LA MORALE NELL’ANTICA GRECIA

Il problema morale della antichità 

Dopo la metà del IV sec. a.C. la cultura greca dispone di un’ampia problematica morale, articolata in dottrine molteplici e dotata di un rispettabile apparato concettuale. Soprattutto le teorie morali di Platone e Aristotele, attingendo a una grande tradizione filosofica, politica, storica e retorica, hanno elaborato una tavola delle virtù, una teoria dei fini dell’azione umana, una descrizione delle funzioni psicologiche dell’uomo, una classificazione dei generi di vita individuali e collettivi. La teoria morale diventa uno strumento per descrivere l’ordinamento naturale della vita propriamente umana, per indicare come dovrebbero essere le azioni degli uomini, per stabilire le relazioni tra i comportamenti umani e i fini individuali e collettivi. Nell’apparato concettuale di queste complesse costruzioni dottrinali vengono accolti, e trasformati in concetti generali, contenuti morali, precetti pratici, programmi politici che la tradizione aveva elaborato e trasmesso; ma nei confronti della tradizione, filosofi come Platone e Aristotele fanno appello al sapere, alla sua validità e attendibilità come sapere, per raccomandare i contenuti morali che quelle dottrine contengono.

D’altra parte posizioni filosofiche eredi di un certo naturalismo di tipo sofistico o anassagoreo, o di un certo radicalismo socratico, come il cinismo, contestano alle dottrine di tipo platonico-aristotelico la possibilità di assorbire nella teoria filosofica e di giustificare con discorsi generali tanti contenuti della morale tradizionale. In fondo, come dicevamo nella puntata precedente, Platone e Aristotele non avevano mai dubitato della corrispondenza tra vita privata e vita pubblica, della polis come unico tipo di organizzazione della vita pubblica, del fatto che per ragionare dei comportamenti individuali si debba far riferimento alla vita pubblica e alle sue strutture. Questo nesso è proprio quello che salta verso la fine del IV sec.
Alle grandi ambizioni che sorreggono le costruzioni dottrinali nate nelle scuole di Platone e di Aristotele, e che pretendono di abbracciare il cielo e la terra, si oppongono forze socio-culturali molteplici. Da un lato una forma di cultura tradizionalistica guarda sempre con sospetto l’appello al sapere, che preferisce il richiamo ai buoni tempi antichi, magari nel nobile linguaggio del retore Isocrate, ma che non manca, per esempio con un personaggio come Senofonte, di scoprire aspetti importanti della vita sociale ed economica, talvolta trascurati dalle grandi sintesi dottrinali. D’altra parte tutta una schiera di filosofi sottili, che dominano in pieno il IV sec., che si richiamano a una certa interpretazione dell’insegnamento socratico, alla sua ignoranza metodica, sempre buttata in faccia a chi pretende di sapere troppo, rimproverano, forse soprattutto ad Aristotele, il tentativo di costruire un sapere capace di dare tante indicazioni tanto attendibili. Le implicazioni morali di una posizione teoretica di questo genere costituiscono il rifiuto della dottrina morale che tenta di aderire alle tavole tradizionali delle virtù, magari correggendole, o che progetta città nuove, che tuttavia presentino le stesse strutture di quelle antiche. Finiscono con l’essere, queste, conclusioni che collimano con quelle della scuola cinica, anche se hanno motivazioni diverse, e forse implicano più un distaccato accettamento delle consuetudini che un rifiuto polemico di tutte le tradizioni in blocco. Per i filosofi della cosiddetta scuola megarica che, fondata da Euclide scolaro di Socrate, durerà fino ai primi decenni del III sec., il discorso morale fatto per assorbire le tradizioni e gli istituti delle città è del tutto arbitrario, sicché l’auto sufficienza personale è l’unica norma attendibile di vita. Per Antistene, altro scolaro di Socrate, qualsiasi tentativo di costruire un discorso scientifico molto elaborato è illusorio: l’unico discorso valido è quello pratico e morale, che metta in luce la vanità, il carattere ingannevole, l’ingiustizia della cultura umana e delle strutture sociali che la reggono, esaltando la fatica, la povertà, l’autosufficienza del saggio. Ad Aristippo di Cirene, anche egli membro della cerchia socratica, si fa risalire la scuola cirenaica, che vede nel perseguimento del piacere l’unico fine della vita umana: è anche questo un rifiuto opposto all’etica dottrinale, che pretende di regolare e di assorbire le spinte e le esigenze che provengono dall’interno dell’uomo.
