GIOVANNI PASCOLI – Poeta moderno

Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta italiano, studioso classico e figura emblematica della letteratura italiana alla fine del XIX secolo. Fu, insieme a Gabriele D’Annunzio, il più grande poeta decadente italiano.

GIOVANNI PASCOLI – Poeta moderno

Prima di diventare famoso come “cantore delle piccole cose” era stato fervente internazionalista e del socialismo egli conservò sempre l’amore peer gli ultimi e l’aspirazione a un mondo migliore.

Ad una di quelle riunioni che gli internazionalisti bolognesi organizzavano clandestinamente nella trattoria dell’ex garibaldino Pio Ubaldo Buggini (e a cui spesso partecipavano coi più bizzarri travestimenti per eludere la sbirraglia di Nicotera) una sera d’autunno del 1876 Andrea Costa (Imola, 29 novembre 1851 – Imola, 19 gennaio 1910) ta si presentò accompagnato da un giovane esile, biondo, di bell’aspetto, con due occhi celesti colmi di fanciullesco stupore. Quel giovane era “Zvani”, Giovanni Pascoli, che sarebbe divenuto qualche anno più tardi uno dei più dolci poeti della lirica italiana. Ma il futuro autore delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio, il compositore degli eruditi carmi latini a cui più volte toccherà l’alloro del concorso di Amsterdam, allora era soltanto uno studente spaesato venuto dalla Romagna con i soldi contati per le tasse e per la pensione, con un vestituccio fuori moda da piccolo borghese di campagna e con un grande bisogno di affetto e di comprensione che lo aiutassero a sperare in una vita diversa dalla sua, misurata sino a quel giorno dai lugubri rintocchi della campana funebre.
Nato l’ultimo giorno di dicembre del 1855, quarto di dieci figli, nella ricca tenuta della Torre che il padre Ruggero amministrava per conto dei principi Torlonia, si allontanò ben presto dalla vecchia casa sulle rive del Rio Salto per seguire i corsi delle scuole medie portando con sé il ricordo della sua infanzia libera e avventurosa, offuscato dalla visione di due sorelline defunte. Il 10 agosto 1867, mentre trascorreva le vacanze nel collegio degli Scolopi ad Urbino, lo raggiunse improvvisa la notizia dell’uccisione del padre, freddato a tradimento per rivalità d’affari da un sicario sconosciuto, mentre tornava da un mercato con la sua “cavallina storna”. L’anno dopo, altre due tombe si aprivano nel cimitero di San Mauro per accogliere le spoglie della sorella Margherita, la primogenita, e della madre, Caterina Allocatelli, schiantata in breve tempo da tanti dolori.

Rimasto pressoché privo di mezzi, terminò alla meglio gli studi liceali tra Urbino, Rimini, Firenze e Cesena, afflitto dal lutto per un altro fratello rapito frattanto al suo affetto.
Nel 1874, con una borsa di studio vinta per concorso, si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Ateneo Bolognese, che Carducci soggiogava con la sua voce fascinosa di maestro e di poeta, e frequentò assiduamente le lezioni fino a quando – nel ’76 – la morte non gli strappo l’ultimo fratello, Giacomo, guida e sostegno della famiglia.

Giusto in quei tempi tutta Bologna stava appassionandosi alle vicende degli internazionalisti imolesi, e più d’una volta egli dovette mescolarsi alla folla che faceva ressa nelle aule del Palazzo di Giustizia per cercare un incoraggiamento in quelle parole piene di fiducia nell’avvenire, che Costa lanciava come una sfida verso i giudici. Terminato il processo i due romagnoli si incontrarono e divennero amici. Pascoli aderì poi ufficialmente al movimento internazionalista durante un’assemblea clandestina organizzata nella casa di un popolano bolognese di Porta Mascarella. Non appena Costa riprese le pubblicazioni del “Martello” chiamò l’amico nella redazione (allestita nella cucina di un sarto) e fu proprio in uno dei primi numeri di quel settimanale che lo studente di San Mauro, il quale curava abitualmente la rubrica di politica estera, pubblicò una poesia – La morte del ricco ¬ di assai modesto valore artistico, ma che tuttavia ebbe grande popolarità per il suo contenuto aspramente polemico e quel tono melodrammatico, esasperata nel grido dell’ultima quartina:

Venga l’esecutor! Dubbio, t’avanza
fissalo col tuo grande occhio sbarrato! 
Costui d’un’altra vita ha la speranza: 
che muoia disperato!

