HEGEL – La cultura contemporanea

Il filosofo Hegel in cattedra

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Dopo tanti anni dalla fine della seconda guerra mondiale il discorso su Hegel è ridiventato difficile e sottile in Italia, ma non solo in Italia. Nel secondo dopoguerra la cultura italiana dimostrava, nei suoi settori più vivi, insofferenza nei confronti di Hegel. Hegel, sia pure attraverso varie ‘riforme’ e reinterpretazioni, aveva ispirato la filosofia idealistica italiana, che, dopo la caduta del fascismo e la liberazione, sembrava una gabbia nella quale era stata rinchiusa la cultura italiana del Novecento. Certamente l’idealismo era stato anche, nella formulazione crociana, uno strumento di rifiuto intellettuale del fascismo; e a Hegel si erano ispirate certe correnti laiche della cultura risorgimentale. Ma ora tutto questo non sembrava più sufficiente. Al di là della moderata opposizione al fascismo, l’idealismo crociano appariva come il prodotto di una situazione, dall’idealismo mai compresa e analizzata, nella quale nascevano insieme idealismo e fascismo. Gramsci, entrato ampiamente nella cultura italiana proprio nel dopoguerra, forniva un’interpretazione dell’idealismo che permetteva di vederne tutte le connessioni con la situazione sociale italiana, di comprendere il suo carattere di chiusura provinciale della cultura italiana e di vedere i suoi limiti politici. La fortuna dell’idealismo italiano non si collocava in una storia intellettuale del mondo, nella quale esso potesse pretendere di essere la filiazione diretta della filosofia hegeliana, ma era il prodotto di una più modesta storia sociale italiana, nella quale trovavano posto la civiltà contadina, la questione meridionale, la funzione degli intellettuali nel tessuto sociale. In questa prospettiva si riapriva anche la questione dell’hegelismo risorgimentale, che appariva la difesa dello Stato laico sì, ma dello Stato laico separato dalle classi popolari, alle quali si presenta come potere, che gli intellettuali cercano di giustificare e di proteggere.

