STORIA DEL CANALE DI SUEZ

La costruzione del canale di Suez
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Il 17 novembre 1869 un variopinto corteo di panfili e di navi da diporto a bordo dei quali si trovavano i titolari dei più bei nomi dell’aristocrazia, della finanza e della tecnica europea, percorreva per la prima volta, tra un tripudio di bandiere, di bande musicali e di folle festanti, i 170 chilometri del Canale di Suez. La sfilata era aperta da uno dei più lussuosi yacht che avesse mai solcato i mari, l'”Aigle”, e sulla sua tolda, corteggiata da uno stuolo di invitati e di cortigiani, stava la dama più affascinante e ammirata dell’epoca, l’imperatrice Eugenia di Francia, moglie di Napoleone III.

 La cerimonia dell’inaugurazione del Canale di Suez il 17 novembre 1869
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Non fu certo per cavalleria che Eugenia di Montijo venne chiamata a tenere a battesimo il Canale di Suez: la scelta della bella madrina fu dettata soprattutto dalla necessità di sottolineare, sia pure con una coreografia da “belle epoque”, il preminente interesse e il decisivo contributo della Francia a quella che fu la prima grande impresa internazionale del capitale finanziario europeo.
Cinquant’anni fa, questa impresa, questo “ponte steso tra i continenti al servizio del pacifico progresso di tutte le nazioni” secondo la definizione dei sansimoniani francesi che ne furono gli ideologhi, celebrava in modo ben triste il suo primo secolo di vita: chiuso da più di due anni al traffico marittimo, ingombro dei relitti di decine di navi affondate, parzialmente insabbiato per mancanza di manutenzione, il Canale di Suez non era più quel “ponte” che univa i popoli, ma piuttosto un grande fosso anticarro, una provvidenziale anche se provvisoria linea di demarcazione tra i due mondi irriducibilmente ostili.
Sarebbe fin troppo facile fare tutta una serie di considerazioni confrontando la situazione iniziale e quella finale di questa gigantesca opera dell’uomo, ma in realtà tutta la storia del celebre Canale che si articola partendo dal capitalismo ancora idealistico per approdare, attraverso le fasi dell’imperialismo e della giusta reazione che ne è seguita, al moderno neo-colonialismo del dopoguerra europeo, rappresenta una storia esemplare che vale la pena di raccontare.
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La necessità di stabilire una via di comunicazione diretta tra il Mediterraneo e il Mar Rosso era già stata sentita dagli antichi faraoni i cui domini, separati da grandi distese desertiche che ne rendevano problematici i collegamenti terrestri, si affacciavano su entrambi questi mari. Essi fecero perciò costruire un canale artificiale che, attraversando l’Uadi Tumilat e i laghi Amari, metteva in comunicazione il ramo più orientale del Nilo con il Mar Rosso. Questo canale svolse le sue funzioni per quasi duemila anni e fu ampliato da Traiano. Con la caduta dell’impero romano, la decadenza dei traffici internazionali e l’incuria del dominio bizantino il canale faraonico venne completamente trascurato e finì rapidamente per insabbiarsi.
Nei secoli successivi tutto il commercio marittimo rimase centrato nel Mediterraneo, l'”ombelico del mondo” come allora venia chiamato, per cui non si sentì affatto la necessità di uscire dal suo ristretto ambito. La situazione cambiò radicalmente con le grandi scoperte geografiche: l’asse internazionale dei traffici si spostò dal Mediterraneo all’Atlantico, venne aperta la rotta del Capo di Buona Speranza come via ideale per raggiungere le favolose ricchezze delle Indie e dell’Estremo Oriente. Le repubbliche marinare italiane iniziarono a decadere rapidamente mentre i paesi che si affacciavano sull’Atlantico (Inghilterra, Olanda, Portogallo) coglievano la loro grande occasione storica e sviluppavano al massimo la loro civiltà mercantile. Non a caso il primo progetto per il ripristino dell’antico canale faraonico, che avrebbe portato l’abbandono delle rotte circumafricane e la rivalutazione del valore commerciale del Mediterraneo, Parte proprio, nel XVI secolo, da un gruppo di tecnici veneziani. Ma le difficoltà sono enormi, sorge addirittura il dubbio che tra il Mar Rosso e il Mediterraneo esista un notevole dislivello (la storia del periodo faraonico è ancora sconosciuta) e che lo scavo di un canale di comunicazione comporterebbe il pericolo di annegamento per la popolazione rivierasche; il declino politico e finanziario della repubblica adriatica farà dimenticare rapidamente questo ambizioso progetto.
