ILLUMINISMO E FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

ILLUMINISMO E FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

 

Un amico desidera sapere se l’idealismo è in antitesi con l’illuminismo oppure se è la continuazione di quest’ultimo nella fase post-rivoluzionaria. Ritengo opportuno rispondere con una certa ampiezza al quesito proposto, poiché esso ci dà modo di inquadrare – sia pure solo nelle linee più generali – un interessante problema di storia della filosofia e della cultura, non privo, tra l’altro, di riflessi nella situazione attuale.
L’idealismo cui allude il mio amico è, evidentemente, quel ricco e profondo moto di pensiero che si svolge in Germania negli ultimi decenni del diciottesimo secolo e nei primi tre o quattro del diciannovesimo, e che va correntemente sotto il nome di filosofia classica tedesca.
Ma fatta tale precisazione, non è possibile passare senz’altro ad affrontare il nostro quesito. Anzitutto va osservato che l’illuminismo non fu una corrente filosofica propriamente detta, ma piuttosto un atteggiamento spirituale, una generica anche se efficacissima direzione di pensiero; in secondo luogo – ed è questa la considerazione più importante – la filosofia classica tedesca non è stata un movimento unitario, compatto, in progressivo armonico sviluppo, ma un filone che, pur nella sua continuità, ha trovato una fondamentale differenziazione interna nell’idealismo critico di Kant, da un lato, e nell’idealismo assoluto dei
postkantiani, dal1’altro.
Ora, se il pensiero di Kant rientra per certi aspetti nell’ambito dell’illuminismo o comunque non può venirne considerato estraneo, affermazione analoga non si può certo fare per quanto riguarda i grandi pensatori successivi, Fichte e soprattutto Schelling ed Hegel. Bisogna quindi ben guardarsi dal fare di ogni erba un fascio, e distinguere attentamente i due momenti in seno alla filosofia classica tedesca.

La critica della ragione

Chi legga con un minimo di sensibilità la prefazione alla prima edizione della Critica della Ragion pura (1781), ha subito modo di constatare quanto l’opera di Kant sia figlia del proprio tempo e come essa, pur avendo caratteristiche proprie, autonome e inconfondibili, appartenga al clima spirituale dell’illuminismo. “Il tempo nostro – scrive il filosofo di Königsberg con una frase bellissima e significativa – è proprio il tempo della critica cui tutto deve sottostare. Vi si vogliono sottrarre la religione per la santità sua e la legislazione per la sua maestà. Ma cosi esse lasciano adito a giusti sospetti e non possono pretendere a quella incondizionata stima che la ragione concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame”.

Lo “scandalo” dell’età dei lumi – lodevole, benefico scandalo – fu quello, come si sa, di misconoscere qualsiasi autorità esterna di qualunque specie essa fosse. e di sottoporre religione, concezione della natura, società, ordinamento dello Stato alla critica più spregiudicata. “Tutto doveva giustificare la propria esistenza davanti al tribunale della ragione o rinunziare all’esistenza”.(Engels). Ma neppure la ragione doveva sottrarsi alla regola generale: essa doveva compiere la sua autocritica, doveva intraprendere, come dice ancora Kant, “il più grave dei suoi uffici: erigere un tribunale a se stessa, che la garantisca nelle sue pretese legittime ma condanni quelle che non hanno fondamento”.
Prima di Kant, generazioni e generazioni di filosofi, con accanimento da predicatori, avevano fatto un mucchio di affermazioni, altrettanto categoriche quanto contrastanti, su Dio, sull’anima, sulla sostanza e sull’essenza, ecc. ecc. Viene Kant e dice: tutte queste speculazioni saranno quanto si vuole ingegnose, risponderanno pure ad un bisogno dello spirito umano, ma sono destituite di fondamento, sono gratuite, per il semplice motivo che trascurano ciò che è assolutamente pregiudiziale: ossia un esame delle nostre capacità e possibilità razionali, una riflessione critica sulla validità e sul significato delle nostre proposizioni e dei nostri discorsi. Con Kant insomma, la cui opera è in questo senso preceduta e stimolata da quella degli empiristi inglesi, viene meno l’ingenuità dogmatica del pensiero filosofico. L’idea di una specie di armonia prestabilita tra il pensiero del filosofo e le “cose”, in virtù della quale ogni affermazione o deduzione sul piano mentale avrebbe una esatta corrispondenza sul piano dell’essere, viene respinta come un pregiudizio. Chi dice che esista questa armonia, questa corrispondenza?
Se io escogito una “prova” che mi sembra convincente dell’esistenza di Dio (questione che non ha niente a che vedere con i dati dell’esperienza), chi e che cosa mai può garantirmi del fatto che le cose stiano davvero cosi? E ancora: i concetti che adoperiamo efficacemente nei discorsi quotidiani del senso comune e in quelli ben più rigorosi che costituiscono il sapere scientifico, continuano ad essere validi e pertinenti anche nel discorso metafisico? Kant risponde negativamente.
Ecco dunque uno dei motivi fondamentali del criticismo: condanna della pretesa a trascendere l’esperienza, a lanciarsi nelle incontrollate e incontrollabili avventure speculative. Quella “realtà ultima” che i filosofi tradizionali prendevano ad oggetto delle loro meditazioni, viene da Kant dichiarata “inconoscibile”, inattingibile e tale quindi, almeno in un certo senso, da dover esser messa da parte. La sua posizione è certo estremamente ambigua e presta facile fianco alle critiche, ma sarebbe ingiusto non riconoscerle un significato e un valore nella polemica antimetafisica.
Mentre sbarra la porta al dogmatismo tradizionale, Kant vuole indagare i fondamenti e la struttura del1’unica conoscenza che è data all’uomo, quella che riguarda il mondo fenomenico. Come è possibile la matematica, come è possibile la fisica?
In base a quali condizioni (concettuali ed empiriche, a priori e a posteriori) possiamo affermare ad esempio che “ogni cangiamento ha la sua causa”? Questo è il problema che Kant tenta di risolvere (1).
Se poi, dall’ispirazione centrale, passiamo agli aspetti, diciamo così, secondari dell’opera di Kant, anche qui scorgiamo una traccia dell’impostazione illuministica con tutti i suoi meriti ma anche – non dobbiamo dimenticarlo – con la sua invincibile astrattezza. Un esempio tipico è dato dal celebre scritto sulla “Pace perpetua” in cui Kant espone le sue idee circa il futuro assetto della società internazionale.
Siamo ancora lontanissimi in queste pagine dallo spirito romantico-reazionario che celebrerà fra non molto la dignità suprema dello Stato e la politica di potenza come artefici della storia del mondo!

