andare a combattere in Europa, sui fronti insanguinati della prima guerra mondiale.
Ma con quale divisa gettarsi nella lotta?
Un sudista arrabbiato come lui non poteva certo accettare l’uniforme degli Stati Uniti. E allora?
William Faulkner saltò l’ostacolo psicologico arruolandosi volontario nell’aviazione canadese che a sua volta, dopo un periodo d’istruzione, lo trasferì nella Royal Air Force britannica.

Era fatta. Compiuto l’indispensabile tirocinio, l’aviatore William Faulkner sbarcò in Francia, sognando di conquistarsi la gloria sui campi di battaglia. Qui, purtroppo, l’armistizio Io colse prima che avesse potuto cimentarsi in una sola vera azione di guerra.
Un altro avrebbe accettato la beffa del destino. Lui no. In un momento di furore, balzò su un apparecchio da caccia, si librò nel cielo, e al termine di una serie di pazze acrobazie mandò l’aereo a sfasciarsi rovinosamente su uno dei margini del campo di aviazione.
L’avventura era finita. Seriamente ferito, ubriaco di gin, William Faulkner fu estratto dai rottami fumanti dell’apparecchio e trasportato in ospedale.
Una volta guarito, venne poi rimandato a Oxford, dove non gli riuscì difficile atteggiarsi a eroe.
Ma c’era sempre il problema del futuro che lo assillava. Approfittando del fatto che ai reduci non veniva richiesto alcun diploma, si iscrisse all’università, frequentò i corsi, parve mettere la testa a posto. Era però solo una fiammata passeggera: decisamente, non era tagliato per gli studi regolari.
E ricominciò la vita scioperata di un tempo. Per aggiungere qualche soldo al magro mensile che gli passava il padre, Faulkner si adattava a fare i più svariati mestieri.
Fu imbianchino, operaio in una fabbrica di falci, spalatore di carbone. Intanto, quasi di nascosto, scriveva poesie e racconti che inviava, pieno di speranza, a tutte le riviste degli Stati Uniti e che regolarmente gli venivano respinti.

In quest’epoca Faulkner era di una magrezza impressionante, si lasciava crescere sul volto una barba spettrale, fumava la pipa, e appena aveva qualche soldo in tasca correva a ubriacarsi. Molti lo ritenevano pazzo, nessuno era disposto a considerarlo dei tutto sano di mente. Invece era soltanto un giovane che cercava disperatamente di capire se stesso.

UNA STORIA DA FINIRE IN GALERA

Un giorno, stanco di Oxford, dove nessuno era disposto a prendere sul serio le sue manie letterarie, Faulkner raccolse le sue poche robe in una valigia e se ne andò a New York in cerca di fortuna. Qui però fu peggio che al Sud.
Alla disoccupazione, alla fame, si aggiunsero infatti un clima e un ambiente che il giovane assolutamente non riusciva a sopportare. Per un po’ di tempo si mantenne con l’unico impiego che gli venne offerto, quello di commesso in una libreria, poi trovò ridicolo sfacchinare per nulla e abbandonò la grande metropoli, raggiungendo a New Orleans il celebre scrittore Sherwood Anderson, che pareva disposto a dargli credito.
Fu una decisione importante in una vita piena di stravaganze.
Anderson stese una mano al giovane amico squattrinato, lo incoraggiò, gli diede dei buoni consigli, lo aiutò a pubblicare le prime poesie e i primi racconti.
Era l’inizio delta gloria? Neanche per sogno. Faulkner non piaceva al pubblico e non interessava i critici. La sua prima raccolta di versi fu un fiasco clamoroso e nella più assoluta indifferenza cadde il suo primo romanzo La paga del soldato che merita di essere qui ricordato perché è l’unico libro di narrativa in cui il futuro cantore di Yoknapatawpha si adatta a un modo di raccontare semplice, tradizionale.
Il fallimento letterario, comunque, non rimase senza echi nel cuore di Faulkner, che ancora una volta decise di ricominciare da capo. Ed eccolo lasciare New Orleans e imbarcarsi come mozzo su una nave diretta in Europa, lui che pure non amava il mare.
Erano gli anni in cui i migliori artisti americani cercavano l’evasione in terra di Francia. Ma Faulkner non seguì questa strada. Si fermò in Italia, sul lago Maggiore, e vi trascorse parecchi
mesi facendo il contadino. Quando fu sazio di questa nuova esperienza, si trasferì nella capitale francese, dove tuttavia frequentò assai raramente gli ambienti letterari. E infine scoccò l’ora della nostalgia, del ritorno.
William Faulkner riapparve a Oxford, la sua unica e vera patria. Aveva conosciuto del mondo quanto gli bastava per convincersi che l’unico posto dove potesse vivere era il suo Sud meraviglioso e povero, splendido e assurdo.
Ormai in pace con se stesso, Faulkner raccontò le sue esperienze di letterato nel mediocre libro Zanzare, che naturalmente non ottenne alcun successo; quindi, quasi senza accorgersene, trovò di colpo ciò che confusamente cercava da tempo scrivendo Sartoris, la storia mitizzata del fantastico colonnello Falkner, il bisnonno eroe e avventuriero.
Ma nemmeno quest’ultimo libro riuscì a rompere il silenzio che pesava come una maledizione sull’opera del fannullone pazzo di Oxford. Perché i critici si accorgessero di lui, Faulkner dovette pubblicare ancora un romanzo, L’urlo e il furore, che sbalordì e scandalizzò per l’audacia del metodo usato nella narrazione.
Infatti la storia – una fosca storia del Sud – è ripresa dall’autore con immagini folgoranti, attraverso le confuse impressioni di un ragazzo sordomuto, un mezzo idiota che scambia continuamente tra di loro due persone che hanno lo stesso nome, creando così una specie di allucinante suspense.