La polis aveva condannato Socrate. Platone rispondeva progettando un’altra polis, governata da uomini che sarebbero stati gli eredi di Socrate. Aristotele pensa che una polis ben regolata, lontana dagli eccessi della democrazia ateniese potrebbe evitare quegli errori. Ma i megarici, i cinici, i cirenaici non credono più nella polis: per loro il rifiuto di Socrate è un rifiuto globale verso la vita politica e culturale, e il saggio non deve fare affidamento sulla polis e sulla sua cultura. Del resto al momento della morte di Alessandro il quadro politico che era stato assunto nell’apparato concettuale delle grandi dottrine morali, era tramontato o stava per tramontare. Non solo le conquiste di Alessandro avevano avvicinato l’Oriente alla cultura greca in modi del tutto nuovi, ma le vecchie gerarchie politico-sociali stavano trasformandosi.
Se già nella Grecia pre-alessandrina stava sviluppandosi una società militare, certamente l’egemonia macedone aveva portato a maturazione questo processo, e per giunta gli aveva dato l’aspetto del predominio di una stirpe greca sulle altre. Dopo la morte di Alessandro, i suoi successori avevano fondato regni che si reggevano su un apparato militare-burocratico: e nei confronti di essi i greci si trovavano ora in posizioni diverse, secondo che appartenessero all’area della civiltà greca originaria, o alle nuove città fondate da Alessandro e dai suoi successori in Oriente, nelle quali essi entravano come coloni-soldati o come commercianti. In questo nuovo quadro storico-politico si sviluppano il commercio e l’artigianato, in città fiorenti, che hanno spesso serbato le forme amministrative delle antiche poleis; tuttavia entro la struttura burocratica rigida dei nuovi regni si profilano conflitti e angosce sociali, tipici di un’economia che sta avviandosi verso un regime di produzione schiavistica. In questa situazione, e assunzioni di Platone e di Aristotele perdono credibilità, e il vecchio ideale del sapere, come coronamento e guida della vita cittadina, diventa sempre meno attendibile. Non solo l’ideale del sapere in sé, la possibilità stessa di costruire un sapere sufficientemente complesso subisce critiche radicali nelle scuole socratiche delle quali abbiamo parlato, ma gli eredi delle dottrine platoniche e aristoteliche si vedono costretti ad abbandonare gli ideali che avevano ispirato i maestri.
La scuola platonica romperà il sottile equilibrio di Platone e finirà con lo sviluppare una forma di moralismo religioso, che nel culto degli astri e nella contemplazione dell’ordine celeste troverà la via di scampo a un discorso troppo chiuso in strutture storicamente finite. Il Peripato aristotelico, politicamente legato alla politica macedone in Atene, ispiratore dell’amministrazione oligarchica della città, cara appunto ai macedoni, diventa un centro di ricerche storiche e naturalistiche rigorose e agguerrite, e da esso escono studi e descrizioni attente della vita morale e politica nelle sue strutture elementari. Teofrasto, lo scolaro e successore di Aristotele, lasciò in questo genere un’opera, i Caratteri, che descrivono appunto i costumi dei membri di una comunità in generale. La vita morale tende a diventare una sezione della vita reale, una categoria di comportamenti che hanno la loro giustificazione nella struttura della società e dell’anima individuale, che già di fatto rispettano certe leggi. L’apparato concettuale, con il quale l’etica di Aristotele cercava di proporre una certa morale facendo appello alle strutture reali del mondo psicologico individuale e del mondo sociale, diventa lo strumento per descrivere quella che si ritiene la realtà, con le sue armonie già realizzate, il suo funzionamento abbastanza soddisfacente a livello dei piccoli rapporti quotidiani. La scienza, che per Platone e Aristotele era lo strumento per cogliere anche gli aspetti più drammatici della realtà e per porvi rimedio, ora diventa la semplice descrizione della realtà sociale, che appare già divisa e organizzata secondo gli schemi stessi della scienza. La scienza morale ora è non uno strumento per cambiare in una certa direzione la realtà sociale, ma la conoscenza del settore morale della realtà umana. Del resto nel Peripato la scienza sta diventando sempre più uno strumento di conoscenza esatta e di classificazione.
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Aristotele
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Le vicende dei peripatetici

