CANNE AL VENTO – Grazia Deledda

CANNE AL VENTO

Appena il vecchio Efix chiude gli occhi, nel buio della sua capanna, il passato gli viene incontro: gli sembra di vedere i fantasmi dei morti e dei vivi camminare sui sottili raggi di luna che penetrano attraverso le fessure. Immerse nella magica realtà del ricordo, rivede la sua padrona, donna Maria Cristina Pintor, dal viso bello e calmo come quello delle immagini sacre, e accanto a lei il marito don Zame, rosso e violento come il diavolo, superbo come i suoi antenati, gli antichi baroni di Galte.
Rivede le quattro figlie di don Zame, col viso pallido e bello come la madre, ma con gli stessi occhi lampeggianti del padre. Sempre chiuse in casa come schiave, dopo la morte di donna Cristina, le quattro ragazze tessevano e cucivano, facevano il pane e cucinavano. Guai se don Zame le vedeva affacciate a una finestra o se uscivano senza permesso: erano percosse e insulti a non finire. Finché una notte, Lia, la terza delle figlie, sparì improvvisamente dalla casa paterna per non farvi pit ritorno…
Vi sono cose che il vecchio servo vorrebbe dimenticare, ma non può, tanto sono presenti alla sua coscienza. Mille volte avrebbe voluto urlare il suo peccato per le strade o confessarlo in chiesa: “L’ho ucciso io, don Zame, l’ho ucciso io!”. Ha taciuto per loro, le padroncine rimaste sole. Se mancava lui, chi le avrebbe assistite? Don Zame si era divorato un ‘patrimonio e aveva lasciato ben poco alle sue figlie. Ora le tre Pinter non muoiono di fame grazie a quell’ultimo podere che Efix coltiva sudando sangue. È un vecchio, ormai, ma può ancora aiutare le sue padrone.
Da più di vent’anni Efix non riceve salario, ma neppure pensa a pretenderlo, pur lavorando come uno schiavo. È il suo modo di espiare l’antica colpa. Ma ciò non basta a dargli pace. Stanotte, più che mai, Efix si sente inquieto: vede i  fantasmi e avverte il loro passo lieve. Rivede Lia, così bella e altera, seduta su un carro che sparisce nel buio… E lui, Efix, che l’ha aiutata a fuggire, rimane a guardarla col cuore impietrito e un gelo di morte in tutte le membra. Le voleva bene. Questo, il suo primo delitto: lui, povero servo, amare la figlia del padrone. Lia aveva approfittato del suo affetto e si era servita di lui per fuggire di casa: don Zame aveva indovinato tutto e quella sera, sul ponte dopo il paese, aveva aspettato Efix per ucciderlo. Fu lui, invece, a cadere, colpito alla nuca da una pietra usata dal servo come arma di difesa.

Dopo la morte di don Zame, il lutto e la miseria avevano alzato intorno alle donne Pintor mura più alte e più spesse di quanto il loro padre avrebbe mai desiderato. Vivevano col ricavato degli ortaggi venduti di nascosto e celavano agli occhi indiscreti dei paesani la rovina dell’antica casa.
La solitudine, così odiata un tempo perché imposta dalla prepotenza paterna, era diventata una estrema difesa al loro orgoglio di aristocratiche.

Lia si era sposata nel Continente e aveva avuto un figlio; era morta ancor giovane, ma le sorelle non l’avevano pianta: non potevano perdonarle di essere fuggita così, senza neppure avvertirle, coprendo di vergogna il loro nome. Nessuna di loro tre si era sposata.

Ora, Ruth ed Ester sono quasi vecchie, ma Noemi, che non tocca la quarantina, é ancora bella e sotto l’apparenza glaciale si indovinano il suo orgoglio appassionato e la chiusa ribellione a quella tetra vita.

Efix sospira, col cuore gonfio di affetto: se almeno donna Noemi trovasse un ricco marito! Tutto si aggiusterebbe; donna Ruth e donna Ester potrebbero stare tranquille e lui, Efix, potrebbe finalmente sottrarsi al triste obbligo di vivere.

