FILOSOFIA E SENSO COMUNE – La voce della coscienza

Immanuel Kant

FILOSOFIA E SENSO COMUNE

La moralità fu fatta per l’uomo, non l’uomo per la moralità (Israel Zangwill)

L’approvazione o il biasimo per i nostri atti non ci vengono soltanto dagli altri, ma anche da noi stessi. Sembra infatti che parli in noi, in modo più o meno assiduo e autorevole, una voce interiore che ora ci loda, ora ci rimprovera, che dà giudizi sugli atti che abbiamo compiuto e che impartisce suggerimenti o addirittura comandi per gli atti che ci accingiamo a compiere.
Questa voce, questo avvertimento interiore, al quale spesso non si dà ascolto ma che è difficile soffocare del tutto, è quello che comunemente si chiama la “voce della coscienza”. Esso fa tutt’uno, in fondo, con l’esigenza morale, ossia con l’esigenza di distinguere tra bene e male e di volgersi al primo evitando il secondo (qualunque cosa si intenda poi, concretamente, per “bene” e per “male”).

Viene subito logico chiedersi: perché si fa sentire in noi questa “voce della coscienza”, perché c’é questa esigenza morale, qual é la sua origine, la sua funzione? A questa o a queste domande risponde l’etica, quell’aspetto cioè della riflessione filo-sofica che prende in esame il fatto morale e cerca di comprenderlo e di definirlo.

L’etica “assolutista” e i suoi due indirizzi

A grandi linee e schematizzando parecchio, si può dire che due orientamenti irriducibilmente opposti si contendono il campo: da una parte l’etica che possiamo chiamare assolutistica o metafisica; dall’altra un’etica costruita su basi storicisti che che nel materialismo storico trova la sua più valida premessa.

Per etica assolutistica intendiamo una concezione secondo cui l’esigenza morale dell’uomo dipende dall’esistenza di valori assoluti, eterni, extra-storici, sia che questi valori vengano fissati in un preteso mondo trascendente, sia che vengano riposti nell’in’timo dell’uomo come patrimonio innato del suo spirito. Già da queste poche parole si può comprendere che due indirizzi, notevolmente diversi tra loro, si sono formati nell’ambito della etica assolutistica: uno orientato in senso teologico (nel primo caso), l’altro in senso tendenzialmente laico ( nel secondo).

Per un cattolico coerente e, più esattamente, per ogni convinto seguace di una religione positiva, l’ordine morale ha senso in quanto poggia sul rapporto gerarchico dell‘uomo con Dio. I dieci comandamenti che troviamo stampati in ogni catechismo e in ogni opuscolo di “dottrina”, sono un elenco di precetti morali che vantano esplicitamente una ispirazione e sanzione divina. Se non devi ammazzare, se non devi dire falsa testimonianza, se non devi desiderare la donna d’altri, non è tanto perchè queste cose, in sé, non vadano fatte, quanto perché il Signore ha così ordinato: se tu violi questi precetti, offendi il Signore. Senza Dio legislatore, niente morale; i valori morali diventano cosi una appendice dei valori religiosi, non sono fondati su se stessi, non sono autonomi.
Questa subordinazione della morale alla religione risale a tempi antichissimi e si ritrova presso le genti più diverse: nell’India, Brama ispira a Manu il libro delle leggi; presso gli ebrei, Jehova consegna a Mosè le famose tavole: in Persia, Ahura Mazda, su una montagna, in mezzo alle folgori e ai lampi, affida a Zoroastro il libro della legge; Maometto scrive il Corano sotto dettatura di Allah. Ovunque qui la moralità consiste nel conformarsi delle azioni dell’uomo alla volontà divina. Dio fa conoscere attraverso la rivelazione i suoi comandamenti e l‘uomo obbedisce. Quando non è testimone egli stesso della rivelazione, docilmente si rimette alle autorità che si dicono depositarie della rivelazione e interpreti della divinità: le caste sacerdotali, le chiese (con tutte le conseguenze che sappiamo. anche di ordine politico).
In questo modo però la morale, almeno come la intende in infondo la nostra coscienza moderna, è annientata: non rimane che la fede, lo spirito di sottomissione. Spesso vi è anche di peggio: la subordinazione della morale alla religione degenera facilmente in quella repugnante superstizione che è l’utìlìtarìsmo teologico. Uno si comporta bene in terra per riscuotere il premio in cielo; oppure evita di comportarsi male per non incorrere nel castigo. Non c’è in tal caso che un gretto (e ingenuo) calcolo, in cui non brilla nessuna luce di moralità. Siamo sullo stesso piano dell’aspirante delinquente che si astiene dal commettere un reato perché l’agente di pubblica sicurezza potrebbe scorgerlo.

Rivendicazione laica

L’altra tendenza che abbiamo detto esistere in seno all’etica assolutistica, sostiene invece l’autonomia della morale, la sua indipendenza dalla religione e dalla teologia. Il bene va perseguito e realizzato per se stesso, perché è il bene, perché cosi vuole la “ragion pratica”.
Storicamente è con Immanuel Kant che si impone questo indirizzo dell’etica (1).

Ora non v’è dubbio che la dottrina morale kantiana è di gran lunga superiore alla vecchia concezione teologizzante. Infinitamente più nobile e dignitosa di quella, assai più seria teoreticamente, essa valorizza – seppure su di un piano ancora astratto – la personalità umana, ed ha rappresentato, nella situazione storica in cui sorse, una profonda rivendicazione di laicismo e di libertà. Tuttavia tale concezione è ben lungi dell’appagarci. Non convince il suo aspro rigorismo, che scava un abisso tra ciò che è morale e ciò che è utile e piacevole, tra virtù e felicità; non lascia soddisfatti il suo carattere puramente formale, la sua mancanza di contenuto e di indicazioni concrete su ciò che bisogna fare. Ma, a parte queste non nuove obiezioni, il punto di dissenso che vogliamo sottolineare è quello cui già si accennava prima: se è vero che questa concezione non fa ricorso, come l’altra, a principi trascendenti a cui vincolare e subordinare la morale, non perciò è meno assolutistica, non perciò è meno volta a cogliere una assolutezza morale “a priori” che si pone al di là della vita e dei rapporti quotidiani.

