LUCI DELLA CITTÀ (City Lights) – Charlie Chaplin

   

LUCI DELLA CITTÀ

Titolo originale – City Lights
Regia – Charlie Chaplin
Soggetto – Charlie Chaplin
Sceneggiatura – Charlie Chaplin
Fotografia – Roland Totheroh, Gordon Pollock
Montaggio – Charlie Chaplin
Musiche – Charlie Chaplin, José Padilla
Scenografia – Charles D. Hall
Genere – Pantomima, comico
Lingua originale – Inglese
Paese di produzione – USA
Anno 1931
Durata 89 minuti
Colore – Bianco/Nero
Audio – Muto

Interpreti e personaggi

Charlie Chaplin: un vagabondo
Virginia Cherrill: una fioraia cieca
Harry Myers: un milionario eccentrico
Florence Lee: la nonna della fioraia
Allan Garcia: James, il maggiordomo
Hank Mann: un pugile
Henry Bergman: il sindaco

         

Un critico francese osservò un giorno che LUCI DELLA CITTÀ’ è un film “terribilmente comico mentre si vede, e sinistramente tragico quando ci si pensa”.

L’osservazione è esatta.

In LUCI DELLA CITTÀ’, assieme agli spunti sentimentali, patetici, ironici, drammatici, vi è gran dovizia di elementi comici: e quasi sempre sono proprio quest’ultimi a rivelare appieno il contenuto profondo del film, che è di un’acuta, tragica amarezza.

Charlie Chaplin ha dichiarato che LUCI DELLA CITTÀ’ è una “commedia sentimentale”: ma questa commedia, così ricca di trovate esilaranti, della comicità si avvale per rivelare, indirettamente, il pensiero dell’autore, il giudizio che egli dà del mondo in cui vive: ed è un pensiero critico, è un giudizio improntato a un pessimismo severo.

LUCI DELLA CITTÀ è tutto costruito su questa sottile e geniale ambivalenza: per cui Chaplin, proprio mentre ti strappa il riso irrefrenabile e spasmodico, ti pone dinnanzi, attraverso la situazione comica, ad un simbolo, ad un concetto, ad una riflessione sociale.

Ne viene una fortissima carica umana ed intellettuale, di satira e di critica.

All’inizio, per esempio, l’inaugurazione della statua “della pace e della prosperità”, durante la quale viene scoperto il misero vagabondo che proprio presso quel monumento retorico e pomposo aveva trovato un malcomodo giaciglio per dormire, è un brano di durissimo sarcasmo.

Le trovate comiche si susseguono implacabili, e determinano il riso, ma ne viene chiaro il pensiero del regista, il quale critica senza esclusioni di colpi quella classe sociale che, per bocca dei suoi rappresentanti più autorevoli, pronuncia incomprensibili e vane parole.

L’immagine di Charlot infilzato per il fondo dei pantaloni dalla spada del potere esecutivo, che invano tenta di mantenere un equilibrio pieno di sussiego durante l’esecuzione degli inni, è di un significato evidente: il simbolo, concretato per via comica, manifesta un’opinione, che non è enunciata ma rappresentata, per cui si manifesta di grande efficacia.

Altrettanto eloquente un altro degli spunti del film: quello che ha per protagonista il personaggio miliardario. Costui è buono, comprensivo, dotato di sentimenti umani elementari ma sinceri, solo quando è ubriaco, quando non è in se; non appena gli passano i fumi dell’alcool, ridiventa quello che è nella vita quotidiana, cioè un essere duro, sprezzante, disumano, spietato.

Con un personaggio siffatto Chaplin riesce a realizzare visivamente una osservazione sociologica di grande ampiezza.

In alcune scene, poi, questo stesso giudizio si approfondisce e affina.

Per esempio, quando il miliardario, disperato per la fuga della moglie, vuole uccidersi, tocca al misero vagabondo di rincuorarlo, di cercare di infondergli fiducia nella vita. Charlot perora appassionatamente la causa della vita, della lotta dell’uomo contro le avversità: ma quando il miliardario cerca di stringersi al collo il cappio alla cui estremità è legata una grossa pietra, il cappio lo evita e invece imprigiona Charlot. Credendo di buttarsi nel fiume, il miliardario vi getta il vagabondo che tentava di salvarlo.

Stupenda e commovente la scena in cui Charlot incontra la fioraia cieca. E’ questo uno dei momenti più patetici del film, quando la ragazza scambia il povero straccione per un ricco, ed egli la lascia nel suo errore. Alla fine, dopo un’operazione chirurgica, la fioraia acquisterà la vista, e Charlot, cui intanto sono successe diverse avventure, sopra descritte, la incontrerà di nuovo, e sarà da lei riconosciuto, e visto qual è veramente : un vagabondo. L’ultima inquadratura di LUCI DELLA CITTÀ’ è lo sguardo di Charlot che si fissa negli occhi della fioraia, che ora vedono… sublime inquadratura….

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Esempi di questo genere, quale più accentuato e quale meno, quale direttamente realistico e quale realistico in modo mediato tramite il simbolo, l’allegoria, l’apologo, in LUCI DELLA CITTÀ’ ve ne sono molti, e costituiscono l’ossatura del film, la base concreta sulla quale Chaplin costruisce il suo triste e disperato poema della lotta dell’individuo isolato, oppresso e schiacciato dal sistema sociale e dai rapporti umani, o disumani, che ne derivano.

Charlot combatte disperatamente per la causa dell’amore, della bontà, della giustizia, e quella lotta si risolve in un’aspra denuncia del mondo in cui vive. E’ la sostanza di questo giudizio morale e sociale, che rende il film, per poco che ci si rifletta, dolente, amaro, tragico.

E’ che tale sia davvero il pensiero di Chaplin è dimostrato anche da quel breve film, IL SUICIDA, che egli ha realizzato ai margini di LUCI DELLA CITTÀ’, sviluppando la sequenza del tentato suicidio del miliardario. IL SUICIDA non è mai stato proiettato pubblicamente (o almeno non mi ricordo), come molte altre cose di Chaplin, forse le migliori, i risultati più perfetti e liberi del suo lavoro (l’edizione integrale di CHAPLIN SOLDATO, frammenti realizzati durante la lavorazione di TEMPI MODERNI e rimasti fuor dell’opera, ecc.). In esso, il miliardario gettava in acqua Charlot con la pietra al collo, ma anziché aiutarlo ad uscire, si allontanava scoppiando in una enorme, irrefrenabile risata, mentre Charlot annegava.

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