TUMULTO DEI CIOMPI

 

 

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TUMULTO DEI CIOMPI
Morire per vivere 

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Parrà strano che lo studio del tumulto dei Ciompi non sia stato particolarmente favorito dai nostri storici. Prescindendo, anzitutto, dai cronisti contemporanei, poi, circa due secoli dopo, dalle Istorie Fiorentine del Machiavelli, poi, ancora nel Settecento, da due Storie del Trecento fiorentino () e nell’Ottocento dai capitoli del Sismondi nella Storia delle Repubbliche, da Giuseppe Ferrari nella Filosofia della Rivoluzione, il primo studio del tumulto è dovuto (Torino, 1841) al patriota d’Iseo Gabriele Rosa, che fu affiliato alla Giovane ltalia, espiò tre anni di carcere duro allo Spielberg, andò esule in Francia, combatté nelle Cinque Giornate di Milano e nelle Dieci giornate di Brescia.
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Il tumulto del Ciompi e i suoi storici

Tale era, alla fine del secolo scorso, la situazione storiografica del tumulto quando nel 1899 apparve il noto e poderoso volume del Salvemini su Magnati e Popolani; ma esso si limita al periodo che va dal 1280 al 1295 ed ha al suo centro gli Ordinamenti di Giustizia.
Contemporaneamente a quello del giovane Gaetano Salvemini apparve uno studio del giovane Niccolò Rodolico e un altro, dello stesso, seguì pochi anni dopo. Nemmeno essi centravano il tempo del tumulto. A questo argomento tornò, quarant’anni dopo, il Rodolico e io credo che i Ciompi sia l’opera migliore di questo storico perché estranea all’ambito della sua caratteristica passione politica (monarchica e sabauda) e permeata anzi da un senso di commossa solidarietà per l’eroica lotta dei lavoratori che in Firenze lottarono per la libertà dallo sfruttamento della grassa borghesia e dalla miseria. A quest’opera dovrò riportarmi spesso e, intanto, mi piace riprodurne la premessa:
“Nella storia del lavoro e degli operai, dal Medio Evo all’età nostra, vi si legge, è qualcosa di più che un episodio: è la prima volta in cui si forma e si afferma una coscienza operaia con un proprio programma che si vuole inserito in un ordinamento politico. Il programma fallì per colpe ed errori commessi, per illusioni – di tutti i tempi – di facili e subitanee soluzioni di difficili problemi, per il senso di intolleranza e di faziosità che è di tutte le rivoluzioni – delle italiane medievali in ispecie – per la mancata concordia degli operai, per lo spirito di sacrificio che fa difetto in una rivoluzione di carattere economico, e per tutta la somma di errori e colpe che è facile segnare nel bilancio dei vinti: la storia è fatta dai vincitori.
Ma lo sforzo compiuto dagli operai fiorentini, nel luglio del 1378, è pure un passo avanti in quella via che si confonde ancora nella lontananza dell’orizzonte. I problemi che furono affrontati allora da operai nel loro interesse di classe e con una loro coscienza operaia, nel contrasto tra datori di lavoro e salariati, rivivono oggi, sia pure con altra forza e in altre posizioni, nell’età moderna della grande industria e del proletariato operaio”.
Così il Rodolico conclude la sua premessa:
“Firenze è esaltata per i suoi geni, per la gloria della sua Arte, per i suoi cittadini mercanti-industriali costruttori della potenza economica e politica del Comune. Ed abbagliati da tanta luce noi non vediamo più oltre, e dimentichiamo la folla anonima di popolani minuti, di Ciompi, ché furono anch’essi costruttori di quella storia. Nella mostra della bottega dei lanaioli si ammirava esposto il bel tessuto, e si lodava il lanaiolo. Dietro la bottega, fuori di vista erano gli operai, che quel tessuto avevano lavorato. E’ doveroso, direi, entrare in quelle officine e conoscere quegli operai nella loro vita di lavoro, di patimenti, di aspirazioni”.
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Sviluppo del Comune dl Firenze