Alla causa dell’internazionale il giovane poeta si votò con tutto l’amore di cui era capace dedicandovi non soltanto delle mediocri poesie.

Allorchè Costa fu costretto a emigrare per sottrarsi a un ennesimo arresto, lui, pur tanto povero (di quegli anni scriverà: mangiavo solo nel
sogno – svegliandomi al primo boccone) offrì all’amico i suoi risparmi sino all’ultimo centesimo. E sarà ancora lui che il 7 luglio del ’79 ricostituirà insieme a Lolli e agli ex garibaldini Buggini e Leonessi, la sezione bolognese dell’Internazionale dispersa da una ventata di reazione poliziesca. Quelli erano i tempi in cui Zvani, scrivendo a Rimini all’amico e benefattore Domenico Francolini (marito della Contessa Lettimi e
acceso internazionalista) non dimenticava mai di aggiungere in calce alla lettera quello spavaldo Zoca e manèra (Ceppo e mannaia) motto degli anarchici romagnoli.
Nel settembre del ’19 – durante una manifestazione di protesta dei socialisti bolognesi di fronte alle prigioni ove erano stati rinchiusi altri imolesi per aver protestato contro la condanna di Passanante, l’attentatore di Umberto I – Pascoli fu arrestato e trattenuto in carcere per due mesi nell’attesa del processo.
Nella solitudine della cella, la sua mente – troppo scarsamente nutrita di studi politici e, forse incapace di concepire una organica interpretazione dei fenomeni storici – fu travolta da una cupa disperazione, e Pascoli cominciò a ripiegarsi su se stesso, lasciando che i suoi ideali di ribellione e di giustizia si stemprassero in un generico sogno umanitario e in un utopistico e ambiguo pacifismo sostenuto dalla fede, fin troppo ingenua ed inerme, di poter vincere con la bontà e la rassegnazione tutti i mali del mondo.
La sua crisi interiore, acuita dalla sofferenza e dalla mala sorte, fu la crisi di tutta la classe a cui apparteneva che, dopo aver accettato romanticamente le prime idee progressiste e le prime lotte del lavoro, si lasciò prendere al laccio dal trasformismo .assuefacendosi a quelle rinunce che la condussero a intristire nel più squallido e furfantesco politicantismo.
Uscito dal carcere Zanni abbandonò definitivamente le lotte politiche, col rimpianto di aver perso irrimediabilmente l’amicizia degli uomini che gli erano più cari. Riprese gli studi, ottenne la laurea con la lode e, sempre accompagnato dalla sorella Mariù, cominciò il suo vagabondaggio di professore governativo da Matera, a Massa, a Livorno, a Bologna, a Messina, a Pisa e, infine, ancora a Bologna sulla cattedra lasciata vacante dal Carducci e da cui egli tenne lezione sino al giorno della sua morte (6 aprile 1912).
Negli ultimi anni il pensiero di Pascoli subì una costante involuzione in senso decisamente borghese; il poeta che aveva inneggiato all’attentatore di Umberto I, non parve imbarazzato nel rivolgere espressioni di tenero ossequio a Casa Savoia, e salutò in versi le prime imprese dell’Italia in Africa.
Comunque, fra tante incertezze e tante debolezze, quel suo ideale giovanile continuò a levitargli la fantasia, e le sue pagine migliori, insieme a quell’amore per le “piccole cose” celebrato o ironizzato dalla critica, conservano intatto un riflesso del suo sincero affetto per il mondo degli uomini semplici, per la loro fatica e i loro sogni, per tutto ciò che di buono e di vero e di pulito v`è nella vita a cui si accosta con un sentimento privo della smanceria e della stucchevolezza degli ultimi scrittori romantici.

Questo è, appunto, il clima morale delle composizioni esteticamente più pregevoli, di Myricae, dei Canti di Castelvecchio e dei Primi Poemetti che si andrà affievolendo nei Nuovi poemetti e in Odi ed Inni sino a scomparire nei Poemi conviviali e nei Poemi italici, composti con un abilissimo ma artificioso accademismo sempre propenso, a scivolare nella fastosa vuotaggine della retorica.
Tuttavia non sarà mai abbastanza apprezzata la silenziosa e pur radicale rivoluzione che questo provinciale ha condotto per sprovincializzare la poesia italiana, per spezzare gli arcadici o aristocratici schemi della letteratura dell’ultimo Ottocento e riportarla veristicamente in contatto con la natura, con sentimenti più umili ma anche più spontanei e sinceri.