A una prima lettura, questo straordinario romanzo riesce per buona parte incomprensibile, perché solo chi conosce in anticipo i fatti può orizzontarsi nel groviglio del racconto, che si scioglie e chiarifica soltanto alla fine.
Ma lo stile di Faulkner, la sua inconfondibile personalità di narratore, anzi quasi dovremmo dire di poeta, si dimostra proprio in questa tecnica esasperata, che troveremo poi, più o meno rigidamente applicata, in tutti i suoi romanzi posteriori. Del resto, non a caso egli un giorno ebbe a dichiarare che non conta, per uno scrittore, ciò che dice ai lettori, ma come lo dice.

A ogni modo, L’urlo e il furore segnò l’ingresso ufficiale di Faulkner tra gli scrittori d’avanguardia, tenuti in considerazione dai critici. Di tale successo, il giovane cercò di approfittare per conquistare il pubblico con un libro truculento, ideato apposta per fare un poco di quattrini, cosa di cui aveva urgente bisogno.
Egli buttò giù il “romanzaccio” in poco tempo, lo intitolò Santuario e lo inviò al suo editore.
Quest’ultimo non abboccò al tranello. Dopo, aver letto il manoscritto, si rifiutò di pubblicarlo, affermando brutalmente che non intendeva finire in galera per aver dato alle stampe un libro
osceno.

LA GLORIA E L’AMORE

Il fallimento del suo progetto convinse Faulkner che egli non avrebbe mai guadagnato soldi con i libri. Perciò si diede da fare per ottenere un lavoro sicuro e l’ottenne alla centrale elettrica di Oxford, dove fu addetto alla manutenzione delle caldaie.
Era un impiego tranquillo, di tutto riposo. Per aver più tempo libero, Faulkner si fece assegnare il turno di notte durante il quale, senza essere disturbato da nessuno, scrisse un nuovo romanzo, Mentre morivo, che fu accolto bene dalla critica e completamente ignorato dal pubblico.
Ma ecco a un tratto la sorpresa.
Dopo averci ripensato, l’editore improvvisamente decise di correre il rischio di pubblicare Santuario, il cui manoscritto era rimasto in suo possesso. Senza nemmeno interpellare Faulkner, fece comporre il testo e mandò poi le bozze all’autore per la correzione.

Santuario racconta la storia di una ragazza, Temple Drake, a cui un feroce gangster, Popeye, usa violenza. Intorno a questo nucleo centrale, si snoda tutto un mondo di orrori che Faulkner racconta con una audacia incredibile. È vero: Popeye alla fine paga i suoi crimini con una condanna a morte, che gli viene inflitta per un delitto che non ha commesso, ma anche questa tardiva giustizia, in un certo senso, fa parte di un mondo senza redenzione, irrimediabilmente perduto.
Faulkner si mise in contatto con l’editore e ottenne di riscrivere il libro, impegnandosi in cambio a pagare le spese della stampa. Così, nel 1931, apparve in vetrina la nuova edizione del romanzo Santuario.
È basato su un’idea da poco, – disse allora Faulkner – ma, chissà, forse riuscirò a venderne diecimila copie.
Invece si sbagliava. La battaglia, che da lungo tempo aveva ingaggiato per conquistare le simpatie del pubblico, era destino che la vincesse clamorosamente proprio con quello che considerava il peggiore e il più commerciale dei suoi libri, Santuario sconvolse gli Americani, li scandalizzò e affascinò insieme, li convinse di avere a torto ignorato un grande scrittore.
Quasi interpretando il sentimento generale, un’opulenta matrona un giorno avvicinò lo scrittore e lo sommerse in un abbraccio soffocante.
Signor Faulkner – gli disse – voi siete un genio.
Il futuro premio Nobel rispose con un filo di voce: Signora, faccio quello che posso.

