CHICAGO – Anni 60-80

Nel libro “Rock Records – A Book Of Lists” (un divertente elenco delle cose più strane nel mondo della musica rock), i due autori, Barry Lazell e Dafydd Rees, hanno inventato una categoria tutta per i Chicago, quella della più noiosa sequenza di titoli per album. Non senza ragione. In effetti un elenco di titoli come Chicago Transit Authority.., Chicago.., Chicago 3.., Chicago 4 – live At Carnegie Hall.., Chicago 5.., Chicago 6.., Chicago 7.., Chicago 8.., Chicago 9 – Their Greatest Hits.., Chicago 10 – un elenco di titoli come questo, dicevo, non brilla certo per fantasia, tutt’altro. L’elenco però si ferma appunto al numero dieci e non tiene conto di tutti gli altri album successivi che hanno continuato imperterriti nell’applicazione della regoletta “nome-del-complesso-più-numero-progressivo”.

L’imbeccata però deve essere in qualche modo arrivata ai Chicago dato che il dodicesimo disco (comunque mediocre) è stato dato alle stampe con il rivoluzionario titolo di Hot Streets e per la prima e unica volta i Chicago sono apparsi in copertina fotografati a colori quasi come una band normale. Dopo Hot Streets tuttavia la tradizione è stata ristabilita ed è continuata anche dopo il cambio di etichetta. Il nuovo contratto infatti è stato onorato con un iniziale Chicago 16 che la dice lunga sulle future titolazioni.

Ma non sono solo i titoli a costituire gli anelli di una catena che unisce il passato e il presente: l’uniformità apparente in tanti anni di carriera è da ricercarsi soprattutto nel “logo”, in quel marchio riproposto sulle varie copertine sempre uguale a se stesso pur con le inevitabili differenziazioni, ma sempre immutabile e riconoscibile in tutto il mondo.

Intarsiato nel legno (Chicago V), ricavato da un’impronta digitale (Chicago XIV), riprodotto in settanta modi differenti (Chicago – Greatest Hits vol. II), stampato nel cioccolato (Chicago X) o elaborato come un avveniristico grattacielo (Chicago 13), il logo del gruppo ha rappresentato il primo richiamo per l’acquirente dei dischi; anche quando in Hot Streets (primo disco con titolo, primo disco non prodotto da Guercio, primo disco senza Terry Kath) i Chicago si misero in bella mostra in copertina, il marchio era comunque lì, ben evidente sulla destra in alto.
Questo logo ha insegnato molto nel campo dello sfruttamento dell’immagine, ha aperto strade nuove in tutto lo show-business: una vera operazione di marketing e di fantasia, come la doppia “R” incatenata di Rolls Royce, l’aquila di Armani o il Naranjito del Mundial spagnolo – un marchio che suggella la qualità, che vuol dire fiducia, che assicura il cliente affezionato, che costituisce il segnale di uno sbocco sicuro tra i quintali di vinile che giornalmente invadono i negozi di dischi.
Chicago hanno insegnato tutto questo: dopo, sono arrivati la linguaccia irriverente dei Rolling Stones, il marchio stilizzato dei Van Halen, il pupazzo-mostro degli Iron Maiden: tutto serve per costruire un canale continuo tra artisti e pubblico,, sfruttabile in spilline e manifesti, riproducibile sulle magliette o sulle sciarpe. Oggi tutto questo settore che fiancheggia il disco (“merchandising” viene chiamato) è regolato dalle severe leggi del copyright internazionale: quel certo marchio, quel preciso carattere tipografico è difeso in tutto il mondo, può essere affittato ma non copiato. È la grande forza dell’industria dello spettacolo di quegli anni, che sa muoversi come una piovra ben organizzata attraverso i vari settori merceologici, sfruttando con un solo nome tutte le possibilità.
Ma i Chicago hanno sperimentato nuovi modi di usare il mezzo discografico. Prima di loro non era mai successo infatti che un gruppo pop pubblicasse i suoi primi tre album in forma di album doppi e a questi facesse seguito un “live” addirittura quadruplo (e in tutte queste realizzazioni non manca il naturale contorno di manifesti, posters ecc.). In tre anni (dal ’69 al ’71) i Chicago pubblicarono la bellezza di 20 facciate, segno che di cose da dire e da suonare ne avevano molte, ma anche segno che c’era il tempo per ascoltarle; non dimentichiamo che proprio a cavallo dei due decenni le “suites” costituirono una delle novità più interessanti del mercato discografico.

l Chicago in quegli anni poterono cosi dilatare le loro composizioni di molti minuti; architettare mini opere estremamente articolate (la Travel $uite di Lamm ed Elegy di Pankow nel terzo album, oppure Ballet For A Girl In Buchannon nel secondo); Lamm poteva dare spazio ai suoi studi di composizione classica e Pankow poteva arrangiare i fiati con quel pizzico di presunzione jazzofila necessaria.

Già nei primi anni ’70 le cose cambiarono: le radio avevano le loro esigenze (non più di tre minuti per canzone, pena il taglio impietoso), la promozione internazionale richiedeva sempre più il facile ritornello orecchiabile che la magnificenza orchestrale, gli stessi Chicago sentirono il desiderio di cimentarsi con spazi nuovi.
Ecco allora le composizioni accorciarsi, farsi pop-songs di gran classe, perdere ogni elemento superfluo e al tempo stesso scompaiono gli album doppi (ce ne sarà solo un altro ancora, Chicago VII nel ’74) e inizia la sequenza dei più tipici (e meno costosi) album singoli.
In più i Chicago si scoprono gruppo da 45 giri, un formato discografico fino ad allora se non disprezzato certo non tenuto in grande considerazione come supporto al gruppo.

Sono questi Chicago riveduti e corretti quelli giunti agli anni ’80: una metamorfosi che la dice lunga sulle possibilità di rinnovamento del complesso.

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