Vicolo presso il Palazzo dello Strozzino (disegno a carbone di Joseph Pennell)
Nello scorcio del secolo XIII, corrispondente a quel “mezzo del cammin di nostra vita” che precedette l’inizio del gran viaggio dantesco, sono, per Firenze, anni “di vita pubblica vertiginosa, di un impetuoso movimento di affari, perciò Firenze diventa la più ricca e la più potente città italiana, una delle più potenti del mondo, anzi, si compiono nel suo grembo, alcune delle più interessanti esperienze politico-sociali di tutto il Medioevo. In realtà, intendere la storia fiorentina della seconda metà del secolo XIII significa intendere gran parte della storia italiana; tali e così possenti sono i vincoli che legano Firenze a tutte le regioni d’Italia, tali, e di così generale interesse, i rapidi mutamenti della costituzione fiorentina durante la giovinezza di Dante”.
Il Comune di Firenze sorge verso la fine del secolo XI, inizia la sua lotta contro il feudalesimo rurale, si annette sempre più vaste estensioni di terre dei conti Alberti e dei conti Guidi. Le prime Corporazioni di arti e mestieri consociano artigiani e mercanti; questi hanno le loro botteghe in Calimala, nel breve ratto di strada fra Mercato vecchio e Mercato nuovo, dove commerciano panni forestieri o danno danaro a credito. Gli interessi e l’egemonia politica degli strati più ricchi della borghesia prevalgono per lungo tempo indisturbati. I mercanti devono rappresentare una classe ancora molto giovane e debole se vivono in cordiale accordo con la nobiltà cittadina che crea, coi recenti acquisti in campagna, una nuova classe di proprietari terrieri, mentre il vescovo allarga la sua diocesi.
Sono i tempi dei quali parla a Dante il trisavolo Cacciaguida nel canto XV del Paradiso, quando “Fiorenza dentro della cerchia antica / si stava in pace sobria e pudica… “; non v’erano lusso né corruzione ma onesta intimità familiare. Ma si tratta di un idillio utopistico, il quale sta solo a provare come la borghesia mercantile fosse appena ai suoi albori e quindi non si fossero ancora delineate sia le lotte di classe che saranno una conseguenza della sua crescita sia i mutamenti del costume che il rigoglio delle industrie e dei commerci comporterà.
Primo a fiorire fu, in Calimala, il commercio all’ingrosso dei panni forestieri; con esso la grande borghesia andò conquistando posizione politica sempre più solida nel tempo stesso in cui si sviluppava, con l’Arte della Lana, l’industria tessile. Al sorgere ed allo svilupparsi di questa (che nel secolo XIV scavalcherà Calimala in declino) concorse, chiamatovi dal Comune nel 1239, l’Ordine degli Umiliati, resosi esperto, con proprie officine, nella lavorazione della lana. Sarà un’industria complessa, che richiederà una vasta maestranza, prevalentemente specializzata, ed una rigorosa applicazione del principio di divisione del lavoro. Quale sarà la dura condizione di questa maestranza salariata (nella prima metà del secolo XIII, la cronaca di Giovanni Villani calcola, per la sola Arte della Lana, duecento e più ‘botteghe’ – oltre trentamila operai) dirò più appresso. Mi occuperò per ora, essendo pregiudiziale, dell’ascesa della borghesia, indicata col nome di Popolo e contrapposta ai Magnati.
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Magnati e Popolani

Insegna dell’Arte di Calimala (antico sopraporta in via Calimaruzza a Firenze)

