LA BUONA CANZONE – Paul Verlaine

LA BUONA CANZONE

La Bonne Chanson

Ne La Buona Canzone, l’incanto sospeso delle Feste galanti cede all’accensione e ai turbamenti dell’amore, al “dolce male che si patisce amando”.

I languori dell’innamoramento, i buoni propositi di un rapporto stabile, il dolore di effimeri distacchi, le ansie, i timori per i gesti e gli atteggiamenti, la celebrazione mitica di dati fisici e caratterologici dell’amata, la felicità coniugale intravista come estrema pacificazione di ogni tensione, un’atmosfera rarefatta, a volte quasi stilnovista: ecco i nuovi temi della poesia di Verlaine, quali si evidenziano nella raccolta La bonne chanson, che esce da Lemerre nel 1870. Si addensano sulla Francia nubi minacciose che poi sfoceranno nei tragici e febbrili giorni della Comune: ma per adesso l’impiegato di concetto al municipio di Parigi, Paul Verlaine, si ritira a cantare la sua storia privata, esaltato dalla apparizione fulminea di Mathilde Mauté cui dedica quei versi che Banville chiama “un delizioso mazzo di poetici fiori”, e Hugo “un fiore nell’obice”, cogliendo un po’ superficialmente il fondo anacronistico – rispetto alle ansie e alle aspettative comuni in quel momento ai francesi – di quelle ventidue liriche, cosi caparbiamente omogenee – nel delineare lo svolgersi di un sentimento – ad emarginare i dati più conflittuali e a inserire il privato in un vuoto artificiale in cui i cozzi e le urla della vita di fuori, giungono fievoli e distorti. Naturalmente, in sede di lettura, si deve superare la ghiotta tentazione di accostarsi alla Chanson con i riferimenti psicologici di tutto ciò che più tardi nella vita di Verlaine (la fuga clamorosa con Rimbaud, la rottura definitiva con Mathilde, l’angelo che diventa souris, gli oscuri e precari anni della senilità… ) si svolgerà nel segno di una flagrante contraddizione a questo lontano programma di fedeltà e di adorazione coniugale. Ma se non è lecito leggere poesia sulla base delle intenzioni che poi la vita si incaricò di frustrare, è tuttavia da intendere il senso di questo “ritorno all’ordine” (sentimentale, questa volta: ma in Sagesse si rivelerà con precise connotazioni ideologiche) che in Verlaine – entrambe le volte, ma con esiti diversi – si configura come un ritirarsi strategico nella cittadella delle soluzioni poetiche già sperimentate, soluzioni che invece nelle Fêtes e nelle Romances sono tenacemente gestite, nello scandalo ostinato che si alimentava della rottura del linguaggio istituzionalizzato in poesia. Nella Chanson e in Sagesse la lingua poetica di Verlaine si dilata senza nuove conquiste effettive, recupera, semmai, i suoi brillanti moduli retorici, vòlti a coprire – con l’accumulo e la vivacità di artifici collaudati – una situazione generale di volta in volta di equilibrio o di stasi, se non di involuzione.
La stessa costante presenza della natura, nella Chanson, è assunta come un dato irreversibile di un processo che porta ad essa come mimesi o assimilazione di stati d’animo suggeriti dalla scoperta della nuova situazione sentimentale, quale è simboleggiata dalla apparizione di Mathilde: cosi il piano della felicità coniugale da raggiungere, con tutti i suoi attriti, le sue pause momentanee, le sue angosce, coincide con quello di una progressiva cristallizzazione di temi culturali e valori consegnati ,al ruolo che si intende qui far svolgere alla poesia, una poesia stabile, fedele a sé.

Di questo piccolo breviario per fidanzati, anche giustamente ipocrita nei suoi punti più caduchi ( cosi come lo possono essere oggi tutte quelle soluzioni comunicative che svuotano le tensioni dei sentimenti in paccottiglie erotiche o affettive), restano frammenti più icastici a testimonianza di una vitalità che scatta oltre la prevedibilità del momento conoscitivo: sono i guizzi del gesto poetico còlti nell’attimo in cui si istituzionalizzano in galanteria, tenerezza, utopia; è il lieve incresparsi di una struttura subito ricomposta, cioè serena e inutile. Basti pensare al memorabile inizio della XVI lirica: dinanzi al bruit des cabarets, al fange du trottoir, come non ricordare le famose pagine dell’Angelus Novus di Benjamin in cui, attraverso l’analisi puntuale della poesia di Baudelaire, è delineata la sua genesi più profonda nello choc prodotto dall’imprevedibile, caotico addensarsi e dilatarsi della città capitalista del secolo XIX? È chiaro che, in Verlaine, uno stesso o lo stesso motivo lievita in maniera diversa, è episodico e non ossessivo, cosi che tornerà nelle raccolte successive in versioni più consapevoli. Nell’esempio citato, il motivo viene destrutturato nell’immagine finale del paradiso, che può apparire soluzione limitante al punto da contrarre bruscamente la vitalità delle prime immagini.