LO SCETTICISMO DI MICHEL DE MONTAIGNE

MICHEL DE MONTAIGNE

Epicureismo, stoicismo, scetticismo

Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 28 febbraio 1533 – Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592) è stato un filosofo, scrittore e politico francese, noto anche come aforista. Tra i filosofi più celebri del Rinascimento francese, la sua produzione è caratterizzata dalla fusione di aneddoti casuali e della propria autobiografia con riflessioni intellettuali.

L’antiaRistotelismo, come abbiamo visto, assumeva in molti uomini del Rinascimento la forma e il valore di avviamento positivo a una nuova indagine scientifica e filosofica.
Per altri invece esso si risolveva in un atteggiamento d’indifferenza per tutte le opinioni speculative sulla natura dell’universo e in generale per ogni sorta di affermazione di principii scientifici.

Motivi diversi favorivano questo scetticismo. In alcuni era la mentalità, del “letterato” volta alla critica filologica e agli studi di grammatica e restia a sentire il valore di qualsiasi questione generale. In altri era l’incapacità di orientarsi nel contrasto più o  meno tumultuoso delle diverse tradizioni e scuole filosofiche, complicato più tardi da quello tra le diverse confessioni religiose. In altri predominava la tendenza a deprimere il potere della ragione per esaltare e salvare i diritti della fede religiosa. Spirito di “raillerie” per
ogni forma di pedanteria (RABELAIS); amore del paradosso, che infrange tutte le idee fatte; propensione per l’osservazione di dettaglio, per la riflessione sul particolare circoscrivibile nei limiti del “saggio” staccato o della massima concettosa; rinunzia di proposito ad ogni verità sistematica, a cui gli argomenti dell’antico pirronismo danno un appoggio critico; sono queste le forme che assume lo spirito scetticheggiante, diffuse in alcuni strati della cultura del Rinascimento (1).

Si cerca soprattutto, al di fuori di ogni sistematica veduta speculativa, un ideale di “saggezza”, che, senza escludere il fine soprannaturale dell’esistenza additato dalla religione, valga a dare norme d’orientamento alla pratica quotidiana.
Epicureismo e stoicismo giovano a questo scopo.

La gioia di vivere, lo spensierato godimento dei piaceri che ci si offrono giorno per giorno, istante per istante, è uno dei tratti caratteristici rilevabili in molti uomini del Rinascimento: “chi vuol esser lieto, sia; – del doman non v’é certezza”, cantava Lorenzo il Magnifico. L’epicureismo dà a questo atteggiamento pratico della vita la sua espressione riflessa.
Di contro all’ascetismo medievale come di contro a quel che di inumano v’é nell’etica stoica, gli epicurei del Rinascimento affermano i diritti del piacere e dell’utile nell’attività pratica umana. Né la virtù é necessariamente conculcatrice di bisogni e rinunzia al piacere, né la ricerca del piacene è necessariamente disonesta; non v’é anzi forma di attività umana, per elevata che sia, la quale non tenda alla soddisfazione di un bisogno e dunque a un godimento.

Non tutti, certo, si limitano a dare questo significato alla tesi che la “voluptas” sia il sommo bene: non mancano di quelli che intendono per epicureismo l’esaltazione della vita istintiva senza limitazioni o freni di sorta, l’esaltazioue filosofica di quella forma di vita di cui il Decameron del Boccaccio era la rappresentazione artistica. Mai i più tendono invece a una riabilitazione di Epicuro e dell’epicureismo di fronte alle accuse leggendarie di libertinaggio e di disonestà.
Ed è tipico il tentativo di LORENZO VALLA di una sintesi di epicureismo e di cristianesimo, conciliante il piacere naturale del primo con la felicità eterna del secondo, come due gradi del medesimo ideale di vita (2).

Quanti invece erano, piuttosto che propensi ad abbandonarsi al godimento della vita, sensibili alle calamita pubbliche e private, ricorrevano allo stoicismo come a scuola di energia e di conforto. E accoglievano insieme tutti e due i motivi dominanti nell’etica della Stoa, quello prevalentemente negativo dell’adattamento rassegnato o magari sorridente all’inevitabile e della rinuncia all’azione, e quello positivo dell’energia del volere, della forza di resistenza all’avversità: il secondo è tuttavia più rispondente a quel senso dinamico
della vita che é una caratteristica dello spirito di questo tempo (3).