Vedi qui file originale

In Firenze apparve, anche più spiccatamente che altrove, quella che, come ha acutamente messo in rilievo il Sapori () fu una caratteristica italiana. Mentre, cioè, negli altri paesi d’Europa (soprattutto nella Francia del nord e nel cuore della Germania, meno in Inghilterra) città e campagne furono due mondi separati da un netto solco e la nobiltà, quasi assente nelle città, isolata – con agricoltura arretrata – nelle campagne, non incrementava certo l’industria e il commercio cittadini, tartassandoli, anzi, con vari balzelli sulla circolazione delle merci e delle persone e depredando singoli e carovane, ben diversamente procedevano le cose in Italia e particolarmente in Toscana, dove non vi fu una netta differenziazione (campagna = nobiltà; città  = borghesia) ed “a mano a mano perdettero valore anche le altre equivalenze (nobiltà = proprietà terriera e capitale fondiario; e borghesia = lavoro e traffico e capitale mobiliare), in quanto avvenne che i terrieri inurbati si dettero ad attività mercantesche, e gli artigiani e mercanti cittadini destinarono parte degli utili delle loro fatiche all’acquisto di fon-
di rustici” ().
“Il processo di dissoluzione della proprietà feudale, scrive Salvemini (), che aveva investito la società feudale prima ancora che sorgessero i Comuni, diventò precipitoso dopo che i Comuni furono sorti. Allora si ebbero nelle classi superiori feudali e nelle classi inferiori due movimenti opposti: da una parte molti nobili incominciarono a impoverirsi, a indebitarsi, a vendere i loro castelli, a scendere, insomma, verso tre classi inferiori e non di rado andarono addirittura a raggiungere gli infimi nella miseria; dall’altra gli ignobili, arricchendosi, diventando creditori degli stessi nobili, comprando le loro possessioni, vennero acquistando sempre maggiore autorità e raggiunsero e magari superarono la potenza dei nobili”.
Or la nascente e potente borghesia delle Arti, che costituì il Popolo si trovò contro una classe fieramente nemica, classe che non esattamente è indicata come quella dei Nobili; assai più le si addice il nome di Magnati (e fu detta anche dei “Grandi” e dei “Possenti”).
Magnati e Popolani, quindi, sono nella storia di Firenze i due termini classisticamente antitetici: e se del primo mancava un’unica e precisa caratteristica atta a identificarlo, provvidero a tanto gli stessi fiorentini del secolo XIII con una legge speciale (ottobre 1286) che fece un elenco – giunto fino a noi – delle famiglie magnatizie.
La legge si attenne a due criteri, l’uno, sicuro, della dignità cavalleresca della famiglia, l’altro, notevolmente dubbio, della opinione pubblica.
In base a questa, comunque, furono considerate famiglie magnatizie:
a) quelle dei più ricchi proprietari di beni rurali;
b) quelle proprietarie, in Firenze, di case e di torri;
c) le più ricche fra quelle degli appartenenti alle Arti maggiori, e cioè mercanti di Calimala e banchieri.
Che s’intende, invece, per Popolo?
È l’insieme delle persone appartenenti alle Corporazioni delle Arti. Questo complesso costituisce un’organizzazione politica contrapposta ai Magnati e in lotta con essi. Dal Popolo sono, esclusi i servi del contado, i cittadini salariati delle Arti, i lavoratori esclusi dalle stesse, i domestici, i senza fisso mestiere e tutto quello che oggi chiameremmo sottoproletariato.
Infatti, “fuori delle associazioni in cui si raccoglieva il Popolo, brulicava nei nostri Comuni un vero formicaio di esseri viventi, i quali come erano esclusi dalle Corporazioni,. così erano privi di ogni diritto politico ed avevano anche limitata la personalità civile… Da questo infimo stato sociale scoppieranno poi le insurrezioni dei Ciompi o del Popolo santo, a Firenze, dei Senza Brache a Bologna, degli Straccioni a Lucca e così, mutati i nomi, in molti altri Comuni

italiani ()”.

Insegna dell’Arte della Lana – Palazzo della Lana a Firenze

(Vedi qui file originale)

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Arti maggiori e minori

Basamento campanile di Giotto – L’Arte della tessitura (Andrea Pisano)

(Vedi qui file originale)

   

Nel 1281 appaiono le prime restrizioni allo strapotere dei Magnati (guelfi o ghibellini che fossero) e nel 1282 la borghesia compie un primo passo notevole con l’istituzione (come era già avvenuto in altri Comuni) del Priorato, una magistratura che, per la prima volta, chiamò al potere i rappresentanti delle Corporazioni.