* * *

All’alba Efix si alzò e si avviò al villaggio. Camminava faticosamente, malfermo sulle gambe indebolite dalla febbre malarica. Si fermò davanti a un portone attiguo a quello dell’antico cimitero; sull’architrave si notava lo stemma dei Pintor, .semidistrutto dal tempo. Efix penetrò nel vasto cortile pieno d’ombra, alzò gli occhi al cadente balcone di legno che fasciava tutto il piano superiore della casa e risentì la stessa emozione che provava da ragazzo, quando la vista di quel balcone destava in lui un rispetto quasi religioso, come fosse la balaustrata che circondava l’altare dell’antica basilica.
Una donna bassa e grossa, vestita di nero, con un .fazzoletto bianco intorno al viso olivastro, apparve un attimo tra le colonnine di legno e poi scese svelta per le scale.
“Donna Ruth, buon giorno, padrona mia!”disse Efix.
“Oh, Efix! Come va al podere?”.
“Bene, bene, grazie a Dio, tutto bene”.
Entrarono nell’antica cucina, col soffitto a travi incrociate annerite dalla fuliggine.
“Efix, tra pochi giorni arriverà Giacinto, il figlio di Lia. Abbiamo ricevuto un telegramma ieri. Non ha che noi al mondo: viene a conoscerci.” disse donna Ruth.
“Signore, vi ringrazio! Sono un povero servo, ma dico che la Provvidenza sa quello che fa!”
Efix non riusciva a nascondere la gioia; le fitte rughe intorno ai suoi occhi vivaci sembravano raggi di luce. Donna Ruth sospirò e non rispose. Il futuro le appariva pieno di incognite, ora. L’arrivo di Giacinto nella vecchia casa avrebbe mutate le abitudini delle tre sorelle e rotto il silenzio delle loro tranquille giornate.

* * *

II più felice di tutti era E’fix: era stata cosi grande la sua gioia di vedere Giacinto, che dopo dieci giorni ne era ancora stordito. Portò il padroncino a visitare il podere e gli offrì  lassù nella capanna, il vino giallo e dolce della vigna. Mentre Giacinto beveva, Efix lo contemplava in adorazione e aveva voglia di  piangere.
“Guardi, vossignoria – disse con orgoglio – fin dove arriva l’occhio, la valle era della sua famiglia. Gente forte, era! Adesso non resta che questo poderetto, ma é come il cuore che batte anche nel petto dei vecchi. Si vive di questo”.
Giacinto ascoltava in silenzio, chiudendo pigramente gli occhi al sole. Efix lo guardava e ritrovava in quel bel volto di giovane uomo i lineamenti delicati di Lia.
La rivedeva seduta sulla pietra all’angolo del cortile, piegata su se stessa come una giovane prigioniera che rode i lacci e piano piano si prepara alla fuga.
Giacinto, invece, non pensava ad andarsene: con le zie si trovava bene; la freddezza dell’altera zia Noemi era largamente compensata dalle tenere attenzioni di zia Ruth, di zia Ester e di Efix… E poi c’era Grixenda, una povera e bella ragazza che viveva insieme con la nonna in una catapecchia di pietra nerastra, in paese. I suoi occhi umidi e lunghi di cerbiatta avevano conquistato Giacinto. Efix se ne accorse prima delle zie e ne fu spaventato.
“Vossignoria… dicono… guarda quella ragazza… – disse umilmente al padroncino – È buona e bella, ma tanto povera e di famiglia umile; È orfana…”. L’onesto Efix si preoccupava per Grixenda, che aveva sedici anni; c’era soltanto la vecchia, Pottoi, sua nonna, a difenderla. Poiché non gli sembrava possibile che un signore come Giacinto sposasse Grixenda, Efix non voleva che la ragazza fosse compromessa. La risposta di Giacinto lo lasciò a  bocca aperta: “La sposerò” disse il giovane. Ma guardava per terra e la sua voce aveva un tono incerto, come se parlasse in sogno.