Idealismo assoluto

Mentre in Europa trionfa la Restaurazione, la Weltanschauung illuminista, già messa politicamente sotto processo per le sue responsabilità rivoluzionarie, viene condannata sul piano filosofico come intellettualistica ed antistorica.  Intanto, forzando l’interpretazione dei testi kantiani, il pensiero degli epigoni sviluppa una ardita metafisica idealistica. La “coscienza in generale” di cui aveva cautamente parlato Kant, l’Io penso “che deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni» diventa, con Fichte, l’Io che originariamente “pone” se stesso e oppone a sé il non-Io. Il Pensiero, l’Idea, diventano l’Assoluto, la “realtà ultima”; occupano il campo che Kant aveva prudenzialmente lasciato nell’ombra con la sua “cosa in sé”. Le dimensioni reali, concrete dell’uomo si perdono nella realtà universale dello “Spirito” di cui l`uomo effettivo, in “carne ed ossa”, diviene un momento o tutt’al più un portavoce (2).
La contrapposizione rispetto alla mentalità illuminista si disegna ormai chiaramente: la Ragione non è più considerata come la forza umana che illumina. vaglia, dirige, strumento di battaglia per un’organizzazione più razionale della società e della vita (3); la Ragione è ora l’anima stessa del mondo, dalla storia, una specie di Divina Provvidenza concepita immanentisticamente. Ed è qui, ci sembra, – a parte ogni altra considerazione – il fondo irriducibilmente conservatore dell’idealismo postkantiano di ispirazione più o meno romantica: ponendo infatti come un dato, come un fatto già scontato la razionalità del reale, si annulla con ciò stesso il problema della razionalizzazione di esso quale impegno, quale compito nostro il cui limite sia progressivamente spostabile in avanti. La lotta che gli uomini conducono, con indubbie possibilità ma senza garanzie assolute di successo, per migliorare la loro condizione e rendere meglio abitabile il mondo in cui hanno la ventura di trovarsi, non può avere la propria guida teorica in una filosofia che identifica le tappe della storia con la marcia trionfante e infallibile dello “Spirito”.
Una differenza radicale passa dunque tra l’orientamento illuminista e quello che si ispira all’idealismo assoluto; una differenza che, per venir compresa a fondo, deve essere ricondotta sul piano storico concreto. Mentre il primo orientamento era l’espressione di una borghesia in lotta, e in dura lotta, per la sua affermazione, il secondo offriva una suggestiva formula teorica all’ottimismo soddisfatto di una borghesia ormai in via di assestarsi sulle basi del proprio potere.

Molti decenni e molte esperienze di cultura – fondamentale tra tutte quella del marxismo – ci dividono dal periodo di fioritura della filosofia classica tedesca, e questo ci permette di guardare con serenità agli aspetti positivi e negativi; ai meriti e ai limiti di quelle posizioni di pensiero.
Dalla grande tradizione dell’idealismo ottocentesco abbiamo senza dubbio ereditato insegnamenti e conquiste di cui è difficile contestare l’importanza: un accentuato senso della storicità del reale (di cui effettivamente difettava l’età illuministica), e la concezione dialettica, sia pure avvolta in un involucro metafisico. Eppure, nonostante tutto, noi ci sentiamo oggi spiritualmente più vicini al polemico e combattivo razionalismo illuminista. che aveva una così forte vocazione progressiva, una così spiccata coscienza della sua missione pratica e universalmente umana.

(1) Kant fece compiere un notevolissimo progresso alla ricerca filosofica affermando che il concetto senza la percezione è vuoto e che la percezione senza il concetto è cieca, onde la necessità della loro unione, della loro sintesi per rendere possibile qualsiasi effettiva conoscenza. Ma avendo egli fatto provenire i due elementi da fonti diverse e indipendenti, finì poi coll’avvolgersi in difficoltà insuperabili.

(2) È questo un tasto molto battuto nella polemica di Feuerbach e del giovane Marx. La prefazione alla “Sacra Famiglia” si apre proprio con queste parole: “L’umanesimo positivo non ha in Germania nemico più pericoloso dello spiritualismo e dell’idealismo speculativo che pone al posto dell’uomo reale individuale l’Autocoscienza o lo Spirito…”. Della “Sacra Famiglia”, scritta in collaborazione da Marx e da Engels poco dopo il 1840.

(3) Intendiamoci: non che fosse questa l’impostazione dichiarata e ufficiale della filosofia illuminista (carica anch’essa, più che mai, di ingenuo dogmatismo); questa era però la prospettiva che implicitamente ne risultava e che si faceva tanto più evidente quanto più l’illuminismo si misurava su terreno politico.