I Priori delle Arti, costituenti la Signoria, furono prima 3 (arte di Calimala, del cambio e della lana), poi 6 (le Arti maggiori esclusi i giudici e i notai, che entrarono più tardi), infine 12, in quanto riuscirono ad essere ammesse al Priorato insieme con le maggiori, col nome di arti mediane, cinque delle minori.

Le Arti maggiori comprendevano

1) giudici e notai;
2) mercanti di Calimala;
3) cambiatori (ossia banchieri);
4) medici e speziali;
5) arte della lana;
6) arte della seta;
7) pellicciai.
Le Arti minori – le cui prime cinque erano considerate mediane – comprendevano
1) beccai;
2) calzolai, linaiuoli, rigattieri, mercanti di ritaglio;
3) fabbri;
4) maestri di pietra e di legname;
5) calzaiuoli;
6) vinattieri;
7) albergatori;
8) oliandoli, salaioli, caciaioli;
9) caligai (conciatori di pelli);
10) corazzai e spadai;
11) chiavaiuoli e ferraiuoli;
12) correggiai, tavolacciai e scudai;
13) legnaiuoli;
14) fornai.

Al di sotto ancora delle Arti minori si trova la massa dei lavoratori più umili non organizzati e non qualificati ai quali ho già fatto accenno e che nel secolo successivo sarà in primo piano nel tumulto dei Ciompi.

Basamento campanile di Giotto – L’Arte della Scultura (Andrea Pisano)

(Vedi qui file originale)

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La lotta delle classi

Industriali, esportatori, cambiavalute, banchieri – con i quali avranno comunanza d’interessi e di posizione le professioni più rimunerative – costituiscono il popolo grasso e intendono avere nelle loro mani il potere, per imporre privilegi a favore delle Arti maggiori (anche molte fra le Arti minori domandano privilegi e quindi rappresentano la classe che lotta contro la nobiltà cittadina e tende ad escluderla dal potere).
Potenti ragioni erano cause dei conflitti d’interesse tra Magnati e Popolo, come quelli derivati dalla questione annonaria, per l’aumento demografico (vietata l’esportazione dei viveri fuori del distretto comunale e favorita l’importazione dai distretti vicini, i Magnati proprietari di terre miravano a contraddire queste misure; donde tutta una legislazione annonaria in danno dei Magnati); altra ragione di confitto era l’alto prezzo delle pigioni imposto dai proprietari Magnati; altra la questione delle imposte, dalle quali i Magnati pretendevano di essere esenti come ne erano già stati i loro avi; ecc.
V’è, inoltre, una lotta fra due strati della stessa classe borghese, fra i membri delle corporazioni maggiori e membri delle corporazioni minori. Le Arti maggiori tendono, per esempio, a fare una politica protezionista per i propri prodotti e a gravare di oneri le Arti minori.
V’è, poi, una lotta di classe fra i membri delle corporazioni e i garzoni, anche se, a causa della struttura corporativa essa non acquista una fisionomia spiccata. La maestranza, infatti, attratta dall’interesse del genere di produzione, ritiene che dalla maggiore o minore fortuna della produzione dipenda la rimunerazione del suo lavoro, senza pensare che la sua posizione economica, messa di fronte a quella del proprietario della bottega, corrisponde a quella di tutte
le altre maestranze di qualsiasi genere di produzione; che c’è quindi un interesse di tutti i padroni, contrario a quello di tutte le maestranze.
Ciò nonostante, i garzoni dell’età comunale conobbero gli scioperi e contro di essi furono emesse gravi sanzioni dal Popolo grasso al potere. Così come molte volte essi si mescolarono ai tumulti popolari. Ciò tanto più in quanto una diversità di condizioni economiche fra lavoratori era determinata dalla maggiore o minore ricchezza dell’arte o mestiere cui appartengono.
Se i garzoni più qualificati delle Arti maggiori godevano, di riflesso, del benessere delle aziende cui appartenevano, più difficili erano le condizioni dei garzoni delle Arti minori. Cominciò così a formarsi in ogni città una massa di lavoratori meno retribuiti, che non tardarono a cadere in miseria e a prendere parte alla lotta di classe degli artigiani esclusi dalle corporazioni, dei proletari e sottoproletari, della “plebe” che costituiva, come si è detto, il popolo magro minuto.
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Gli Ordinamenti di Giustizia

