L’ITALIA IN GUERRA

L’ITALIA IN GUERRA

Il 24 maggio del 1915 l’Italia attacca l’Impero Austroungarico. Comincia per noi la Prima Guerra Mondiale. Non combattiamo per voglia di conquista ma per essere liberi.

Agli inizi del conflitto, l’Italia aveva scelto una posizione di neutralità, che godeva il favore della maggioranza parlamentare e di gran parte dell’opinione pubblica. Cattolici, socialisti, liberali giolittiani, con motivazioni diverse, erano contrari a ogni intervento, sia per ragioni di principio che per opportunità politica: si riteneva infatti, specie da parte liberale, che l’Italia avrebbe avuto molto più da guadagnare se si fosse collocata in una posizione mediatrice, tale da favorire negoziati tra le potenze belligeranti.

Dei socialisti, ostili alla guerra, si è detto: dopo un anno di campagna contro l’intervento, finirono con l’assestarsi su una posizione sterile (“non aderire né sabotare la guerra”). Contro il neutralismo si mobilitarono, invece, le correnti “interventiste” tra le quali, aggressive e turbolente, quelle dei nazionalisti e di un gruppo di “socialisti rivoluzionari”, capeggiati da Benito Mussolini (1883-1945). Quest’ultimo, che già si era schierato, come direttore dell‘Avanti (quotidiano del PSI) contro l’imperialismo, si era poi rapidamente convertito all’interventismo più acceso. Espulso dal Partito socialista, aveva fondato un suo giornale, il “Popolo d’Italia” finanziato da gruppi francesi e aveva cominciato a condurre una violenta offensiva contro i neutralisti e il Parlamento.

Altro leader dell’interventismo era Gabriele D’Annunzio che, tornato dalla Francia, dove s’era rifugiato per sfuggire ai creditori, aveva preso a percorrere la penisola pronunciando discorsi che erano una continua incitazione alla violenza.
A questa rumorosa pressione della “piazza” si univa quella del governo Salandra (1); del re e degli ambienti di Corte e di una parte consistente del padronato industriale. Il neutralismo veniva battuto e l’Italia entrava in guerra a fianco degli inglesi e dei francesi (24 maggio 1915).

(1) Antonio Salandra (1853-1931)3 fu presidente del Consiglio dal 1914 al 1916 e favorevole all’intervento dell‘Italia nella guerra.


L’ITALIA IN GUERRA

Dalla “Storia degli Italiani” (Ed. Laterza) di Giuliano Procacci ecco una efficace sintesi della partecipazione italiana alla guerra:

“L’Italia… entrava in guerra psicologicamente e militarmente impreparata. I clamori delle manifesta
zioni interventiste e della retorica dannunziana si sarebbero presto dileguati a mano a mano che i primi treni-ospedale ritornavano dal fronte…

Dal punto di vista militare la guerra che si trascinò per tre anni contro l’Austria e per due contro la Germania (la dichiarazione di guerra a quest’ultima avvenne in un secondo tempo, nell’agosto del 1916) fu soprattutto una guerra di posizione e di logoramento… Nel complesso, l’esercito italiano, che lasciò sul campo di battaglia 600.000 morti., si batté bene e i contadini scaraventati nelle trincee fecero il loro dovere con la stessa rassegnata determinazione con cui da civili attendevano alla loro quotidiana fatica. Anzi, se si considera che, almeno nei primi due anni di guerra, l’esercito italiano era tra i meno preparati ed armati e i peggio comandati tra quelli che combattevano sui vari fronti di Europa, non si può non rendere omaggio alla tenacia e all’abnegazione del soldato italiano.