Alla fine del XVIII secolo la borghesia francese, acquistato il potere attraverso la sua gloriosa Rivoluzione, trova in Napoleone Bonaparte il suo più geniale e acuto esponente. Perfettamente conscio dell’essenza mercantilistica della società inglese, egli decide di colpire il mortale nemico della Francia alle radici e organizza la sua spedizione in Egitto per bloccarne l’espansione coloniale e interrompere la “via delle Indie”. Al suo seguito ci sono tecnici e scienziati i quali stendono accurati piani per il taglio dell’istmo di Suez ma, con il fallimento della spedizione, la cosa non ha più seguito. Le necessità economiche tuttavia trascendono i formalismi politici contingenti: anche dopo la restaurazione la Francia si trova nella necessità di competere con successo con lo strapotere commerciale dell’Inghilterra che sembrava ormai avesse monopolizzato i traffici con l’Asia. E questo naturalmente non in nome dei gretti interessi nazionalisti, ma in nome di ideali più ampi e universali.
Quale mezzo migliore, di fronte a un Inghilterra detentrice del monopolio delle rotte atlantiche e circumafricane di quello consistente nell’aprire una via diretta di comunicazione tra Mediterraneo e Asia, riportando così ad una funzione insostituibile “l’ombelico del mondo”? Tanto più che in quel momento l’unica potenza capace di tenere saldamente in pugno l’egemonia mediterranea era proprio la Francia: l’Italia era ancora divisa in tanti piccoli Stati, la Spagna non contava più niente, la Turchia era in completo sfacelo. Non deve quindi meravigliare il fatto che fu proprio la Francia a rispolverare i progetti relativi al taglio del Canale.
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Nel 1833, uno degli esponenti più in vista dell’economia francese, Barthélemy Enfantin chiese un colloquio a Mohammed Alì, nominalmente viceré d’Egitto per conto della Sublime Porta Ottomana, ma di fatto padrone assoluto delle terre nilotiche, per sollecitare da lui il permesso di realizzare il taglio dell’istmo di Suez. Mohammed Alì si dichiarò in linea di massima d’accordo, ma pose due condizioni: il canale doveva appartenere all’Egitto e per di più doveva essere liberamente aperto al traffico internazionale. La risposta di Mohammed Alì avrebbe scandalizzato il più tiepido imperialista inglese, ma suscitò invece il massimo entusiasmo in Barthélemy Enfantin, ammiratore del socialismo utopistico di Saint-Simon, e convinto assertore della necessità di sviluppare i pacifici commerci su scala internazionale per avviare l’umanità verso un periodo di comprensione, di fiducia e di benessere da cui dovesse essere bandito di conseguenza ogni conflitto e ogni guerra.
La classe capitalista francese, visto il vento che tirava, pensò di sfruttare fino in fondo l’idealismo di certi suoi intellettuali e di certi suoi economisti come un comodo paravento dietro cui celare le sue tutt’altro che idealistiche aspirazioni. Venne così legalmente costituito nel 1846 un comitato composto da insigni personalità europee, tutte aderenti al sansimonismo, che, sotto il nome di “Societé d’Etudes du Canal de Suez” iniziò lo studio tecnico e giuridico della questione offrendo al Viceré d’Egitto il massimo delle garanzie nel senso da lui richiesto.
Dei quattro progetti presentati fu adottato quello dell’italiano Negrelli e il 30 novembre 1854, il successore di Mohammed Alì, Sa’id, consegnava al visconte Ferdinand De Lesseps, autorevole membro del comitato e suo amico personale, l’autorizzazione dei lavori e per la costruzione della “Compagnia Universale del Canale di Suez”.
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Nel novembre 1858 il Lesseps, non ancora coinvolto negli scandali finanziari che poi avrebbero finito per travolgerlo, aprì la sottoscrizione per la raccolta dei fondi, ebbe grande successo finanziario che gli permise di costituire legalmente la Compagnia appena un mese dopo e di iniziare i lavorio nell’aprile dell’anno successivo.
“Il capitale era composto da 400 mila azioni da 500 franchi nominali; di queste, 207 mila si trovavano in mani francesi, 177 mila appartenevano al Viceré d’Egitto, il resto era in mano a cittadini privati”.
Sembrava che tutto procedesse per il meglio: Francia ed Egitto erano soci quasi alla pari e una clausola dello statuto della Compagnia prevedeva esplicitamente la libera transitabilità per tutte le navi di tutti i paesi. Gli ideali dei seguaci di Saint-Simon, almeno in apparenza, erano salvi.