Piazza della Signoria a Firenze
Nel 1250 il Popolo si dette una Costituzione democratica (il Consiglio di 12 anziani – due per ogni quartiere – rinnovabile ogni due mesi, che si chiamò “Signoria“) ed, al posto del podestà, istituì il Capitano del Popolo.
“Forza fondamentale del Comune, scrive Gramsci, erano state le milizie cittadine. In alcune città esse oltre al loro ufficio politico di difesa esterna del Comune avevano il fine di assicurare a ciascun popolano la tutela necessaria contro le aggressioni dei nobili e dei potenti. Il popolo si costituisce sempre più in vero partito politico e, per dare maggiore efficienza e centralizzazione alla sua funzione, si dà un capo, il Capitano del Popolo, che nel nome come nella funzione rivela insieme origini militari e politiche. Il popolo, che già, volta a volta, ma sporadicamente, si era armato, si era riunito ed aveva preso deliberazioni distinte, si costituisce, come un ente a parte che si dà anche proprie leggi… entra in contrasto con il podestà a cui contesta il diritto di pubblicare bandi e col quale il Capitano del Popolo stipula delle paci… il popolo riesce, prima praticamente, e poi anche formalmente, a far accettate negli statuti generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli iscritti al Popolo e di uso interno. Il popolo giunge, quindi, a dominare il Comune, soverchiando la precedente classe dominante, come a Siena, nel 1270, a Bologna con gli Ordinamenti Sacrati e Sacratissimi, a Firenze con gli Ordinamenti di Giustizia” ().
Inizia, infatti, col penultimo decennio del secolo XIII un periodo di conquiste popolari. Nel 1280 il cardinale Latino, funzionando da arbitro delle discordie di parte, aveva costituito un collegio di quattordici membri, otto guelfi e sei ghibellini. Evidentemente il cardinale arbitro aveva concentrato tutta la sua attenzione sull’elemento politico e gli era sfuggito quello economico; “e perciò – per riferire il testo del Sismondi () – si andava dicendo che d’una repubblica mercantile dovevano avere l’amministrazione i soli mercanti” e fin dall’anno successivo il patito del Popolo ottenne leggi ostili ai Magnati perché “i fiorentini verso la metà di giugno del 1282 istituirono una nuova magistratura affatto democratica”, e cioè quel Priorato a cui ho già fatto accenno.
Di questa nuova costituzione fiorentina si avvantaggiarono particolarmente le Arti minori, a cui a poco a poco le Arti maggiori dovettero cedere parte del potere; cinque di esse furono ammesse nel governo e dal 1282 al 1287 seguirà tutta una serie di leggi contro i Magnati (sarà del 1286 la legge ad essi contraria che pubblicherà anche il loro elenco nominativo). Nuove conquiste fecero le Arti minori fino al 1293, nel tempo stesso in cui andava sempre più rapidamente ed energicamente avanzando quel Popolo minuto, che, capitanato da Giano della Bella, insorgerà proclamando gli Ordinamenti di Giustizia. Questi danno il passo, e largamente, anche alle Arti minori.
Il potere politico, e nel tempo stesso militare, è formato da sette rappresentanti delle Arti maggiori, cinque delle mediane e nove delle minori (che però non partecipano ancora all’elezione dei Priori). E’ creato il Gonfaloniere di Giustizia, con poteri militari. Ha vinto il Popolo, cioè la borghesia mercantile, anche se la borghesia grassa vi è ancora in prevalenza.
Gravi provvedimenti penali vengono presi contro i sabotatori della nuova legge.
Gli Ordinamenti tagliavano fuori dalla partecipazione al potere politico una larga parte della popolazione; da una parte i Magnati, dall’altra gli operai, gli artigiani lavoranti in mestieri esclusi dalle corporazioni e tutti i lavoratori al minuto o senza fisso mestiere; tutta quella massa che circa un secolo dopo, costituirà i Ciompi; infine i contadini. Con gli Ordinamenti dovuti all’iniziativa e alla guida di Giano della Bella si chiudeva la fase decisiva della lotta di classe fra i Grandi e la borghesia.
Chi era Giano della Bella?
Dino Compagni lo definisce “uomo virile e di grande animo, era tanto ardito che lui difendeva quelle cose che altri facea; e tutto facea in favore della giustizia contro a’ colpevoli; e tanto era temuto da’ Rettori, che temeano di nascondere i malifici” ().
Nonostante che appartenesse a famiglia nobile, egli sposò la causa popolare.
“Essendo Giano uno de’ Priori delle Arti, approfittò dell’opportunità di un assemblea del Popolo o parlamento generale, per arringare sulla pubblica piazza i suoi concittadini. Ei li richiesse in nome della libertà di metter fine all’oltracotanza dei Grandi” ().
L’inasprimento delle pene previsto dagli Ordinamenti contra Magnates offendentes Populares esasperò l’avversione dei Magnati al regime popolare e l’odio contro Giano della Bella.
“Un giorno – narra la “Cronica” Dino Compagni – ordinarono di farlo assassinare; poi se ne ritrassero per tema di popolo”. Iniziarono, comunque, una campagna di diffamazione e di provocazione, cercando di dividere il popolo e di istigarlo contro di lui e, dice Dino, “molti modi trovarono per abbatterlo”: essi seppero soprattutto sfruttare “i falsi Popolari” che accusavano Giano di tradire gli Ordinamenti e finirono con l’ottenere che egli fosse esiliato (marzo 1294).
“Il popolo minuto, conclude Dino, perdette ogni rigoglio o vigore per non avere capo”.
Ma la partita non era chiusa, e, nonostante la sopravvenuta reazione, le lotte di classe in Firenze rinasceranno più aspre: la borghesia sarà violentemente attaccata da sinistra, dai sottoposti, cioè, dagli artigiani, dai salariati, dalla moltitudine varia ed informe dei lavoratori sfruttati ed oppressi: ed è tempo, ormai, di parlare della loro condizione e della loro lotta che si accentua nei primi decenni del secolo XIV.
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La condizione del sottoposti