Per raggiungere questa “verità” Pascoli riversò nelle sue pagine la lingua umile e dimessa di tutti i giorni, le cadenze del discorso familiare più comune, senza rifiutare neppure le voci del gergo popolaresco e contadino pur di conservare la fresca immediatezza del suo discorso poetico. E pur restando fedele alla tecnica delle rime, di cui conosceva tutti i riposti segreti, usò con tanta spregiudicatezza ritmi impensati e singolari strutture delle strofe, restituì una così originale libertà alla parola, che si è autorizzati a considerare Pascoli come il primo poeta della lirica italiana moderna.

.Giovanni Pascoli con le sorelle Ida e Mariù

Da lui presero le mosse tutte le “scuole” e le mode letterarie che vennero poi, dal crepuscolarismo al futurismo, dall’ermetismo al neo-realismo, anzi si può dire che persino i poeti che se ne dichiararono avversi dovettero fare, in un modo o nell’altro, i conti con l’esperienza pascoliana. (Come pensare a Guido Gozzano senza riandare a La servetta di monte e a La Piada, a Eugenio Montale senza riudire gli asciutti nitidissimi accordi di Lavandare e di Novembre, e alla stessa magica avventura della parola dannunziana senza lo scossone dato al dizionario da Zvani?).
Si pensi alle mirabili terzine de Il vischio:

Non li ricordi più, dunque, i martini
meravigliosi? Nuvole ai nostri occhi
rosee di peschi, bianche di susini;

o a quell’Addio alle rondini; o a quella chiusa di Novembre:

Silenzio, intorno: solo, alle ventate, 
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti;

o al …

cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene;

o all’idillio de La mia sera, e verrà spontaneo un accostamento ai celebrati poeti più vicini ai giorni nostri che hanno attinto a piene mani motivi e movenze da questo filone poetico.
Purtroppo il ricordo quasi ossessionante della tragedia familiare si sovrappose costantemente all’onda dolcissima dei suoi versi intorbidandoli con un cupo pessimismo, né il poeta riuscì quasi mai a sottrarsi alla suggestione di quella “Voce” che lo faceva ricadere in se stesso in un fondo malinconico e limaccioso senza via d’uscita e senza speranza. Ne Il Mendico confessa tristemente:

Ho errato seguendo le foglie
che il vento sospinge per gioco,
sostando non più che alle soglie,
per gioco
tra l’ira dei cani.
…Non vidi che nero, non ebbi
che fiele;  ma grato non sono: 
ti lodo per ciò che non ebbi;
che non abbandono.

È il tema della rinunzia su cui tornerà ne L’ora di Barga:

Lascia che guardi dentro il mio cuore
lascia che viva del mio passato,
se c’è sul bronco sempre quel fiore,
s’io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d’ombra romita
lascia ch’io pianga sulla mia vita.

Quel bacio che non diede mai, che mai egli ebbe il conforto stimolante di un amore di donna. Ma il suo amore per l’umanità, seppur confuso nelle contraddizioni di un cervello più disposto alle intuizioni che al raziocinio, e di un cuore più sensibile alle tenerezza degli abbandoni che ai richiami della lotta, suo amore per l’umanità non lo abbandonò neppure un istante. E precisando la sua poetica (già delineata nella teoria del Fanciullino che vive in ogni artista per rivelargli l’anima delle cose) scriveva: “Cosi il poeta vero, senza farlo apposta… è come si dice oggi socialista, o come si avrebbe ci dire, umano… Così la poesia non ad altro intonato che a poesia, è quel la che migliora e rigenera la umanità…”.
Una lezione, anche questa, che il ribelle sognatore degli anni andati – a cui non era bastato l’animo per resistere alle insidie e alle debolezze del suo tempo – ha lasciato in eredità come un messaggio ai veri poeti, agli uomini di cultura che sarebbero venuti dopo di lui.

PERCHÈ NOSTRA?

Sono queste le famose parole con cui Pascoli ricordò le persecuzioni sferrate dalla reazione contro gli internazionalisti, che venivano arrestati e condannati per associazione di malfattori.
“Roma era da poco nostra. Nostra perchè? Per che se non per bandire al mondo la parola della giustizia e della libertà? E si cominciava così col dichiarar sospetto di malfare o addirittura malfattori quelli che a Roma risorta chiedevano le tavole della nuova legge, la luce dei nuovi diritti da insegnare ai popoli?”.

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