* * *

Ben presto Efix dovette preoccuparsi per la vita che Giacinto conduceva: il ragazzo spendeva e non guadagnava nulla; si era rivolto spesso alla vecchia Kallina, l’usuraia, per averne denaro a prestito e pagare i debiti di gioco. Oppresso da oscuri terrori, Efix non sapeva che fare. A volte gli sembrava che qualcosa di tragico potesse ancora accadere alla famiglia Pintor, cui era attaccato come il muschio alla pietra…
Si provò ad ammonire Giacinto, e lo fece con rispetto e con amore. Ma il giovane gli rispose in modo da togliergli ogni speranza.
“Lasciami in pace, Efix! Lascia mi! Qui non c’è niente da fare: si muore. E “loro” non vogliono neppure che io veda Grixenda. Solo a nominarla, zia Noemi diventa una furia. È senza carità, zia Noemi. Loro vivono come tre mummie, ma io non posso! È anche per questo che vado a giocare: tante volte si guadagna. Non voglio più essere a loro carico. Meglio morire… Dio mi aiuti, Efix.”

Giacinto continuò a vivere di mezzucci, cercando di non pensare ai debiti contratti con l’usuraia e alle cambiali firmate col nome di zia ester. Per guadagnarsi un po’ di denaro faceva qualche commissione per il Milese, un ricco mercante col quale giocava a carte alla bettola: Noemi e le sorelle ne provavano vergogna: era intollerabile che un membro della famiglia Pintor fosse ridotto a fare il servo a uno che era stato mercante girovago.
Noemi, la più astiosa, trattava ora il nipote con disprezzo e non gli rivolgeva più la parola. Voleva che Giacinto se ne andasse. Vederselo ogni giorno davanti, sentirne la voce e avvertire il suo passo leggero per le scale, quando rientrava a notte tarda, le era diventato insopportabile. Avrebbe voluto odiarlo, ma non ci riusciva e si disperava per i sentimenti contrastanti e paurosi che il ragazzo aveva destato in lei. A volte, pensando al nipote, Noemi arrossiva e piangeva; la sua anima vibrava tutta e un turbine la investiva. Era come se la giovinezza di Giacinto si trasfondesse nel suo cuore, con tutta la sua sete di vita, il suo dolore, la sua malinconia. Tornavano in lei, e la torturavano, i turbamenti e i sogni della gioventù: una fiamma ardente e troppo a lungo repressa la bruciava e si portava via ogni astio, fin la più piccola briciola di orgoglio. In certi momenti Noemi si arrendeva ai suoi veri sentimenti per Giacinto e la parola “amore” le tremava sulle labbra. Per calmarsi pensava Grixenda, la piccola fidanzata del nipote: Giacinto voleva sposarla e lei, Noemi, doveva imporsi di non contrastare l’unione dei due ragazzi. Suo malgrado, si sentiva unita a Giacinto in modo misterioso, come se il suo cuore volesse quel che lui voleva e i desideri di lui fossero anche i suoi.