Nei suoi Studi di storia economica scrive il Sapori:
“Calimala non avrebbe vinto la sua battaglia nelle fiere di Champagne e l’arte della lana non avrebbe riportato essa pure la vittoria in tanti altri mercati, se tintoti e apprettatori, lavatori e scardassatori fiorentini non avessero ricevuto tali salari da consentire un prezzo di vendita di concorrenza”.
Questo prezzo era dovuto, quindi, allo sfruttamento intensivo dei produttori della ricchezza mercantile mediante la bassezza dei salari.
“Questi erano inoltre automaticamente diminuiti (quando si ponga mente al salario reale) perché le mercedi erano pagate in spiccioli, pressoché di continuo svalutati di fronte alla divisa d’oro. Dal che il duplice beneficio del grande mercante, che si valeva dell’una e dell’altra moneta: di quella inferiore di lega per retribuire il lavoro, e di quella pregiata, aurea, per negoziare il prodotto del lavoro nei mercati internazionali…
Dobbiamo – continua il Sapori – infine aggiungere altre disposizioni che si risolvevano in altrettanti strumenti di oppressione dei sottoposti. Vedi, per esempio, la proibizione di qualsiasi lavoro in proprio, vedi la fissazione del massimo di lavoro da compiere da ciascuno e del termine della consegna; vedi la responsabilità solidale dei parenti dell’operaio in caso di mancato adempimento degli obblighi suoi; vedi il privilegio giudiziario del datore di lavoro in occasione di controversie. E vedi, anche, il giuramento imposto ai lavoratori di rispettare tutte quelle norme: giuramento che per lo spirito religioso del tempo era arma potente nelle mani di una parte”.
I salari sono stabiliti dai magistrati dell’Arte, che sono Maestri. I sottoposti spesso devono dar cauzione di lavorar bene e onestamente; debbono rifondere tutti i danni che lavorando possono produrre alla merce dei Maestri; non possono congedarsi senza sua licenza e se prima non abbiano compiuto l’opera o pagato eventuali debiti contratti col Maestro.
“Insomma la loro condizione può definirsi esattamente con la parola ” servitù “; solamente non sono servi di alcun privato ma dell’Arte per cui lavorano. Da questo infimo strato sociale scoppiavano poi le insurrezioni”. ()
La popolazione dei sottoposti era ininterrottamente incrementata dai contadini i quali si sottraevano al feudale servaggio della gleba, fuggendo dalle campagne e affluendo nelle città, dove la permanenza di un anno e un giorno dava diritto alla libertà; giunti con la speranza di un miglioramento della loro condizione, trovavano solo, ai loro danni, il più esoso sfruttamento, precipitando in quel “vero brulicaio di esseri viventi” (), che costituiva I’infimo strato sociale.
Particolarmente imponente, più che in Bologna, in Lucca ed altrove, fu questo strato in Firenze, dove ci dice il Varchi (), i non iscritti nei libri del Comune (i non contribuenti, cioè) “vivono per lo più delle braccia e esercitano arti e mestieri vilissimi, chiameremo plebei” (ed essi, aggiunge il Varchi, non debbono “non che aspirare, pensare alle cose pubbliche nei governi bene ordinati”). “Sono quelli che gli Statuti delle Arti chiamano ” laboratoreslaborantespactualessuppositioperarii” e vanno nettamente distinti dai discepoli, i quali sono garzoni in attesa di diventare maestri; laddove i primi sono dei veri e propri salariati, che non differiscono dai proletari moderni, se non in quanto la loro condizione è inconsapevolmente inferiore a quella dei moderni” ().  Ad essi – pena una multa – era perfino proibito e chiedere lavoro.
“Che niuno domandi o faccia domandare panni a lavorare, pena di cinque soldi per ogni volta. E i mercatanti non diano alcuno panno a chi il domandasse”.
Così lo Statuto dell’Arte di Calimala del 1319; questo il comportamento della borghesia fiorentina di fronte alla disoccupazione operaia.
L’operaio che ha scioperato non può essere assunto da altro Maestro: ed è punito il Maestro che contravvenga a questa disposizione.
Il tentativo di associazione fra lavoratori è colpito dalla pena di morte.
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Le prime agitazioni Proletarie e il supplizio di Cinto Brandini

