Platone
Il cittadino, il suddito e il sapiente
In ambiente pitagorico era nata la filosofia dell’anima, non a caso in un ambiente nel quale in qualche modo si era sviluppata anche la concezione della scienza matematica, che ora abbiamo indicato. I Pitagorici avevano insistito sulla differenza tra anima e corpo, anzi sull’opposizione dell’una e ,corpo, avevano indicato nella connessione con il corpo una condizione negativa per l’anima, e avevano rintracciato certe zone della vita umana dove si manifestano le limitazioni negative che l’anima deve subire a opera del corpo. Ma a parte le concezioni etico-religiose che i Pitagorici avevano collegato alla teoria dell’anima, un’accumulazione imponente di osservazioni e di teorizzazioni sui comportamenti effettivi degli uomini si erano costituite intorno al presupposto che i comportamenti umani avessero un principio proprio diverso in qualche modo dal carpo. Accanto alla letteratura e alla storia, che menzionavano l’intelletto, la ragione, le virtù, le emozioni ecc., il diritto aveva costituito una classificazione di comportamenti e aveva avviato l’analisi del comportamento in relazione al problema della volontarietà e dell’imputabilità delle azioni umane; un problema che per altri versi era al centro anche degli studi dei retori, cioè di quelli che coltivavano la tecnica di scrivere discorsi da pronunciare in pubblico, per ottenere l’assenso della maggioranza di un’assemblea o della giuria di un tribunale. Non è da stupire, perciò, che le grandi costruzioni etiche del IV sec. pongano al centro proprio la nozione di anima, e presentino l’etica come il tentativo di disciplinare funzioni e relazioni interne tra le parti dell’anima.
Per stabilire rapporti corretti tra le parti dell’anima Platone e Aristotele usano la relazione di mezzo a fine. Il fine vale più del mezzo, e certe parti e funzioni sono mezzi, mentre altre sono fini rispetto alle prime. Per l’uomo il corpo è solo un mezzo, e tutte le funzioni dell’anima legate al corpo, come le emozioni, sono mezzi, rispetto alle funzioni che presuppongono solo l’anima, come l’intelligenza, che ha il suo culmine nella capacità di far scienza. La morale si configura perciò essenzialmente come una disciplina dei bisogni dell’uomo, di quei bisogni che sono da ultimo gli stimoli delle tecniche produttive e dell’accumulazione di ricchezze. La scienza pura, distaccata dalle tecniche, che conosce la natura, ma non per sfruttarla, ha da essere metro e norma delle azioni dell’uomo. L’antica fiducia, che era stata dei Sofisti, di Anassagora, della generazione periclea, che il coraggio di sapere e di cercare la ricchezza rendessero gli uomini più disciplinati e meno ferini, si era dissipata. I bisogni umani andavano frenati e disciplinati: qualcuno, come i Cinici, sosteneva che andavano addirittura nella gran parte aboliti; altri, come Platone, pensava che solo in una città ideale e non ancora esistente potessero essere_ ridimensionati; altri, come Aristotele, pensavano che potessero essere accettati i bisogni nella misura in cui non compromettessero la stabile e pacifica esistenza di una comunità rispettosa delle gerarchie naturali dell’anima. Parlavano di anima e di parti dell’anima, ma intendevano la società e i ruoli sociali. Per Platone le parti dell’anima, la parte inferiore e la superiore, erano chiaramente due parti e funzioni della società: quella degli uomini produttivi e quella degli uomini che comandano e combattono.
I Cinici rifiutavano la società che mirava a soddisfare bisogni ben lontani da quelli naturali. Per Aristotele era chiaro che ci sono gli uomini che lavorano, puri strumenti, e quelli che comandano, i quali sono a loro volta strumenti per quelli che conducono la vita più perfetta, quella della conoscenza.
Nella scuola socratico-platonica era nata la ripartizione dei beni in beni esterni, beni del corpo e beni dell’anima; e uno dei modi in cui si erano espresse le teorie della morale era la diversa configurazione dei rapporti tra queste classi di beni. Se in alcuni circoli socratici, eredi di un certo naturalismo sofistico, si era sviluppato un edonismo, che privilegiava proprio i beni del corpo, le principali alternative erano costituite dal rigorismo cinico, che dava il primato assoluto ai beni dell’anima, con l’esclusione totale delle altre forme di beni, e dall’etica platonica e aristotelica, che tentava un’integrazione di tutte le forme di beni in una gerarchia bene ordinata. Proprio il rifiuto radicale del tentativo di conciliazione operato da Platone e da Aristotele, in modi diversi, doveva essere il segno delle teorie morali che nasceranno verso la fine del IV sec. in connessione con la fine della polis e con la nascita dei regni alessandrini.
Alessandro Magno aveva dilatato i confini del mondo greco a tutto il bacino del Mediterraneo orientale, portando profondamente la civiltà greca in Oriente e in Egitto, ma subendo anche profondamente l’influsso delle civiltà con le quali si era incontrato, influsso del resto tutt’altro che inesistente anche nella Grecia delle poleis.