Ora a noi sembra che l’errore fondamentale di questa etica, nel suo duplice orientamento, consista nel riferire il fatto morale al soggetto preso in un irreale isolamento, all’Io tagliato fuori dalla trama delle relazioni intersoggettive. Nell’un caso questo Io viene considerato in un rapporto di soggezione rispetto a Dio; nell‘altro, viene considerato come autonomo e autosufficiente, ma in entrambi i casi si perde di vista il carattere eminentemente storico-sociale del fenomeno morale, ne viene oscurato o addirittura dimenticato il fondamento empirico il significato pratico, umanamente relativo.

Marxismo e morale

Bisognava in realtà arrivare al marxismo e alla rivoluzione culturale da esso operata perché ci si aprisse risolutamente la strada ad una considerazione più concreta e realistica dell’espexiìenza morale (2).
Secondo il marxismo, il fenomeno morale è connaturata all’esistenza stessa della società, in quanto senza una morale, senza l’accettazione o il rispetto di una morale la convivenza umana non è possibile. “Non può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia sostenuta da determinati principi etici che l’associazione stessa pone ai suoi componenti, in vista della compattezza interna e dell’omogeneità necessarie per raggiungere il fine” (Antonio Gramsci Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura). E ancora: “Occorre persuadersi che non solo è necessario un certo attrezzo, ma anche un certo modo di comportarsi, una certa educazione, un certo modo di convivenza ecc. In questa oggettività e necessità storica si può basare l’universalità del principio morale; anzi non è mi esistito altra universalità che questa oggettiva necessità…” (Passato e Presente).

La società in effetti, in quanto tale, sta insieme e si sviluppa non soltanto per la presenza di norme giuridiche garantite da sanzioni materiali, ma grazie all’esistenza di norme morali, per la persuasione intima, radicata nei singoli, che agire in un determinato senso è bene e agire nel senso opposto è male, per l’esistenza, in breve, di freni e di slanci di natura morale.
La convinzione per esempio (e facciamo l’esempio più banale) che derubare o uccidere in un momento d’ira il proprio vicino è cosa moralmente riprovevole, è una convinzione che nasce, si afferma, si consolida sulla base di una ovvia esigenza di autodifesa e di autoconservazione della società.

Ma la convivenza sociale si concreta in determinate strutture o tipi di società, e la morale si plasma appunto su tali strutture, vi si adegua. ne riceve l’impronta; non rimane estranea alla vicenda e all’urto delle classi. Ecco perchè si è potuto parlare, ad esempio, di una morale cristiano-feudale, di una morale borghese, di una. morale socialista connessa al superamento della società divisa in classi.

Non ci è facile qui precisare meglio questa tesi appena enunciata, secondo cui il fenomeno morale sgorga dalla società nel suo divenire, si produce cioè in essa e per essa; ci è quindi anche impossibile rispondere alle obiezioni che da parte di eventuali interlocutori potrebbero essere avanzato (tutto ciò sarà comunque argomento di un prossimo articolo). Ma un punto crediamo di poter già fin d’ora affermare: per spiegare la presenza della coscienza morale non è necessario ricorrere a postulati metafisici ed extra storici. Ne deriva allora che la “voce della coscienza” di cui parlavamo all‘inizio non è qualcosa di strano e di misterioso; non è, come volevano e magari vorrebbero ancora i metafisici e i mistici, la testimonianza del sovra-empirico e del soprannaturale; non è la parola divina che ci ammonisce e neanche l’imperativo che scaturisce dal fondo di una pretesa immutabile “natura umana”, (così suonerebbe per l’appunto una interpretazione ispirata ad un’etica metafisica).
La “voce della coscienza” è semplicemente la conseguenza del fatto che noi abbiamo un certo ideale di comportamento, un certo costume di vita, un certo modo di concepire i diritti e i doveri: ideale. costume, concezione che sono stati instillati e consolidati in noi per via di educazione. di abitudine, di tradizione e che rispondono in ultima analisi a determinate esigenze sociali, sia che tali esigenze riguardino la società in generale, prescindendo dalle forme che essa assume nel corso della storia, sia che riguardino proprio queste forme concreto. Quando i nostri atti non si conformano a quell’ideale, a quel costume, allora sorge una crisi, un conflitto interiore; allora la “voce della coscienza” si fa sentire con la sua tacita protesta.

(1) Il grande filosofo tedesco affermava l’imperatività della legge morale che è nel profondo di noi stessi; affermava l’interiorità e l’autonomia del volere morale che coincide con il dovere. “Agisci come vorresti che agissero tutti gli uomini nelle stesse circostanze”. Il significato rivoluzionario della morale kantiana sta nel fatto che l’ubbidienza alla legge morale non è ubbidienza a qualcosa di esterno, all’uomo, ad un potere, ad una autorità, ad una norma che sia fuori o sopra di lui, e nemmeno è ossequio al volere divino.

(2) Idee interessanti in questo senso – anche se molto semplicistiche – troviamo però anche nel XVIII secolo. L’illuminista francese Helvetius, per esempio, sosteneva che oggetto della morale “non può essere che il bene comune” in cui si fondono l’interesse privato e quello generale, e poneva uno stretto legame tra morale politica e legislazione.

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