Protetto prima da Antipatro, luogotenente di Alessandro e suo successore in Macedonia, poi dal figlio di Antipatro, Cassandro, il Peripato è la culla della politica filo-macedone, impersonata da Demetrio Falereo, stratego di Atene. Ma quando la dinastia di Antipatro fu minacciata da quella di Antigono, un altro dei generali successori di Alessandro, e il regime di Demetrio Falereo cadde, ancora una volta i peripatetici si sentirono in pericolo ad Atene. Dopo la sua caduta (307 a.C.) Demetrio si recò ad Alessandria alla corte del re d’Egitto Tolomeo I, dove organizzò il Museo, un istituto di ricerca scientifica per scienziati che vivevano negli appartamenti della scuola, e la celebre biblioteca.
Con Stratone di Lampsaco, successo nel 287 a.C. a Teofrasto nella direzione della scuola aristotelica, il Liceo praticamente si trasferì ad Alessandria: la scienza si trasformava in un’opera di ricerca matematica, naturalistica, filologica all’ombra di un sovrano divinizzato, che in parte imponeva ai sudditi il comportamento, in parte si affidava alla forza delle tradizioni e al buon ordine che è garantito da un’organizzazione sociale nella quale la classe dominante è forte e prospera.
A Pirrone di Elide gli scienziati e gli eruditi di Alessandria sembravano uccelli in gabbia. Pirrone era un personaggio-simbolo, nato poco prima della metà del IV sec.: aveva partecipato alle spedizioni di Alessandro, aveva conosciuto i saggi indiani, e ora in Grecia proponeva il silenzio, cioè il rifiuto di qualsiasi impegno verso ogni forma di credenza, e l’imperturbabilità come forme ideali di vita. Nel III sec. il suo scolaro Timone di Fliunte porterà ad Atene il messaggio del maestro che non aveva scritto nulla, e in fortunate composizioni poetiche irriderà la tradizione filosofica colta della Grecia: sarà un insegnamento che la cultura greca del III sec. e dei successivi accoglierà subito, facendone un indirizzo filosofico importante, lo scetticismo.
Comunque, in un modo o nell’altro, la cultura greca si avviava, sotto le spoglie asciutte della scienza descrittiva o con i toni irridenti dello scetticismo, ad accettare la nuova realtà politico-sociale, a rinunciare alle grandi costruzioni etiche. Eppure, al di là dell’apparato descrittivo, qualcosa restava del piedistallo sul quale la scienza etica era stata costruita. C’era ancora spazio per un sapere che orientasse e valutasse le conseguenze del comportamento globale dell’individuo: un sapere sul quale si potesse costruire un’arte del vivere, magari individuale, capace di orientare l’uomo, anche se le vecchie strutture sociali, riferendosi alle quali la vecchia etica faceva i propri ragionamenti, non esistevano più.
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Zenone di Cizio e la scuola stoica

Zenone di Cizio, un fenicio di Cipro sulla trentina, si era messo a tener scuola ad Atene nel Portico (Stoà) dipinto, sicché i suoi seguaci furori chiamati stoici. Si era intorno al 300 a.C., e Zenone affascinò subito gli ateniesi; ma avrebbe poi anche conquistato la simpatia del re macedone Antigono Gonata, presso il quale lo stoico Perseo diventò una figura importante. Zenone oppose alla Repubblica di Platone un proprio progetto politico, che come tutte le sue opere è andato perduto, e del quale non sappiamo quasi nulla. Ma il principio ispiratore doveva essere la tesi che tutti gli uomini e tutti i popoli devono avere un’unica legge, che la vita della comunità è come la vita dell’anima individuale, e deve realizzare le medesime virtù. La concordia tra gli uomini è in sostanza il frutto delle virtù individuali, che consistono in una disciplina delle emozioni. Anche Platone aveva pensato a una comunità che realizzasse le stesse virtù dei singoli; senonché mentre per Platone la virtù individuale ha come presupposto l’organizzazione della comunità politica, per Zenone la vera comunità politica è il risultato delle virtù che si realizzano come disciplina individuale. Per Zenone le virtù sono quattro: saggezza, giustizia, coraggio e temperanza, e tutte sono forme di saggezza nelle diverse circostanze della vita, perché in sostanza la virtù è l’esercizio della ragione individuale, la sua fermezza nei confronti delle emozioni. Tutto questo si può dire con una sola regola: vivere secondo natura. Il sapere che orienta la vita, la tecnica o l’arte del vivere si regola sulla natura, e la comunicazione dell’uomo con la natura avviene attraverso l’anima. Vivere secondo natura vuol dire regolarsi secondo la ragione, e regolarsi secondo la ragione vuol dire esercitare il dominio delle emozioni, perché le emozioni nascono quando l’anima è troppo turbata, e oscilla qua e là verso quelli che non sono che beni apparenti, cioè non sono le virtù. Perché per Zenone è bene solo la virtù e male solo il vizio; quello che sta in mezzo, come i beni materiali, è indifferente. Ora gli sbattimenti dell’anima derivano dai beni falsi che sono sottoposti alle oscillazioni, e sono i beni sociali; a differenza della natura che ha lunghi corsi, la società offre vicende brevi e imprevedibili. Il sapiente sa essere staccato da questi beni, non cercarli; e questa è la condizione migliore per la concordia sociale. Accanto ai sapienti ci sono gli stolti, e tutto ciò che essi fanno è male, mentre tutto ciò che il sapiente fa è bene, anche se commette atti che dal punto di vista tecnico possono sembrare errori, anche se deve sopportare o fare cose che possono sembrare discutibili: una volta posto come fine la pratica della virtù si può fare o sopportare tutto ciò che porta a questo fine. Questa serie di atti che sono mezzi rispetto alla virtù si chiamano appunto il dovere, un termine a quanto pare introdotto da Zenone.