I pensatori politici greci, da Platone a Isocrate, avevano spesso sostenuto che solo un sovrano liberale, illuminato e rispettoso della cultura greca avrebbe potuto risolvere il problema politico della Grecia. Aristotele aveva continuato a pensare che un sovrano dei greci non avrebbe mai dovuto atteggiarsi a despota orientale. Alessandro tuttavia non aveva esitato a dimenticare il programma del proprio precettore Aristotele e ad assumere forme di governo di tipo orientale. Alla sua morte il vasto impero da lui creato fu smembrato tra i successori (i diadochi), che diedero vita a regni personali nelle diverse province dell’impero di Alessandro. Anche la Grecia fu inserita in questo nuovo sistema politico amministrativo, e, anche se le poleis in qualche modo continuavano a esistere, si trasformavano in unità amministrative, senza capacità di decisioni politiche di grande respiro. Era difficile teorizzare, in questa situazione, una morale che fungesse da garante dell’ordine sociale facendo leva su concetti che avevano perso senso con la dissoluzione del mondo greco classico. I problemi che avevano assillato le città greche, come la distribuzione equilibrata del potere, il disciplinamento della proprietà, il mantenimento della popolazione inurbata, l’entità e il tipo di estensione della sfera cittadina, acquistavano ora una nuova dimensione. Le città erano inserite in un sistema maggiore nel quale potevano trovare espansione le forze compresse entro la piccola sfera del sistema politico cittadino, mentre i problemi di equilibrio tra le élites locali governanti diventavano parti del più vasto problema di regni assai grandi, e con questo perdevano importanza. Anche il riferimento alla scienza, attraverso il quale le grandi scuole filosofiche avevano cercato di esprimere una morale che andasse al fondo dei problemi politici e si collocasse in un orizzonte assai vasto, dava ora un suono del tutto diverso. Il mondo curioso e operoso degli empirici, dei tecnici, creatori di quel tipo di sapere che spesso nel mondo greco classico era apparso come un fattore di squilibrio, e perciò sostanzialmente immorale, era ora uno degli aspetti più vivi e caratteristici dell’età alessandrina, in gran parte slegato dalla concezione della scienza platonica e aristotelica.
Morale edonistica e rigorismo cinico
L’eredità dei tipi di morale che erano sembrate in più netta antitesi con il mondo della polis, la morale edonistica e il rigorismo dei cinici, dovevano diventare i modelli più fortunati del mondo alessandrino. Via via che alla figura del cittadino, che vede la propria vita privata strettamente legata alle decisioni collettive, cioè politiche, si sostituisce la figura del suddito di un regno, che ha una sfera privata assai ben garantita, modelli di comportamento uniformi e indiscussi, un minimo di beni garantito, la morale platonica e aristotelica tendono a regredire, per lasciar posto alle teorie morali degli epicurei e degli stoici. La loro non è la morale dell’uomo comune, del suddito medio, è la morale del sapiente e del saggio, cioè di quello che ha scelto di vivere in modo diverso dalla comunità dei sudditi. Stoici ed epicurei hanno questo in comune: rifiutano il tentativo della morale classica di conciliare le diverse classi di beni. Il saggio deve vivere in modo da poter fare a meno dei beni esterni e della maggior parte dei beni del corpo. Nel momento in cui i beni esterni non sono più materia di decisione della comunità politica, perché dipendono da una struttura gerarchica della società sottratta alle decisioni pubbliche, la morale non si occupa più di regolare e assicurare in qualche modo il possesso di quei beni e l’ordine politico che deve garantirne il godimento, ma si pone come problema la difesa dell’individuo da quei beni. Lo scopo della morale diventa l’assicurazione della tranquillità personale di fronte ai beni che ora sono a portata di mano e dai quali l’individuo potrebbe troppo strettamente dipendere. La morale si configura ancora come disciplina dell’anima, ma è caduta quella sorta di corrispondenza tra la struttura dell’anima e la struttura della società, che l’etica classica aveva sempre mantenuto. Per le scuole post-aristoteliche í problemi e le strutture delle comunità storicamente esistenti sono problemi che non toccano il saggio, il quale o è cittadino del mondo, come per gli stoici, o vive nel culto dell’amicizia; le comunità storiche sono problemi solo per gli uomini comuni, che si affannano dietro i beni esterni e che non vivono per il culto della serenità personale.
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LA DIALETTICA DI ESSERE E DIVENIRE
LA SCUOLA PITAGORICA o ITALICA
MORALE ELLENICA – Platone, Aristotele e Alessandro
EPICURO – L’ASCETISMO DEL PIACERE
FILOSOFIA – LE SCIENZE AL TEMPO DEI GRECI
LA PATRISTICA – MORALE DEI FILOSOFI CRISTIANI
LA PATRISTICA GRECA – FILOSOFIA NEI PADRI GRECI
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