Prime notizie sicure di agitazioni dei lavoranti fiorentini risalgono al tempo del Duca di Atene (1342-1343): Gualtieri di Brienne, cioè, l’avventuriero che tentò instaurare la signoria, fece, in odio al Popolo grasso, una politica demagogica verso il Popolo minuto: pur riservandosi (per limitarne la libertà) il suo beneplacito alle loro deliberazioni, concesse ai tintori ed ai saponai di formare loto Arti autonome di fronte a quella della Lana; ed agli scardassatori concesse di formare squadre di armati aventi per insegna un Angelo (risorgerà questo simbolo durante il tumulto dei Ciompi). Già prima, però, di questo tempo gli Statuti delle Arti fiorentine contenevano leggi contro le “conventicole, leghe, posture, dogane”, cioè contro i tentativi operai di associazione; il che dimostra, fin d’allora, l’esistenza dei tentativi stessi.
Cacciato il Duca, il Popolo grasso si rivolse anche contro quello minuto. Una legge del 1344, revocando tutti i decreti del duca, sciolse le corporazioni createsi durante la sua signoria e minacciò le più gravi pene contro chi ne osasse la riorganizzazione “sediziosa”.
II tentativo fatto in due pubbliche adunanze di costituire una “fratellanza” operaia fra scardassatori, pettinatori e salariati dell’Arte della Lana fu represso nel maggio del’45, e come promotore del movimento e di quelle adunanze fu incarcerato e processato l’operaio Cinto Brandini che l’atto di accusa dipinge con i più foschi colori per aver tentato “d’introdurre pericolose novità in danno all’avere dei cittadini e del pacifico stato di Firenze”.