L’opera di Gramsci, nata a contatto della lotta politica, in riferimento a un preciso contesto sociale, presupponendo il pensiero di Lenin e l’esperienza della rivoluzione russa, apriva la possibilità di una filosofia marxista libera dall’eredità hegeliana. Arrivando a Hegel attraverso una critica dell’idealismo italiano, era assai facile vedere in Hegel soprattutto il filosofo dello Stato prussiano, il censore filosofico di una cultura asservita allo Stato. Certamente Hegel faceva parte del patrimonio culturale ereditato da Marx, un patrimonio che una filosofia marxista non avrebbe potuto liquidare con troppa disinvoltura; ma era pur sempre possibile insistere sulla differenza di Marx da Hegel, vedere in Marx colui che aveva liberato una tradizione culturale accettabile dall’ipoteca hegeliana, proprio passando attraverso Hegel, sottolineare la connessione di Marx con le scienze positive, con l’economia politica, con una certa eredità illuministica.
Un marxismo ‘dehegelianizzato’ s’inseriva assai bene in un quadro culturale dominato dalla preoccupazione di liberarsi dalla “chiusura idealistica”. La cultura filosofica italiana non aveva fatto, “per colpa dell’idealismo”, esperienze fondamentali della cultura internazionale: la fenomenologia, l’esistenzialismo, il neo-positivismo. Tutto il nostro quadro culturale appariva arretrato, con i suoi legami a vecchi temi letterari, anch’essi tuttavia trattati con metodi antiquati rispetto alle nuove tecniche delle quali anche le scienze letterarie ormai disponevano. E perfino la storiografia; che sembrava la pupilla dell’occhio idealistico, era rimasta la vecchia storiografia ‘civile’, immune dalle impostazioni economiche e sociologiche che si facevano sentire nella storiografia tradizionale. L’idealismo sembrava insomma la cultura tipica di una classe intellettuale privilegiata di una società contadina, tradizionalista, isolata dalla rivoluzione tecnologica, nella quale lo Stato è essenzialmente un apparato burocratico conservatore al servizio di chi ha il potere.
Un marxismo nato o rinato tenendo presente la precisa situazione sociale e culturale italiana, in cerca di aperture, sul piano politico come su quello culturale, verso altre forze progressiste, e una filosofia non marxista desiderosa di liberarsi delle chiusure idealistiche, di “ricuperare il tempo perduto”, di entrare in contatto con il mondo vario e mobile delle tecniche, ispirata a motivi illuministici e riformatori, potevano convergere nel giudizio su Hegel, vedendo in lui, sia pure ili modo diverso e con accentuazioni diverse, il filosofo dello Stato borghese e del potere. Certi accostamenti tra Marx e  Sören Kierkegaard come critici di Hegel diventavano emblematici.
Nel frattempo, però, i termini del discorso sono cambiati. L’Italia si è liberata della chiusura culturale, almeno in un certo senso. Le grandi mode culturali sono penetrate al di qua delle Alpi, hanno celebrato i loro riti anche presso di noi, e sono state bruciate sempre più rapidamente. La incomprensione delle due culture è stata da tutti deprecata, i letterati hanno parlato sempre più volentieri di tecnica, i filosofi hanno scoperto la scienza, la sociologia e l’etnologia sono riuscite a superare la barriera della censura crociana. Ma nel frattempo il mito tecnologico si è consumato a livello internazionale, da noi è scaduto a luogo comune giornalistico dei quotidiani moderati, gli intellettuali riformatori hanno percorso tutto lo spazio ideologico e, una volta vinta la battaglia del discorso sulle riforme, si sono resi conto della difficoltà della loro realizzazione. D’altra parte la cultura marxista si trova impegnata su altri fronti con la problematica dell’unità del movimento operaio internazionale, delle vie nazionali al socialismo, dell’identificazione delle classi rivoluzionarie nelle diverse e concrete situazioni storiche. Certi discorsi su Marx e Kierkegaard possono anche dar luogo a un marxismo accademico, ma rischiano di far perdere il contatto con le forze storiche e sociali effettivamente operanti. In questa prospettiva certe premesse per una liquidazione di Hegel filosofo della restaurazione, dello Stato prussiano, se non del fascismo o del nazismo, e certe convergenze su quella liquidazione cadono, e oggi il discorso su Hegel torna a farsi più complicato.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel
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Ma sul piano internazionale la questione hegeliana ha avuto altri tempi. La cultura ufficiale sovietica ha fortemente accentuato certi temi hegeliani, presenti nel marxismo, proprio nel momento dell’edificazione della società socialista nell’Unione Sovietica. D’altra parte, il marxismo tedesco dopo il fallimento della rivoluzione in Germania alla fine della prima guerra mondiale, ha anch’esso preso la via, soprattutto con Lukàcs, di un ritorno da Marx a Hegel. Una rilettura di Hegel in chiave marxistica e esistenzialistica insieme (una convergenza, però, che non ha portato alla liquidazione di Hegel) è stato uno dei temi che ha segnato la ripresa culturale in Francia dopo la seconda guerra mondiale. In gran parte di queste ‘riprese’ hegeliane, se si esclude l’hegelismo compreso nel materialismo dialettico sovietico, il discorso su Hegel viene fatto in un registro diverso rispetto a quello che aveva permesso la liquidazione nostrana di Hegel. In esse la filosofia di Hegel non appare come lo strumento prodotto per esaltare lo Stato prussiano, la realtà come che essa sia, per promuovere l’accettazione passiva della storia. La filosofia di Hegel diventa, al contrario, quella che ha permesso di dare un’interpretazione attendibile della situazione dell’uomo nella storia, del carattere finito dell’uomo, sempre in situazioni concrete, di calare i concetti generali della cultura occidentale in contesti storici, facendo vedere, appunto, come essi operano nella tradizione storica. La filosofia hegeliana è il primo tentativo fatto per comprendere la storia e per rintracciare nella storia il filo della ragione, per individuare, in essa e non fuori di essa, le forze positive. In questo senso la filosofia hegeliana è la matrice del marxismo, e in questo senso a essa si deve risalire quando, per le mutate condizioni storiche, si deve rifare la diagnosi marxiana della situazione, per individuare in essa le forze rivoluzionarie.
Perché, in fondo, Hegel ha fornito con la dialettica lo strumento per comprendere la logica interna della storia, la sua dinamica, al di là del quadro statico che di essa ha interesse di dare la classe dominante, e al di là dei piccoli movimenti che possono falsamente apparire le vere linee di tendenza. A. questo modo l’hegelismo è diventato lo strumento per interpretare e giudicare irrazionale il potere fondato solo sulla forza e sul primato tecnologico, proprio della società capitalistica contemporanea.
Dietro questi due atteggiamenti nei confronti di Hegel ci sono due modelli ricostruttivi diversi della personalità di Hegel e della sua filosofia. Da un lato si vede nella filosofia hegeliana un’evoluzione da uno stadio teologico giovanile a uno stadio politico, nel quale Hegel diventa in sostanza l’ideologo ufficiale dello Stato prussiano. Dall’altro si vede in Hegel il filosofo della storia che, dopo aver dato un’interpretazione storica della cultura del suo tempo e un’interpretazione dialettica della storia, crede di individuare nella monarchia costituzionale prussiana la punta avanzata della borghesia tedesca, capace di succedere allo Stato unitario francese nella guida della storia. Per la prima interpretazione Hegel tende a diventare il negatore dell’illuminismo e della sua carica innovatrice, in nome dell’accettazione del fatto compiuto, e a identificarsi con il romanticismo, ad accettare l’esaltazione della tradizione e il nazionalismo. Per la seconda interpretazione Hegel appare piuttosto come l’erede dell’illuminismo, sempre polemico con i romantici, nemico dell’aristocrazia tedesca e del suo conservatorismo, fiducioso di poter vincere con le armi della ragione, che si fa istituzione statale, la guerra contro il dispotismo e l’arbitrio.
Entrambe queste interpretazioni di Hegel partono da punti di appoggio contenuti nei suoi testi e sono state sostenute da interpreti autorevoli; ma, naturalmente, esse non sono soltanto divergenze accademiche sull’interpretazione dei testi, perché riflettono situazioni storiche alle quali gli interpreti stessi appartengono e nelle quali la presenza di Hegel è una componente importante. Ma oggi, nel momento in cui Hegel è stato ampiamente discusso e dissacrato, ma anche il mito dell’illuminismo come unico momento di felice saggezza della storia europea si é consumato, è forse possibile inquadrare meglio nella nostra storia la figura di Hegel, guardando con più serenità ai suoi rapporti con l’illuminismo.