  * * *

L’usciere sollevò il cappello e rimase sulla soglia, come se non osasse entrare.
“Donna Ester non c’è? – disse parlando sommesso – Avrei da consegnarle questo..…” e tese un foglio, mostrandolo a Noemi che lo guardava spaventata. Poi scrisse in fondo alla carta che reggeva in mano, compitando a mezza voce: “Consegnato in mano alla. nobile donna Noemi Pintor” e le tese un foglio, che lei prese tremando.
Era la notificazione di un atto di protesto, in seguito a una cambiale scaduta e non pagata, firmata da Ester Pintor. Noemi afferrò subito la verità; quella firma era falsa. Giacinto le aveva rovinate. Il disonore cadeva su di loro e la miseria che da anni le logorava era nulla in confronto a questo. Una collera ardente la sconvolse: sentì di odiare Giacinto con tutte le sue forze.
“Andrà in carcere! – disse fremendo alle sorelle – Peggio per lui!” E gemeva, con le labbra livide; Ruth taceva, incapace di pronunciare una sola sillaba. Si era abbandonata sulla sedia, tutta un sudore; le sue mani ceree pendevano inerti lungo i fianchi. Le sorelle, intente a discutere, non si accorsero che Ruth stava male e che il suo respiro era diventato un rantolo soffocato. Quando Noemi si volse verso di lei e la scosse richiamandola, Ruth era già morta…”
Giacinto era a Oliena, un paese vicino, dove si era recato il giorno prima a fare una commissione per il Milese. Quando seppe l’accaduto si guardò bene dal tornare: aveva paura. Pensava a zia Noemi soprattutto, ma non aveva il coraggio di fare quanto il cuore gli dettava: correre alla vecchia casa, inginocchiarsi accanto a Noemi, posarle la testa in grembo, e chiedere perdono. Si scuoteva da quei pensieri e guardava la Cattedrale di Nuoro che si ergeva lontano, alta nel cielo venato di rosa. “È in quella città la mia salvezza – pensava – là debbo andare, trovarmi un lavoro e pagare il mio debito, vivere finalmente come un uomo”.
Per otto giorni, giù al villaggio, Efix e le sorelle Pintor attesero che Giacinto tornasse a chiedere perdono, ad accettare le proprie responsabilità. Ma Giacinto non tornò e le zie furono costrette a vendere il poderetto al loro ricco cugino Predu. Era l’unico modo per far fronte agli impegni più urgenti e salvare il nome dei Pintor dalla vergogna.

* * *

Pochi mesi dopo, un barlume di speranza si affacciò nel cuore amareggiato di Efix. Una mattina, don Predu lo mandò a chiamare per affidargli un incarico delicatissimo.
“Efix, io voglio sposare donna Noemi. – disse – Ma prima di fare ufficialmente la mia domanda voglio essere certo di non avere un rifiuto. Tu intendi, vero, Efix?”
Efix taceva e lo guardava; il suo sguardo era così pieno di gioia e di speranza che don Predu si fece ancora più serio.
“Tu devi parlarle, Efix” aggiunse, mentre il vecchio accennava di si, di si, con gli occhi scintillanti.

Poco dopo Efix era in chiesa, inginocchiato davanti all’altare. “Signore, vi ringrazio. – diceva – Signore, prendetevi adesso l’anima mia: sono felice di avere sofferto, perché mi avete perdonato e ora esaudite il mio cuore. .
Ma Noemi disse di no: non avrebbe mai accettato il cugino Predu come marito. Allora Efix lesse nel cuore della sua padrona e fu preso dal terrore per ciò che intuiva. Gli parve che il castigo di Dio gravasse ancora su di lui.
Soltanto allontanandosi da quella casa troppo amata avrebbe espiato il suo delitto e placato l’ira del Signore. Tutto gli appariva chiaro, ora: il dito di Dio era ancora su di lui, doveva quindi espiare.
Prese la sua bisaccia e partì, senza dir niente a nessuno.

Per arrivare a Nuoro impiegò due giorni, ma la fatica non gli pesava, perché il suo viaggio aveva uno scopo: andare al grande mulino, dove sapeva che Giacinto lavorava come operaio. Lo mandò a chiamare e poco dopo se lo trovò davanti, coi capelli e i vestiti bianchi di farina.

“La vecchia Pottoi è morta. – disse Efix guardando Giacinto negli occhi. – Grixenda è sola, ora, e si strugge per te. Tu hai promesso di sposarla. Se tu la sposi, donna Noemi accetterà di sposare don Predu. Sarà questo il tuo modo di pagare il debito alle zie. Noemi ha rifiutato il cugino perché pensa a te, perché aspetta il tuo ritorno. Colpa tua. Ora, tu devi toglierle questo “verme” dal cervello: sposa Grixenda e vedrai che Noemi sposerà Predu”. Poi Efix se ne andò: voleva fuggire il più possibile lontano dai luoghi a lui noti, per non avere la tentazione di ritornare a casa. Pensava che Dio avrebbe provveduto alle sue povere padrone, ora che lui, il peccatore, si era allontanato da loro.

