CRITICA DELLA RAGION PRATICA – IMMANUEL KANT

 LA RAGION PRATICA: TEORIA DELLA MORALE

L’anello di collegamento fra la teoria del conoscere e la dottrina dell’agire lo vediamo nel concetto kantiano delle tre idee regolatrici della ragione. Esse lasciano la via aperta allo spirito umano, di cui il Kant ha messo in evidenza il carattere autonomo; senza tale via aperta, questa autonomia sarebbe un’irrisione, dato che l’attività conoscitiva ci è costantemente condizionata dalla realtà fenomenica.

Sappiamo che anche la conoscenza e attività costruttiva, ma su dati. Si tratta di non lasciarci imprigionare dalla nostra stessa costruzione, di non fermarci a essa, che è relativa, come se fosse assoluta; in altre parole, di non venir meno alla nostra essenza di spiriti liberi. Chè anzi la vera libertà sta in questa possibilità di organizzare sempre meglio, secondo ragione, la nostra concreta esperienza. Altrimenti la conoscenza diventa pura contemplazione e, a ogni modo, vien meno al suo fine, che è di essere per l’azione.
Quello che veramente più conta è dunque la volontà, che ha il primato di valore sull’intelligenza.

La teoria della conoscenza è teoria dell’intelligenza, che è condizionata dai dati sensibili, relativi; la teoria della morale è teoria della volontà, che è libera e fonda, essa stessa, i suoi valori; perciò non è più condizionata, non è più relativa. Mentre prima si considerava la teoria della conoscenza in confronto della realtà metafisica e si concludeva negativamente, ora si considera la teoria della volontà e si conclude positivamente, assumendo però anche la scienza in funzione della morale, e l’una e l’altra nella comune funzione della vita umana, poichè lo spirito è identico nell’attività conoscitiva come in quella pratica.

In queste conclusioni kantiane troviamo raccolti e integrati, con poderoso sforzo, i motivi più alti delle filosofie antiche e moderne: l’esigenza unitaria della realtà e della conoscenza e insieme l’esigenza dualistica del divenire e dell’essere, del relativo e dell’assoluto, della conoscenza sensibile e della razionale; l’equazione della scienza alla virtù e insieme il suo superamento; l’intellettualismo greco della ragione e il realismo cristiano dello Spirito; il vivere secondo ragione di Aristotele e il vivere secondo ragione degli Stoici, ma non più inteso conformemente ai dati umani dell’uno o ai dati cosmici degli altri (che son tutti dati dell’essere), ma secondo principî di valore, che tendono al dover essere e, se dall’essere derivano, non si ripiegano in esso, includendo in un circolo sterile e vano la vita umana; la concretezza della moralità nell’individuo e la sua universalità formale nella comune ragione; il principio del fondamento divino della morale e insieme quello dell’autonomia della legge morale, per cui è salva la libertà dell’uomo. Son poi riconosciute l’assolutezza del dovere e l’inflessibilità della sanzione.

Così la vita dell’uomo acquista una ragion d’essere, un valore, che, come tale, non è qualche cosa di perituro, ma d’immortale.

Come, in antico, la crisi della speculazione filosofica dava luogo o allo scetticismo o al pragmatismo, così anche nel Kant la restrizione di ambito e di valore della teoria della conoscenza dà luogo a una dottrina morale d’indole pragmatistica, ma, come abbiam già notato, d’un pragmatismo razionale, che non pone un hiatus fra le due teorie, ma le unisce in rapporto d’integrazione. Come la conoscenza razionale è universale, così la legge morale, razionale, è universale. In nome della ragione, l’individuo riconosce come vera un’affermazione; in nome della ragione, l’individuo accetta come giusta una legge; e come quel riconoscimento fondava per lui la verità dell’affermazione, così quest’accettazione fonda per lui l’obbligatorietà della legge.

Derivano da ciò la parte fondamentale e insostituibile, che ha la volontà nella vita morale, e l’esigenza della libertà. La volontà non è altro che ragion pratica, cioè volta a determinare le massime d’agire secondo leggi razionali. Ci son leggi razionali d’azione che hanno di mira il conseguimento d’un fine stabilito ; allora la legge è condizionata da quel fine e la sua esecuzione diventa mezzo; l’imperativo che ne viene è un imperativo ipotetico (data l’ipotesi che si debba arrivare a quel determinato fine, si deve agire così); la volontà non è più libera, la legge morale non ha più valore universale, formale, superiore a ogni contingenza.

Quando invece la legge razionale d’azione non riguarda questo o quel fine determinato, ma è considerata nella propria intrinseca legittimazione, fondata, appunto, sulla razionalità sua, che consiste nella sua universalità e nella necessità intrinseca, che la legge esprime, allora è legge morale. È pertanto di carattere formale. La razionalità così intesa è l’unica categoria della moralità e si identifica con la legge morale formale stessa.

Ma è una categoria diversa dalle categorie, o forme, della conoscenza. La massima d’azione, che la ragion pratica stabilisce, applicando la legge (categoria formale della moralità) all’esperienza concreta di cui l’uomo vive, condiziona il fine da raggiungere, in luogo d’esserne condizionata. Quindi questa singolare sintesi a priori, che è la massima morale (legge-fine), media il relativo coll’assoluto e collega l’uomo con Dio.

Come per la teoria del conoscere, così anche per la dottrina etica il Kant, nelle sue opere morali, fa un’elaborata deduzione dei principî e dei criteri della moralità. Basti qui ricordare come per il Kant i postulati della vita morale siano tre: l’esistenza di Dio (cioè d’una realtà assoluta), l’immortalità dell’anima, la libertà, e che la prima formula del dovere morale o imperativo etico categorico è: “Agisci in modo che la massima delle tue azioni possa essere elevata a legge per tutti gli esseri ragionevoli e liberi“.

Sono postulati e imperativo che non hanno bisogno di spiegazione, dopo quanto si è detto. Sono anche facilmente comprensibili (poichè sono conseguenze essi pure di quanto si è detto) questi requisiti dell’imperativo categorico: l’universalità della forma, l’universalità del fine, l’unità di norma e di fine, l’autonomia dell’imperativo stesso, la dignità assoluta dell’oggetto di tale comando, che è, in ultima analisi, la moralità stessa e l’umanità, in quanto capace di esser morale.

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