All’inizio delle ostilità infatti le forze armate italiane difettavano di cannoni, di mitragliatrici, di camion, di ufficiali. Questi ultimi dovettero essere in buona parte improvvisati in tutta fretta con i risultati che ben si possono immaginare. Quanto allo Stato maggiore e al generale Cadorna che ne fu a capo fino alla disfatta di Caporetto, essi furono spesso impari ai compiti loro affidati…. La disfatta di Caporetto, per la quale Cadorna chiamò in causa il ‘disfattismo’ che, alimentato dai ‘rossi’ (cioè i socialisti) e dai ‘neri’ (cioè i cattolici), serpeggiava nelle file dell’esercito, fu piuttosto e prevalentemente l’effetto della mancanza di coordinamento tra i comandi delle varie armate”.

Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore del Regio Esercito

UNA TESTIMONIANZA DI GUERRA

Una testimonianza diretta dei lunghi giorni di trincea, dell’orrore della guerra, ci viene da queste pagine tratte dal volume “Guerra del ’15” (Ed. Vallecchi, Firenze) di uno scrittore combattente, il triestino Giovanni Domenico Stuparich, detto Giani (Trieste, 4 aprile 1891 – Roma, 7 aprile 1961):

“Sampietro s’è appena riparato, che s’ode, nel silenzio più pauroso, arrivare un altro proiettile. Lo scoppio è tremendo; prima che si rinchiuda su questo il tetro silenzio, una voce angosciosa scandisce nell’aria un appello disperato: “portaferiti”. Giunge un terzo proiettile; questo è proprio per me e per i miei vicini; la trincea trema, le schegge picchiano come tempeste sulle tavole e sui sacchetti, polvere acre e terra m’investono, il viso e le narici. Ecco il quarto; un fumo nero oscura la luce, un urlo orribile si leva come sprigionato dalle viscere straziate della terra; segue come il galoppo d’una mandria in fuga: i granatieri dei ricoveri colpiti si spostano precipitosamente, il giovane tenente romano trascina con sé, sorreggendolo sotto le ascelle, un ferito gemente con una coscia e una natica scorticate e sanguinose. Il primo e il quarto plotone si spostano per ordine del capitano. Io sto rannicchiato sotto la grossa pietra, che sostiene il tetto del mio ricovero; so che potrei morire sepolto qua sotto, so che la mia volontà non può nulla e che sono nelle mani di Dio, ma pure mi tengo tutto contro la morte, ho l’impressione che basta un attimo solo d’abbandono o di rilassamento e la morte mi coglie; il mio udito percepisce le più piccole vibrazioni dell’aria, credo che saprei calcolare fino al centimetro la distanza della mia testa dal posto dove andrà a battere il proiettile che arriva. Questo picchia a destra, a non più di tre metri; quest’altro vien proprio nella mia direzione ma scoppierà un poco più avanti. Ora i proiettili si allontanano verso sinistra; il nemico conosce perfettamente l’arco che formano le nostre trincee e lo batte a palmo a palmo. La sera abbiamo pace. Il cielo s’è coperto di nubi e pioviggina. Sto in piedi, di guardia, appoggiato a un asse sporgente del ricovero del capitano. La baionetta e la canna del mio fucile sono umide e fredde. Trasportino i resti della vedetta frantumata dalla prima granata: un mucchietto informe dentro un misero telo da tenda; li ha raccolti un granatiere con grande fatica tra i sassi e gli sterpi e ora non sa dove mettere le mani, tutte imbrattate. Passa, sulla barella, il ferito che lanciò quel grido angoscioso d’aiuto; ha una grave ferita al ventre e però è l’ultimo a essere trasportato al posto di medicazione; la stessa granata gli ha ucciso al fianco un compagno, trapassandogli le tempie con una scheggia. La notte è illuminata di razzi, fiori e luci verdi che sbocciano in alto sullo stelo luminoso; sostano un poco poi cadono tranquilli ondeggiando. I riflettori macchiano di mobili incandescenze le nubi e le cime delle colline o stendono le loro strisce lunghe e lucide sulle pendici .e tra gli avvallamenti. Baleni sulle colline, baleni e lampi rossastri sulla pianura”.

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