Per Hegel l’illuminismo fu un momento importante nella storia europea e verso di esso egli nutrì una profonda simpatia intellettuale. Ma dell’illuminismo Hegel diede anche una diagnosi corretta, cogliendone le ragioni della crisi e dando una spiegazione della sua eredità. L’illuminismo aveva introdotto una rottura tra il popolo e gli intellettuali. Il cemento del popolo era la religione, una religione che l’opera di Cristo era riuscita a trasformare in pura religione razionale, un cristianesimo, cioè, fatto di pratiche e di cerimonie, di predominio ecclesiastico, frutto del sostanziale tradimento del messaggio cristiano, perpetrato per ragioni politiche. L’illuminismo aveva criticato la religione tradizionale, contrapponendo a essa una religione razionale; ma la religione tradizionale era rimasta la religione del popolo, mentre la religione razionale era rimasta una credenza di pochi senza capacità di produrre solidarietà sociale. Non a caso questo era stato l’esito dell’illuminismo. Gli illuministi avevano creduto di poter interpretare la solidarietà sociale in termini di contratto, come se le società fossero tenute insieme da reciproche convergenze di interessi; ne avevano tratto la conseguenza che basta prospettare soluzioni convenienti per renderle operanti. Ma la solidarietà sociale non è fatta d’interessi interpretabili sempre nello stesso modo; esistono situazioni storiche diverse, come quelle che nella Fenomenologia dello spirito (1807) egli ha indicato con le figure di servo e padrone o di coscienza infelice, nelle quali la solidarietà sociale e la struttura della società non è interpretabile in termini di interessi materiali immediati.
Il limite di fondo dell’illuminismo sta proprio nella separazione della cultura dal popolo, in quello che Hegel considera una forma di intellettualismo astratto. Di fronte all’intelletto e ai suoi limiti Hegel pone la ragione, che è la capacità di cogliere i concetti nella storia, le modificazioni della storia e il loro senso, cioè la direzione generale nella quale s’inseriscono, di proporre le cose che hanno dietro di sé le forze già presenti e operanti nella storia, di capire che le motivazioni che agiscono sono quelle che rientrano in un quadro storico preciso, nel quale certi appelli hanno corso e altri no. La realizzazione della ragione diventava il programma filosofico di Hegel.
La storia dei mondo civile aveva accumulato, dai greci e dagli ebrei fino all’illuminismo, un patrimonio culturale imponente, nel quale, tuttavia, le situazioni reali si erano riflesse sempre in modo distorto, sicché esso non era servito a coloro che lo avevano elaborato, a comprendere né la situazione nella quale vivevano né le linee generali della storia dell’umanità. Gli illuministi avevano cercato di mettere ordine nel patrimonio culturale ereditato, eliminando quello che sembrava sorpassato e mantenendo quanto sembrava frutto del progresso, e, a questo fine, avevano elaborato criteri per ricostruire appunto il progresso della storia umana. Ma per il compimento di questa impresa mancava la chiara visione del concetto stesso di progresso, che mira alla realizzazione di una piena compenetrazione di cultura e situazione, di sapere e realtà, di progetti e storia. Per far questo, non bisogna distinguere quanto del sapere è ancora accettabile e quanto è da rifiutare, ma è necessario connettere il sapere e la storia, ordinare il sapere in modo che si scorga come esso cresce via via che procede la storia. Per questo i concetti non sono tutti sullo stesso piano, non sono tutti paragonabili tra loro
direttamente, ma derivano gli uni dagli altri: sicché, per comprenderli, bisogna tener conto di queste loro derivazioni e ripercorrere gli itinerari attraverso i quali sono derivati. La dialettica è la scienza filosofica che permette di ricostruire i concetti nelle loro derivazioni e, parallelamente, di cogliere la realtà storica nella sua dinamica. Se la logica è la scienza della corretta formazione dei concetti e la storiografia la scienza della corretta ricostruzione dei fatti, la dialettica è la scienza della corretta derivazione dei concetti e della vera dinamica dei fatti, quando fatti e concetti sono connessi.