Il dovere

L’etica insegnata da Zenone è in sostanza una disciplina individuale che ha come presupposto la vecchia teoria dell’anima come sostegno della gerarchia tra i tipi di comportamento umano; ma questa volta l’anima viene messa in relazione con la natura, e non con la comunità cittadina. La natura è il corso degli eventi relativamente costanti, o che variano per lunghi cicli, sui quali la ragione può fare affidamento: essi perciò non provocano rapidi movimenti contrastanti dell’anima, perturbazioni. Tra l’anima e la natura esiste la società, con i suoi beni, le sue gerarchie, le sue ansie. Nella società sono mescolati sapienti e sciocchi, in tutte le posizioni sociali; ma i sapienti costituiscono una specie di società universale, perché sono concordi senza bisogno di istituzioni, leggi, disciplina: essi sono virtuosi, cioè non interessati ai beni che scatenano le competizioni. Tutti possono essere sapienti, i poveri come i ricchi, i governanti come i governati.

Stoicismo ed ellenismo

In un certo senso nell’etica stoica si esprimeva la società aperta dell’ellenismo, la società cosmopolitica, che abbatteva le vecchie barriere tra le poleis e all’interno della polis. Ma questo aspetto di apertura e libertà si rispecchiava nel carattere individualistico della nuova etica. Il mondo ellenistico aveva le sue gerarchie sociali, le sue barriere, e in esso la servitù della gleba e la schiavitù andavano prendendo l’aspetto di fenomeni sociali sempre più estesi. L’etica stoica non fa leva su queste differenze, perché ne disconosce l’importanza. Una volta tolta importanza ai fatti e ai beni sociali, la posizione sociale non conta, e chiunque può diventare sapiente.
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Platone
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Morale e natura

Caduto il complesso impianto della scienza e della scienza etica in particolare, costruito da Platone e da Aristotele, sentito il bisogno di costruire un sapere relativamente semplice e sicuro, privo delle complessità logiche rimproverate a Platone e ad Aristotele, libero dai riferimenti troppo stretti a una certa società politica, gli stoici elaborano un sapere morale fondato sui lunghi corsi sicuri della natura, una morale il cui contenuto è in sostanza un monito verso i beni sociali, che sono sottoposti a vicende più brevi e meno attendibili. Eppure la società ellenistica fu a modo suo una società opulenta e operosa, amante dei beni economici e della loro esibizione. Ma, come abbiamo visto, l’etica tende sempre a costituirsi come una scienza che in qualche modo vuol correggere certi comportamenti e mettere in guardia nei confronti di certi aspetti della realtà, facendo leva su altri; e quando ha successo finisce per diventare uno strumento per descrivere la realtà che essa stessa ha prodotto. Si dice spesso che la società nata dal mondo unificato da Alessandro Magno conosce una vasta e operosa borghesia cosmopolita. Il concetto di borghesia è un concetto difficile, spesso usato in modo vago. Ma nella misura in cui quell’affermazione è vera, si può dire che molti tratti della società borghese anche moderna hanno avuto origine nella morale stoica: basti pensare all’etica del dovere, alla morale intesa come disciplina dolorosa, al suo carattere rinunciatario, all’interpretazione della stessa produzione dei beni come un dovere penoso. Nella ricca Atene della prima metà del III sec. Zenone ebbe molto successo, forse proprio perché insegnava la liberazione da beni sociali e materiali abbondanti e apprezzati, cioè perché metteva in circolazione un bene raro e del quale in qualche modo si sentiva il bisogno. Ed era forse anche la liberazione dall’orizzonte ormai angusto della città che aveva perso l’antico primato, il collegamento con una natura che ha un respiro ampio, per cicli assai più lunghi di quelli, brevi, della città.
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