CANALE DI PANAMA

CANALE DI PANAMA

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Si descrive qui, con stile incisivo ed efficace, la grande lotta combattuta e vinta dagli uomini contro la natura per piegarla alle loro necessità: è una lunga serie di battaglie con la finale soddisfazione che deriva dal constatare che l’intelligenza e la tenacia del piccolo uomo alla fine supera ogni difficoltà.
L’istmo di Panama, nell’America centrale, fu tagliato nei primi quattordici anni del secolo scorso; le difficoltà maggiori furono il clima e la differenza di livello fra l’Oceano Pacifico e l’Atlantico.

La creazione del canale di Panama

E quale guerra! Una guerra che ha divorato miliardi di lire e migliaia di vite umane.
Una guerra ostinata, angosciosa, terribile contro la ostilità possente e inesorabile della Natura. Una guerra che ha avuto le alternative della lotta violenta. Degli eserciti di otto, di dieci, di quindicimila uomini si sono all’inizio slanciati successivamente all’assalto.
Contro di loro era la foresta vergine, la roccia delle montagne, il fango delle paludi, la febbre gialla; le epidemie tropicali, il clima mortale.
Otto anni era durata l’attiva campagna francese (i Francesi erano ormai esperti di lavori del genere dopo il taglio del Canale di Suez), dopo la quale la Natura trionfante riprese l’assoluto possesso dell’istmo.
Il sogno di quattro secoli pareva svanito per sempre.
Quindici anni dopo sbarcava un altro esercito nell’istmo.
La guerra riprendeva con nuove forze. Cominciava la campagna americana.

Con l’esperienza del passato, con i progressi della scienza, si attaccava di un colpo la terra e la febbre. Si combatteva con eguale energia la montagna e la zanzara.
Le più formidabili armi del nemico erano strappate ad una ad una. Le violenze micidiali del clima venivano soffocate, le schiere lavoratrici erano protette dai pericoli invisibili come da quelli visibili.
S’intraprendeva questo prodigio: rendere innocua l’atmosfera che ammazza. Si portava I’ostilità anche nel mondo del microscopio.
La distruzione della mortale stegomia che porta la febbre gialla e dell’anofele che inietta la malaria, era condotta con la stessa regolarità, con la stessa attività dello scavo e delle costruzioni.
Si rendeva così possibile il lavoro dei bianchi e di quello dei negri.
Gli eserciti di operai aumentarono di numero e di potenza. Ventimila, poi trentamila, poi quarantamila uomini, guidati da una moltitudine di ingegneri, si sono gettati sulla immensa trincea transoceanica.

Col progredire del lavoro nuove masse entravano in linea. Si arrivò alla cifra di sessantamila addetti al Canale. E sui battaglioni umani tutto un nero titanico popolo di macchine torreggiava strepitante.
Cento scavatrici, cinquecento perforatrici, venti draghe, quattrocento locomotive, cinquemila vagoni, e pompe, e elevatori, e gru, e rimorchiatori: macchine dai denti enormi che mordono la terra, macchine dalle mani gigantesche che afferrano e sollevano i macigni, macchine che lanciano in fondo alle acque la catena enorme delle loro grandi pale penetranti e capaci: macchine che scaricano in un colpo un treno di cinquanta vagoni; macchine che fremendo appoggiano la loro fronte alla roccia, con atteggiamento taurino di ostinazione, di furore e la penetrano con la loro lunga arma turbinosa: castelli metallici pieni di uno strepito di ingranaggi, membratura potenti dal moto lento e docile, ruote in fuga, un affanno di caldaie, uno sbuffare di vapore, uno scrosciare di acque, tutto questo tempestava in mezzo all’attività minuscola degli insetti umani, intelligente e precisa, che guidava i macchinari come il Cornak  guida l’elefante.

L’istmo ha cercato di resistere.
Anche la seconda campagna ha avuto i suoi rovesci, le sue ore d’incertezza e di angoscia: più volte il formidabile attacco dell’uomo è stato respinto.
Tre volte la direzione dei lavori si è trovata di fronte all’insuperabile. Errava nel metodo.
Il presidente Roosevelt, sentì la vera natura dell’impresa, quando tolse la direzione del lavoro agli ingegneri e l’affidò all’esercito.
Era la guerra. Bisogna adottare i sistemi di guerra.
Occorreva una rigida severa ed efficace organizzazione militare. Sacrificare tutto alla vittoria, marciare avanti, non dar tregue, non interrompersi mai, non concedere al nemico il tempo di riaversi e di provocare devastazioni e catastrofi: ecco il segreto.
Una macchina che si spezzava era gettata come materiale di rafforzo in un terrapieno. Quando un treno, con la locomotiva, si rovesciava per un cedimento della linea, non si perdeva tempo a salvarlo e veniva sepolto, come un gran cadavere, nello sterro.
Avanti! Avanti! Le macchine, come gli uomini, avevano le loro perdite, i loro morti.
Un insieme magnifico di ambulanze, di servizi medici, di soccorso, di ospedali, conferiva ai combattenti una fiducia, che era un elemento di audacia.

Non sono mancate certo le sciagure.
I treni sanitari portavano ogni giorno dei caduti. Ogni vittoria è un minotauro (il mostro divoratore di giovani e fanciulle, mezzo uomo e mezzo toro, al centro del Labirinto, a Creta, va fatto oggetto di un omaggio di vittime umane, finchè fu ucciso da Teseo) che divora le vittime.
Quanti operai sono precipitati dall’alto delle chiuse; quanti  son morti in esplosioni premature di mine, quanti sono scomparsi nelle acque torbide dei fiumi popolati di caimani, dalla enorme bocca! Ma non si possono considerare qui gli incidenti, i disastri e gli errori, con i concetti che informano la vita normale. Nei grandi conflitti tutti i valori dell’esistenza cambiano. Dobbiamo proporzionare ogni cosa che qui avviene alla immensità dell’impresa piena di incognite, al suo aspetto di lotta combattuta, una lotta così varia, così accanita, così lunga, così vasta.
Le notizie del Canal Record, il giornale dei lavori, avevano la laconica eloquenza dei bollettini militari; in poche parole davano il gelido resoconto di una vittoria o di un insuccesso.
Tutto era secondario di fronte alla gloriosa meta, sempre più vicina, alla quale tendeva l’attività alacre di centomila braccia, il cuore di una nazione, l’interesse dell’umanità.

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