Il disegno storico che l’applicazione della dialettica porta alla luce è quello di un’umanità che ha perso lo equilibrio realizzato in modo esemplare nelle città-Stato greche, ma minato perché retto sulla solidarietà tra servo e padrone. E, quando il servo scopre la propria identità con il padrone, quella sistemazione salta. Poteva essere la grande occasione per una religione dell’amore; e invece il cristianesimo (che Hegel definisce « religione di schiavi ») fa sì intravedere a tutti il regno della coscienza, ma subisce le forme della religione ritualistica strumento di dominio politico. Nel mondo moderno i campi investiti dalla luce della ragione che fa saltare i vecchi equilibri crescono continuamente, senza che la ragione abbia ancora trovato un istituto storico nel quale realizzarsi pienamente, creando equilibri nuovi che possano avere la stessa forza della schiavitù o della religione dei preti usata come strumento politico.
La frattura dell’illuminismo tra cultura e popolo era stata la premessa per il sorgere di un personaggio come Napoleone, che aveva saputo superare le fratture e trascinare dietro di sé il popolo francese, creando lo Stato moderno. Per Hegel, Napoleone rimase sempre un termine di riferimento, un lampo rivelatore sprigionatosi nei conflitti francesi, quasi a indicare la via giusta, ma che doveva essere pienamente realizzata in Germania, in uno Stato nel quale le regole del vivere potessero essere veramente le regole del modo di vivere del popolo, legate al mondo del lavoro e del commercio, nel quale la volontà generale si realizzasse non attraverso il dispotismo o attraverso una aristocrazia privilegiata, ma attraverso una burocrazia, non legata a interessi particolari e che garantisse solo la razionalità e la correttezza degli atti di governo.
Quasi tutti gli storici sono d’accordo nel considerare fallito il compito storico che Hegel assegnava a se stesso. Egli morì, famoso professore dell’Università di Berlino, nel 1831. Dopo la sua morte il regno prussiano non si mosse affatto sulle linee che egli aveva segnato. La vecchia aristocrazia riprese il potere, la religione bigotta ispirò gli atti del governo, il ricordo di Napoleone fu considerato sempre scandaloso e inquietante, gli intellettuali, scolari di Hegel, che osavano criticare la tradizione furono perseguitati. Anche la dialettica di Hegel non potrebbe oggi esser presa come un codice sicuro per interpretare il tessuto di tutti i concetti disponibili o il piano della storia: essa è tutta intrecciata di nozioni teologiche e di pregiudizi storici tipici dell’età in cui Hegel si è formato.
Hegel nel suo studio
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Tuttavia Hegel è ancora un punto di passaggio obbligato per la comprensione dell’illuminismo e della sua crisi, e segna davvero l’inizio della nostra età nel momento in cui pone il problema del rapporto della cultura con il popolo. Hegel colse in modo estremamente chiaro il problema che ogni rivoluzione ha finora posto dopo la vittoria: il problema di mantenere in modo istituzionale il nesso tra cultura e popolo che si viene a creare nel momento rivoluzionario. Hegel credette di aver risolto il problema con lo Stato costituzionale-burocratico: un mito che è durato fino all’altro ieri e che ancora condiziona fortemente non solo la nostra realtà, ma anche il nostro modo di pensare.
La dialettica hegeliana è oggi diventata un pezzo da museo della nostra cultura accademica; ma il problema che essa ha posto rimane, ed è il problema dei condizionamenti reciproci tipici dei fenomeni storici, nei quali il passato vive non solo come fatto, ma anche come ricordo culturale o collettivo. Su questo tema dei grandi condizionamenti collettivi, delle motivazioni sociali di fondo, aperto da Hegel, continuato da Marx e da Freud, ripreso in diverse chiavi da tutta la cultura contemporanea, il discorso non è ancora finito..
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HARL MARX