Motivi scettici, stoici ed epicurei s’intrecciano, componendo una sintesi originale – espressione di una delle più caratteristiche personalità del Rinascimento francese – nei Saggi di MICHEL DE MONTAIGNE (1533-1592) (4). Vissuto in un’età insanguinata dalle lotte politiche e religiose, egli si tiene appartato da quel moto turbinoso di passioni e trova nella sua vita interiore un asilo di pace e di libertà. Da questo ritiro egli può osservare lo spettacolo della vita umana con  l’occhio freddo del Saggio, che s’é liberato da ogni timore e da ogni passione, e con l’indulgenza benevola dell’uomo esperto che tutto comprende e di nulla si sorprende. Umanista, ha conoscenza delle più svariate manifestazioni della vita spirituale dell’antichità; curioso di tutto ciò che é “umano” in ogni paese e in ogni età, si mette a contatto con le forme di cultura più disparate. Ma ciò che lo interessa in questo vagabondaggio spirituale è il “diletto” che gli viene dal rivivere in sé con simpatia, volta a volta, quelle diverse espressioni di amanita, senza legarsi seriamente a nessuna. È, il suo, una specie di giuoco spirituale. Un perenne distacco aristocratico da tutto gli permette di osservare con uno spirito di superiorità sorridente, nell’atto che assapora la gioia squisita come di moltiplicare la propria vita in tante vite differenti. È un epicureismo raffinato, l’epicureismo della cultura. “Io studio me stesso più di ogni altra cosa: questa é la mia metafisica e la mia fisica”. L’io è il centro della sua riflessione; ma non l’io universale e astratto dei filosofi, né l’io della teologia, che geme sotto il peso del peccato e invoca la grazia divina; bensì la propria individuale personalità vivente, nella ricchezza concreta del suo intimo contenuto.
La sua preoccupazione è scoprire in sè quella “forme maitresse”, che sotto il variare continuo di stati interiori v’e immutabile in ognuno, e costituisce l’impronta originale e incomunicabile di ogni individualità, la legge della sua azione.

Al di fuori di questo campo – limitato ma fecondo – dell’individualità propria, non vi ha conoscenza che non sia variabile e malcerta. I sensi ci ingannano; la ragione si avvolge in un processo all’infinito; i principii di morale variano da paese a paese e da età a età. “Que sais-je ?”; ecco la conclusione desolatamente scettica contro cui urta tutto l’orgoglio umano. Una tale umiliazione della ragione è, anche, volta dal Montaigne a dimostrare la necessita della fede. Ma non per questo egli può dirsi un’anima religiosa. Montaigne non è Pascal. La sottomissione alla fede egli l’accetta nei limiti in cui gli giova per quella intima sicurezza che sola gli sta a cuore. Non lui a Dio, ma Dio serve a lui; la religione per Montaigne è mezzo alla “tranquillitas animi”, come per gli epicurei tipo Valla era mezzo alla “voluptas”.

E questa tranquillità si consegue con l’abbandono fiducioso alla guida della “nostra grande e potente madre natura”, che sa ciò che fa e conosce meglio di noi quel che occorre alla nostra felicità. Montaigne ha un senso ottimistico della realtà; ammette con lo stoicismo un ordine universale delle cose, anche se imperscrutabile per noi e irriducibile alla uniformità rigida di leggi, anche se rivelantesi a noi in una indefinita molteplicità di fenomeni e esseri particolari, ognuno dei quali ha una sua fisonomia originale, un suo viso inconfondibile, ma festazione unica e irripetibile della sublime immensità della natura.

L’affermazione dell’esistenza d’una “forme maitresse” nell’anima di ciascun uomo è nel Montaigne l’espressione culminante dell’individualismo caratteristico del Rinascimento. La concezione della natura come di un mondo, il quale non è che “varietà e dissomiglianza” pur contenendo in sé un ordine universale, e l’espressione potremmo dire lirica o dilettantistica di quella nuova visione della realtà – instaurata appunto nel Rinascimento -, che é fondata sull’osservazione del particolare, sull’esperienza del caso singolo, sempre aperta ad accogliere le voci nuove con cui la natura rivela il fondo inesauribile delle sue energie.

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(1) Citiamo coma rappresentanti più notevoli dello scetticismo il tedesco AGRIPPA VON NETTESHEIM, autore di un De vanitate scientiarum et artium (1527), che dello scetticismo si servì come premessa per lo studio della magia; e il portoghese FRANCISCO SANCHEZ, autore di uno scritto Quod nihil scitur (1581) (oltre MONTAIGNE di cui mi occupo adesso).

(2) LORENZO VALLA (1405-1457), una delle figure più caratteristiche dell’ Umanesimo italiano, avversario acerbo dell’aristotelismo, storico cui si deve la dimostrazione della falsità della donazione di Costantino, filologo e grammatico, e anche il rappresentante più cospicuo dell’epicureismo, con i suoi Dialoghi De voluptate.

(3) I seguaci più notevoli dello stoicismo nel Rinascimento furono GIUSTO LIPSIO di Lovanio, con una sua Manuductio ad stoicam philosophiam (1603), e GUILLAUME DU VAIR (1556-1621), autore di un Traité de la constance et consolation ès calamites publiques (del 1590).

(4) MICHEL DE MONTAIGNE (1533-1592), autore degli Essais, pubblicati tra il 1580 e il 1588, nacque nel 1533 di nobile famiglia nella Francia meridionale, viaggiò in Italia e visse poi quasi sempre ritirato nei suoi possedimenti, tutto dedito agli studi.

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