Camminò e camminò per mesi, accompagnandosi ai mendicanti, ai ciechi e agli storpi, vivendo come loro di elemosina. Finché, stanco morto, divorato dalla febbre, dalla tristezza e dalla nostalgia del suo villaggio, decise di ritornare a casa per morirvi. Si presentò alle sue padrone verso sera. Fu Noemi ad aprire: Efix. se la vide apparire davanti, sullo sfondo violetto del cortile; alta, sottile, col viso bianco. I suoi capelli neri e gli occhi luccicavano nell’ombra: sembrava una ragazza. Seduta nel cortile c’era donna Ester, che alzò la testa dal libro e fissò gli occhi su Efix, ammutolita per la sorpresa. Lo accolsero con affetto, specialmente Ester, che non era mai stata altezzosa con lui.
Vollero che si fermasse a mangiare e a dormire e il servo accettò. Era notte alta quando Efix, da poco addormentato, si sentì chiamare: donna Noemi era davanti a lui, col lume in mano.
“Efix, tu credi, che davvero Giacinto sposi Grixenda?” chiese.
“Si, è una cosa certa” rispose Efix senza esitare. Sentiva che il destino di Noemi era in quelle parole.
“Quando si sposano?”
“Prima di Natale, donna Noemi”, e alzò il viso a guardarla: come era pallida e bella! Le ardevano negli occhi l’orgoglio. e la passione, ma anche un selvaggio desiderio di spezzare la sua vita miserabile e farsene un’altra nuova e forte.
“Sentimi, Efix – disse Noemi ritraendo il lume – domani andrai da Predu e gli dirai che lo accetto. Ma dobbiamo sposarci subito, prima di quei due.”
Se ne andò col suo passo lungo e leggero, reggendo alta la lampada.

* * *

Efix morì il giorno stesso delle nozze di Noemi. Consumato dalla febbre, era giaciuto per giorni e giorni sulla stuoia in cucina, senza più forza né volontà di lottare. Il destino si era compiuto ed Efix aveva finalmente trovato la sua pace: ora non c’era più nulla da attendere quaggiù.
Il mattino delle nozze, Noemi andò a salutarlo: era vestita di un bell’abito a fiori, molto attillato, e aveva una ghirlanda di
rose sul capo; qua e là, sul viso, sulla persona, qualche cosa scintillava: gli occhi, i gioielli, le scarpette… Si chinò su di lui, pallida, con gli occhi cupi pieni di lacrime. Ma Efix non ne provò dolore. “Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere…” le disse in un soffio. E questo fu il suo augurio.
Al ritorno dalla chiesa, donna Ester lo trovò immobile e freddo, rattrappito sotto la coperta di panno scuro.
“Perché hai fatto questo? — disse Ester, piangendo – Andartene così, di nascosto, senza dir nulla… Come l’altra volta…, Oh, Efix, questo no, non lo dovevi fare…oggi, proprio oggi!…”
Spiccò un geranio rosso dell’orlo del pozzo che era in mezzo al cortile e glielo mise dolcemente fra le dita, sopra il Crocefisso.

COMMENTO

Canne al vento, scritto nel 1913, è il romanzo che più di ogni altro mette in evidenza le qualità artistiche di Grazia Deledda, il suo impegno morale, la sua ansia di scoprire la verità nel cuore degli uomini. Con sensibilità e intuito la scrittrice penetra nell’intimità dell’anima sarda, cosi appassionata e schiva, chiusa alla confidenza anche quando il segreto diventa una tortura,  insostenibile. Ma i personaggi di Grazia Deledda non possono essere contenuti solo in una cornice regionale, essi rivelano un’umanità completa, universale.