Evidentemente in Egitto, paese sottosviluppato e debole, non poteva uscire indenne dall'”umanitario” abbraccio del capitale francese. Quattro anni dopo l’inizio dei lavori di sterro il nuovo Viceré Ismail Pascià era costretto a rivolgere una supplica a Napoleone III chiedendogli di fare cessare un fenomeno abbastanza vergognoso e comunque contrario alle teorie di Saint-Simon. In poche parole succedeva questo: gli appaltatori europei obbligavano i contadini della zona del Canale a prestare la loro opera di sterratori per pochi centesimi al giorno; questi trascuravano i lavori agricoli, si indebitavano e vendevano a poco prezzo i loro appezzamenti agli speculatori bianchi. In tre anni la Compagnia era così riuscita a impadronirsi di tutte le terre circostanti il Canale e ad evitare ogni spesa di macchine e di attrezzature moderne per lo scavo.
Napoleone III, dopo aver “pensato” a lungo, diede al viceré una risposta magnanima: la Francia era disposta a rinunciare al diritto del più forte, alle “corvées” e all’accumulazione di terre. In cambio però l’Egitto doveva rifondere alla Compagnia il danno che fu calcolato in 84 milioni di franchi, cifra allora veramente ingente. Gli azionisti riuscirono in tal modo a far confluire i debiti dei contadini egiziani in un ingente debito nazionale, ben sapendo che l’Egitto non avrebbe mai potuto pagarlo e sarebbe così rimasto alla loro completa mercè.
Ma i capitalisti francesi avevano fatto i loro conti senza l’oste, che in questo caso era rappresentato dall’Inghilterra. La più grande potenza marittima di quei tempi non aveva certamente visto di buon occhio l’apertura del Canale, aveva fatto l’impossibile per opporsi a quell’impresa ed era rimasta del tutto fredda di fronte alla grande parata del 1869. Ma aspettava l’occasione propizia per inserirsi nel grande gioco e impadronirsi senza fatica del lavoro fatto dagli altri.
L’eco delle note della marcia trionfale dell’Aida, commissionata a Giuseppe Verdi dal viceré d’Egitto per festeggiare l’apertura del Canale, non si era ancora spento e già lo sventurato paese si trovava ad attraversare la crisi finanziaria più grande della sua storia: i debiti contratti per l’acquisto delle azioni, aggiunti al debito di 84 milioni contratti con la Compagnia, avevano provocato uno spareggio incolmabile nel bilancio e una conseguente precipitosa caduta della lira egiziana.
Nel 1875 la situazione era diventata insostenibile. Era l’occasione pazientemente attesa dall’Inghilterra che si trovava per di più avvantaggiata dall’eclissi francese seguita dalla catastrofe di Sedan. Gli inviati inglesi offrirono il loro “aiuto” finanziario al viceré d’Egitto togliendolo dagli imbarazzi finanziari: in cambio chiesero soltanto la cessione delle 177 mila azioni del Canale che si trovavano nelle sue mani. L’Egitto fu così privato anche della sua percentuale sugli introiti, e, dopo il risanamento delle finanze, si trovò nella necessità di chiedere nuovi prestiti che, naturalmente gli vennero generosamente forniti. Ma la musica cambiò quando venne il momento di restituirli: l’Inghilterra e la Francia chiesero garanzie ben precise e ottennero la nomina di una Commissione per il debito egiziano incaricata di imporre e di riscuotere tutte le tasse necessarie per arrivare al saldo o per lo meno al pagamento degli interessi.
Nel 1878 in Egitto fu formato addirittura il cosiddetto “Gabinetto europeo” che, presieduto da un nobile egiziano venduto agli inglesi, Nurban Pascià, ebbe come ministro dei lavori pubblici un cittadino francese. Le conseguenze di questo stato di cose non tardarono a manifestarsi: il popolo egiziano sfruttato indegnamente e ridotto in condizioni di schiavitù si ribellò apertamente e i militari aderirono alla rivolta. I disordini fornirono il pretesto all’Inghilterra per intervenire militarmente in difesa della “civiltà occidentale” minacciata dalle turbe di “pericolosi” mussulmani: nel 1882 l’Egitto era diventato praticamente una colonia britannica e il Canale era saldamente presidiato da truppe inglesi. E ciò, nonostante la convenzione internazionale sottoscritta a Costantinopoli anche dai rappresentanti britannici, che dichiarava la zona del Canale smilitarizzata, neutrale e aperta al traffico internazionale.