“L’importante nella “Fenomenologia” hegeliana e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione o come soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie, l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perchè uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro. Il reale, attivo contegno dell’uomo con se stesso come ente generico, o la manifestazione di sé come reale ente generico, cioè ente umano, è possibile solo in quanto esso esplichi realmente tutte le sue energie di genere – il che a sua volta è possibile soltanto per l’agire in comune degli uomini, soltanto come risultato storico – e si contenga verso esse energie come verso qualcosa d’oggettivo, il che anzitutto è ancora possibile soltanto nella forma di un alienarsi.”

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G. W. F. HEGEL

“In quella che è stata chiamata filosofia francese, rappresentata da Voltaire, da Montesquieu, da Rousseau, da D’Alembert, da Diderot, e da tutti gli indirizzi che tennero loro dietro in Germania col nome d’illuminismo e che si sogliono bollare come atei, possiamo distinguere tre lati: primo, il lato negativo, che suscitò le più profonde avversioni; secondo, il lato positivo; terzo, il filosofico, metafisico.
Anche a questo lato negativo, come a tutto, occorre rendere giustizia: esso è in sostanza l’attacco dell’istinto della ragione contro lo stato di una degenerazione, anzi di una generale assoluta menzogna, per esempio contro il lato positivo della religione indurita come legno. Per noi è religione la salda e convinta fede in Dio: si astrae più o meno da ciò che essa poi sia o no fede nella dottrina cristiana. Ma in questa rivolta contro la religione noi dobbiamo pensare ad alcunché di affatto diverso; questo positivo della religione è il negativo della ragione. Se vogliamo capire il sentimento di ribellione, da cui si mostrano animati questi scrittori, dobbiamo tener presentì le condizioni in cui si trovava la religione, con la sua potenza e i suoi splendori, con la corruzione dei costumi, l’avidità, l’ambizione, il lusso, per i quali pure si esigeva ossequio, dobbiamo tener presente tutta questa contraddizione, che dominava l’esistenza. Dobbiamo aver dinanzi agli occhi, il mostruosissimo formalismo, la morte, cui erano andati incontro tanto la religione positiva, quanto i legami della società umana, le istituzioni giuridiche, il potere pubblico. La filosofia francese adunque mosse in guerra anche contro lo Stato: ne assalì i pregiudizi e le superstizioni, e specialmente la corruzione della società civile, dei costumi della Corte e dei funzionari governativi, mise in evidenza quanto c’era di malvagio, di ridicolo, di vile, espose tutta quell’ipocrisia e quell’ingiusto potere al riso, al disprezzo, all’odio del mondo, e suscitò così l’Indifferenza dello spirito e dell’animo verso gli idoli del mondo e la ribellione dei sentimento e dello spirito. Le antiche istituzioni, che erano ormai estranee al sentimento di autocosciente libertà e umanità, che era tanto progredito, si basavano ed erano ormai sorrette soltanto dalla reciproca simpatia, dall’ottusità e dal disinteresse della coscienza, che non corrispondevano più allo spirito che le aveva fatte sorgere, e pure pretendevano di rappresentare ancora la santità e la giustizia dinanzi alla ragione, in virtù dei progressi della cultura scientifica, – era un formalismo che quei filosofi hanno abbattuto […] Noi facciamo presto a rimproverare ai Francesi i loro assalti contro la religione e lo Stato: dobbiamo tenere presente la condizione orribile di quella società, la miseria, la viltà che dominavano in Francia, perché ci appaiano le loro benemerenze […] Per quel che concerne la vita pratica dello Stato, questi scrittori non pensarono ad una rivoluzione; essi si limitavano a desiderare e chiedere miglioramenti, o meglio quelli che loro sembravano tali: che il governo estirpasse gli abusi, che chiamasse uomini onesti ai ministeri […] La rivoluzione francese è stata provocata dalla inflessibile ostinatezza dei pregiudizi, e specialmente dall’orgoglio, dalla più completa spensieratezza, dalla avidità […]
Trattare da profani i barbari, sta bene, – i barbari sono per l’appunto profani -; ma trattare da profani uomini che pensano, è la massima ingiustizia. Questo grande diritto umano della libertà soggettiva, dell’accorgimento, della convinzione quegli uomini l’hanno eroicamente conquistato col loro grande genio, col loro calore, col fuoco, con lo spirito e coi coraggio essi hanno affermato che il proprio sé, lo spirito dell’uomo, è la fonte di quel ch’egli deve rispettare. Appare così in loro il fanatismo del pensiero astratto.”

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KARL MARX

“In quanto Hegel ha concepito la negazione della negazione, secondo il rapporto positivo, che vi si trova, come il verace e solo positivo, e secondo il rapporto negativo, che vi si trova, come l’unico verace atto e atto di autoaffermazione di ogni essere, egli ha soltanto trovato l’espressione astratta, logica, speculativa, del movimento della storia, che non è peranco la storia reale dell’uomo come soggetto supposto, ma soltanto atto creazionistico, storia originaria dell’uomo.”

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KARL MARX, da IL CAPITALE

“Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo dei pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente coi nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell’idea o processo dei pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non é altro che lo elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini.
Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa, quando era ancora la moda dei giorno. Ma propria mentre elaboravo il primo volume del CAPITALE i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ora dominano nella Germania colta si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi di Lessing, il bravo Moses Mendelsohn trattava lo Spinoza; come un “cane morto”. Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho persino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria dei valore, coi modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico”.

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V. I. LENIN

” Il compendio e il riassunto, l’ultima parola e il nocciolo della “Logica” di Hegel è il “metodo dialettico” – cosa estremamente importante. E ancora una osservazione: in quest’opera di Hegel [“La scienza della logica”] che è “la più idealistica” vi è ” il meno” di idealismo, e “il più ” di materialismo. E’ “contraddittorio”, ma è un fatto.”

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VEDI ANCHE . . .

HEGEL – La cultura contemporanea

LA CONCEZIONE HEGELIANA DELLO STATO ETICO

NAPOLEONE e HEGEL – Il grande professore di diritto

MARXISMO E RELIGIONE – Per la critica della filosofia del Diritto di Hegel – Karl Marx

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