Il vero protagonista di Canne al vento è Efix: il servo fedele fino alla morte, che non ha chiesto mai nulla per sé e tutto ha dato senza attendere ricompensa. Efix è divorato dal rimorso per un delitto involontariamente commesso, ma non cerca giustificazioni, anche se ha ucciso soltanto per legittima difesa. L’ansia di espiare fino in fondo la sua colpa non gli dà pace; perché il suo timore di Dio è immenso e guida tutte le sue azioni. Bisogna accettare la sorte che Dio ci manda, dice Efix, e abbandonarsi nella mani di Lui: siamo come le canne: piegate dal vento e il vento soffia come Iddio vuole. Il personaggio di Efix rispecchia fedelmente il sentimento fatalistico comune alle anime ingenue e primitive, che si affidano alla propria sorte come a una forza ineluttabile e neppure si chiedono il perché della loro grama esistenza.

Ben diversa è Noemi, che male si adatta al proprio destino e freme di ribellioni soffocate, inesplose. È una bella figura di donna, dalla personalità complessa e ricca di motivi: è superba, ma teneramente femminile; appassionata, ma casta e schiva. Sente il richiamo dell’amore, ma angosciosamente vi si ribella. Le poche parole che Noemi dice penetrano come lame e vanno sempre a segno. Delusa e disperata, serba il suo contegno sprezzante di gran dama e piange soltanto in segreto le lacrime del suo amore senza speranza. Accetterà don Predu soltanto per vincere la sorte maligna e spezzarla, anche a costo di spezzarsi il cuore.

Da tutti i personaggi di questo romanzo emana la forza di persuasione che proviene soltanto dalle verità umane immutabili, elementari, come le forze della natura. Ne deriva una visione drammatica della vita umana, a cui dà maggior rilievo il particolare paesaggio sardo, stupendamente descritto. Qui, come in tutti i romanzi della Deledda, la natura vive intensamente, partecipando alla vita stessa degli uomini, nascondendo il loro dramma segreto e accogliendo il loro sconforto.
È un paesaggio selvaggio e austero, di una bellezza aspra, continuamente e misteriosamente animato da leggende, da superstizioni e tradizioni nate dall’antichissima storia del popolo sardo.

BREVE BIOGRAFIA

Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936) incominciò a scrivere a sedici anni e già le sue prime novelle misero a rumore l’ambiente chiuso e provinciale in cui ella viveva. Non fece studi regolari, ma lesse moltissimo, tutto quello che poteva trovare nella biblioteca paterna. Si mise a scrivere come obbedendo a un istinto e traendo lo spunto dalle persone che la circondavano, dal paesaggio e dalle tradizioni della sua Sardegna.
Dopo i trent’anni visse a Roma col marito e i due figli, ma non si mescolò mai all’ambiente letterario della capitale: il comparire in pubblico era per lei, cosi schiva, una tortura. Raggiunse una celebrità internazionale e, nel 1927, ottenne il premio Nobel per la letteratura; ma non mutò per questo le sue semplici abitudini e continuò a essere, prima di tutto, moglie e madre, con grande senso di responsabilità.
La sua alta, austera moralità si espresse nell’opera letteraria cosi come nella vita di ogni giorno.

ALTRE OPERE

Più di trenta volumi costituiscono l’intera opera letteraria di Grazia Deledda. Indico qui alcuni dei suoi romanzi più noti.

IL VECCHIO DELLA MONTAGNA (1900) – Pietosa storia di un vecchio cieco nella quale dramma e poesia si fondono meravigliosamente in una atmosfera quasi magica.

ELIAS PORTOLU (1903) – È la storia. molto triste e altamente drammatica dell’amore colpevole di Elias Portolu per la bellissima moglie del proprio fratello.

CENERE (1904) – Dramma di una madre che si toglie la vita per non ostacolare l’avvenire del figlio abbandonato da fanciullo.

L’EDERA (1908) – Drammatica vicenda della decadenza di una famiglia nobile e orgogliosa.

MARIANNA SIRCA (1915) – Appassionante storia di un tomentoso e proibito amore tra padrone e serva.

LA MADRE (192’0) – Narra con accenti commossi e profondamente umara la lotta di una madre perché il figlio prete non sia trascinato dalla passione a tradire il suo ministero.

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GRAZIA DELEDDA – Vita e opere

CANNE AL VENTO – Grazia Deledda

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