La situazione fu giuridicamente legalizzata soltanto col trattato anglo-egiziano del 1936 in base al quale il Canale, definito “mezzo di comunicazione essenziale tra le diverse parti dell’Impero Britannico” doveva essere presidiato da 10.000 soldati e da 400 aviatori inglesi.
Dopo la seconda guerra mondiale, sull’ondata del grande movimento anticolonialista che scuoteva tutto il Terzo Mondo, l’insofferenza egiziana nei confronti della presenza inglese sul Canale divenne sempre più forte. La situazione precipitò con il primo conflitto arabo-israeliano nel 1848: l’Egitto per ritorsione proibì il passaggio delle navi israeliane e iniziò una vasta azione internazionale che portò nel 1955 al ritiro delle truppe britanniche. Finalmente, nel 1956, messo con le spalle al muro dal rifiuto delle potenze occidentali di finanziare la costruzione della diga di Assuan il presidente Nasser nazionalizzò il Canale di Suez che così, dopo quasi cent’anni, divenne veramente “egiziano” com’era stato originariamente garantito a Mohammed Alì.

La reazione delle potenze imperialiste non tardò a venire: la pedina utilizzata per salvare la faccia e interessi fu questa volta lo Stato di Israele. Il 29 ottobre 1956 truppe israeliane varcavano il confine della RAU con il pretesto di dover porre fine alle incursioni degli irregolari egiziani. Francia e Gran Bretagna inviarono subito un ultimatum ai belligeranti imponendo la cessazione del fuoco e l’occupazione della zona del Canale da parte di truppe franco-inglesi con lo scopo “di separare i contendenti e assicurare la pace”. Israele accettò subito (chissà perché), l’Egitto, ovviamente, rifiutò. Subito l’aviazione inglese bombardava Porto Said e truppe anglo-francesi appoggiate da paracadutisti occupavano la zona del Canale. Ma l’epoca dei metodi imperialistici più sfacciati era ormai tramontata e il colpo di mano non riuscì: L’Unione Sovietica impose l’immediato ritorno delle truppe di occupazione minacciando le più severe rappresaglie contro Londra e Parigi, e il Canale di Suez tornò a essere una pacifica via di comunicazione internazionale mentre la “Compagnia” accettava l’indennizzo proposto dall’Egitto per la nazionalizzazione e prendeva atto della nuova realtà.

 

Ma questo stato di cose è durato pochi anni: nel giugno del 1967, a conclusione della “guerra dei sei giorni”, i carri armati del generale Mosè Dayan si sono attestati sulla sponda orientale del Canale. Gli egiziani hanno affondato il naviglio disponibile per ostacolare il traffico, 15 navi con i loro equipaggi sono bloccate all’interno del Canale, destinato a vedere ormai solo il traffico notturno di piccoli natanti che, approfittando delle tenebre, portano sulla sponda opposta squadre di guastatori o di esploratori.

Negli anni Settanta del secolo scorso, il Canale è rimasto chiuso. Tutto ciò mentre una colossale opera di ingegneria, la cui costruzione ha richiesto dieci anni, è costata tanto sangue e tante lacrime ed è stata pagata con l’asservimento di un nobile ed antico popolo, giace inutilizzata, vittima anch’essa delle contraddizioni e degli egoismi internazionali. Quali conseguenze allora? Per quanto riguarda l’Italia possiamo dire che, per raggiungere i nostri porti i prodotti petroliferi dovevano compiere un percorso medio di 4.600 miglia contro le normali 3.100 miglia e che ciò comportava un maggior costo dei noli che, come è ovvio, venivano pagati dal contribuente italiano.
Su scala mondiale le conseguenze furono ancor più vistose: il Mediterraneo aveva perso nuovamente una parte della sua importanza, era stata incoraggiata la costruzione di superpetroliere gigantesche che doppiavano come gli antichi tempi il Capo di Buona Speranza, l’asse dei traffici si spostava lentamente verso quei porti che avevano tempestivamente provveduto ad attrezzarsi per accogliere le supernavi (tra questi ci sono anche i porti italiani), la Libia e la Turchia facevano affari d’oro.
Il Canale è rimasto chiuso fino al 1975, quando fu definitivamente restituito all’Egitto, che lo riaprì al traffico internazionale.
Da questo punto di vista è veramente giusto dire che il Canale di Suez è stato proprio il capolavoro del capitale finanziario internazionale. Ma non certo nel senso in cui l’intendevano gli utopisti seguaci di Saint-Simon.
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