IL TEATRO ITALIANO DEL NOVECENTO

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IL TEATRO ITALIANO DEL NOVECENTO

L’attività teatrale in Italia, nell’ultimo dopoguerra senza dubbio molto intensa, è stata tuttavia caratterizzata più che da grosse personalità di drammaturghi, di creatori scenici, dallo sforzo di elevare a perfezione formale lo spettacolo, e tipico di quegli anni è appunto il rilievo preso dalla figura dei regista teatrale (Visconti, Strehler, Rognoni); e nemmeno si può dire, come del passato, che il teatro degli ultimi anni sia stato o sia tuttora la forma d’arte dominante nell’interpretazione del proprio tempo, quale specchio della società, dove la società si riconosca e prenda consapevolezza di sé.

Queste, che del teatro già furono prerogative peculiari, si sono se mai trasferite (e il fenomeno non è soltanto italiano) al cinema e alla televisione; con tutto quanto è implicito di bene e di male, di autentico e di mistificatorio nei nuovi mezzi di comunicazione di massa.
Certo si è che oggi coinvolge l’opinione pubblica e gli strati popolari più la rappresentazione di un nuovo film o, su un piano ancor più vasto, di un “originale televisivo” , che non la “prima” di un’opera teatrale nuova, anche se poi è da registrare un pullulare di iniziative teatrali minori, che dimostrano, per questo genere letterario tante volte dichiarato in crisi, un interesse sempre vivo.
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Eduardo De Filippo, noto semplicemente come Eduardo
(Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984)
Tra gli autori italiani attivi negli anni del dopoguerra e in quelli più recenti, si potrebbero fare comunque parecchi nomi. Mi limito a quelli che mi sembrano i più significativi: Ugo Betti (1392-1953), coi suoi drammi densi di simbolismo e di atmosfere allucinate (va citato almeno Corruzione al Palazzo di Giustizia, del 1949); Diego Fabbri (1911-1980), tra i più efficaci della generazione post-pirandelliana, con le sue tematiche ispirate a un sofferto cristianesimo (Processo a Gesù, del 1955); Giovanni Testori (Arialda, 1960, L’Ambletoll Macbetto, rispettivamente del 1970 e 1972, e le sue recenti proposte di un teatro popolare religioso); ma soprattutto va ricordato lo straordinario magistero d’arte di Eduardo De Filippo (1900-1984), che in oltre cinquant’anni di attività ininterrotta come attore e come autore, partendo da un teatro popolare dialettale comico e farsesco è a poco a poco pervenuto ad una drammaturgia di respiro e livello europei.
II suo teatro, legato a uno sfondo naturalistico, di stampo tradizionale, ma profondamente umano e ricco dell’intensa sentimentalità napoletana, ha dato alcuni testi eccezionali tra cui vanno citati almeno Napoli milionaria, del 1945 e Filumena Marturano dell’anno successivo.

Con Eduardo de Filippo, rivive per così dire la figura dell’uomo di teatro completo, autore, attore e regista delle sue opere, figura piuttosto insolita alla tradizione dell’Ottocento, ma non certo ignota nei secoli precedenti.

Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene 
(Campi Salentina, 1º settembre 1937 – Roma, 16 marzo 2002)
Caratteristica che ci richiama, anche se su tutt’altro piano, almeno due altri “mattatori” delle nostre scene, Carmelo Bene (Campi Salentina, 1º settembre 1937 – Roma, 16 marzo 2002) e Dario Fo (Sangiano, 24 marzo 1926); il primo con un teatro violentemente dissacratorio dei canoni tradizionali, ricco di invenzioni e di proposte nuove (particolarmente interessanti sono infatti i suoi rifacimenti di opere del passato – Pinocchio, per esempio – ritentate in chiave moderna e provocatoria); il secondo ripercorrendo il teatro farsesco tradizionale in maniera del tutto rinnovata fino a pervenire, dopo il ’68, a un teatro di agitazione politica decisamente impegnato nel dibattito della nuova sinistra.
Dario  Fo (Sangiano, 24 marzo 1926 – Milano, 13 ottobre 2016) 

La farsa (un genere teatrale “minore” di cui era pur giusto fare un accenno), anticamente utilizzata per riempire con scene comiche gli intervalli di opere serie (la parola deriva dal francese farcir, farcire, riempire), ripresa nell’Ottocento a livello di brevi atti unici di grossolana comicità, è stata dal Fo rinnovata e arricchita di temi satirici, trasformata da un’occasione di buffonerie fini a se stesse in un assalto graffiante contro i costumi della società capitalistica, sostenuto dalle sue straordinarie doti di attore capace di far rivivere, con la sua dinoccolata e esilarante gestualità, addirittura i fasti della Commedia dell’arte.
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