Intanto, con sorridente distacco, accettava la gloria che gli pioveva addosso. Diventato di colpo un autore alla moda, fu chiamato a Hollywood, cominciò a lavorare per il cinema, diede un addio definitivo alla miseria. Ma più che mai si sentiva legato al Sud. Così acquistò una grande casa, l’arredò con una magnificenza principesca, ne prese possesso come un vecchio aristocratico che rifiutava il miraggio del Nord. E vi condusse la donna che aveva sempre amato, la compagna d’infanzia Estelle Oldham.
Questa donna è l’unico amore che si conosca di William Faulkner.
La desiderava fin da quando era ragazzo, ma era troppo povero per poter osare di chiederla in sposa. Perciò si tenne in disparte e non batté ciglio quando lei prese marito e abbandonò Oxford. Ma non perse mai la speranza di raggiungerla, un giorno. E infatti fu così.
Estelle tornò a Oxford, vedova e con due figli da mantenere. Faulkner allora le rivelò i suoi antichi e immutabili sentimenti, la convinse a sposarlo, fece di lei la regina della sua casa, impazzì dalla gioia quando divenne padre di una bambina. E poi non pensò ad altro che a scrivere, ad allevare cavalli, a scapricciarsi in folli voli con l’aereo personale, che non tardò ad acquistare in omaggio ai sogni di gloria della gioventù.

Adesso i lettori non gli mancavano. Tuttavia, benché pubblicasse capolavori come Luce d’agosto e Oggi si vola, il colpo di Santuario, non gli riuscì più.
Ma che cosa importava? Quando aveva bisogno di quattrini, Faulkner ricorreva a Hollywood, al cinema.
Poi, quasi a un tratto, qualcosa cambiò in America e la sua fama parve spegnersi. La seconda guerra mondiale seppellì letteralmente la sua opera, al punto che nel 1947 nemmeno una copia dei suoi libri si trovava ancora in commercio.
Fu allora che il critico Malcolm Cowley “riscoprì” Faulkner e rivelò agli Americani chi era in realtà il loro più grande narratore vivente. Ebbe inizio cosi la seconda giovinezza del solitario del Mississippi, che nel 1950 si vide proiettato sulla ribalta del mondo dal premio Nobel.
Si trattava però di un riconoscimento che ormai non poteva aggiungere più nulla alla sua fama.
Infatti Faulkner lo accolse con calma, presentandosi a Stoccolma come un vecchio contadino, stupito che la gente avesse preso tanto sul serio le sue n favole.
E continuò a scrivere, a raccontarci le storie meravigliose della immaginaria contea di Yoknapatawpha (salvo l’intermezzo del grande romanzo Una favola), finché un giorno di estate del 1962, e precisamente il 6 luglio, il suo cuore si fermò di colpo, mandandolo a raggiungere nell’immortalità il bisnonno Falkner-Sartoris, il leggendario colonnello che nella sua fantasia egli aveva visto sempre in sella, al galoppo nella polvere dell’eroico Sud.

LA SUA OPERA

A parte le poesie e il romanzo giovanile La paga del soldato, tutta l’opera di William Faulkner si presenta come un vasto poema che ha il suo punto di maggior splendore nel ciclo narrativo dedicato alla contea di Yoknapatawpha. Perciò il lettore che volesse accostarsi per la prima volta a questo suggestivo e sconcertante romanziere non ha che l’imbarazzo della scelta tra i molti titoli che le vengono offerti, da L’urlo e il furore a La città, da Santuario a Requiem per una monaca.
Benché forse il suo capolavoro sia Luce d’agosto, Faulkner è grande in tutti i libri che ha scritto, ciascuno dei quali possiede almeno delle pagine stupende. Ma è difficile accostarsi al suo mondo, capire il suo stile tutto lampi e immagini, retorica e poesia. Per questo, la guida migliore per capire e apprezzare Faulkner è il grosso volume che alla sua opera ha dedicato il critico Malcolm Cowley.
Questo libro, infatti, che s’intitola 664 pagine di William Faulkner, comprende una ricca e varia antologia di scritti faulkneriani, tutti accuratamente scelti, ordinati e spiegati.
Dopo una così interessante introduzione, ciascuno potrà poi proseguire per conto proprio e accostarsi all’opera dello scrittore, perdendosi nell’affascinante giungla di tanti romanzi impossibili.

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