Gli operai si misero in sciopero e si recarono dai Priori perché il loro compagno fosse scarcerato. Ma Cinto Brandini fu impiccato per la gola ().

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La rivolta delle Arti minori

View of Ancient Florence by Fabio Borbottoni 1820-1902 (20).jpg
Chiesa di San Piero Scheraggio, Piazza della Signoria e Loggia dell’ Orcagna
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Nello stesso tempo in cui, nei primi decenni della seconda metà del Trecento, si intensificava il movimento democratico delle Arti minori per ottenere il ripristino degli Ordinamenti di Giustizia e parallelamente si faceva avanti, sfidando tutti i rigori della classe mercantile, il Popolo minuto per la conquista del diritto di associazione, i Grandi e il Popolo grasso trovavano un punto d’incontro nel loro interesse alla proprietà terriera, ché in questa, ormai, il Popolo grasso investiva i suoi lauti guadagni.
Nella magistratura di Parte Guelfa, che, con a sua potenza, tendeva ad imporsi sul Comune e che rappresentava come uno stato nello Stato, Magnati e Popolo grasso si trovavano affiancati
per la difesa dei loro privilegi. Un tentativo di rivolta contro Io strapotere oppressivo di questa fazione avvenne nel 1372. Da cinquanta cittadini radunati in San Piero Scheraggio fu gridato… “Noi ci siamo radunati per essere liberi: e, o Signori, dateci libertà”.
Una storiografia tradizionale ci ha presentato, di solito, come semplice rivalità tra la famiglia Albizzi e la famiglia Ricci quella che fu invece vera e propria lotta di classe. La famiglia più ricca e politicamente più attiva di Firenze era in quel periodo quella degli Albizzi, guelfa, legata strettamente alle Arti maggiori e sostenitrice di esse. Non meno ricca e non meno attiva era la famiglia dei Ricci, ghibellina, che faceva, invece, una politica legata alle Arti minori. Nella fazione capeggiata dai Ricci militavano gli Alberti ed i Medici.
Gli esponenti della lotta erano, da una parte, i Capitani di Parte Guelfa e, dall’altra, gli “Otto della Guerra”.
Nel 1372 i Ricci furono esclusi dal governo e ammoniti, perché ghibellini; ma, nella primavera del 1378, dopo la guerra in cui Firenze aveva tenuto testa alle armi del papa ed alle sue scomuniche grazie alla saggia attività degli “Otto della Guerra” nemici dei Guelfi, la fazione dei Ricci cercò di riprendere il sopravvento. Gli Albizzi tentarono allora un colpo di mano, ma trovarono un risoluto avversario in Salvestro de’ Medici, gonfaloniere del Popolo e il 22-23 agosto 1378 si scatenò contro di essi una sommossa di cui le Arti minori presero l’iniziativa.
A seguito di questa sommossa i Priori stimarono opportuno costituire una Balìa – un organo, cioé, con poteri assoluti – che, dal numero dei suoi membri fu detta la Balìa degli Ottanta. Ne facevano parte tutti i membri dei Collegi, gli Otto, i Capitani di pace e furono aggiunti 21 sindaci delle Arti, perché procedessero “celeriter” (nel più breve tempo possibile) ad una riforma della organizzazione politica di Firenze.
Dal 24 al 30, fu tutta una serie di provvedimenti a vantaggio delle Arti minori e in odio ai Magnati ed al Popolo grasso, contro cioé la loro categoria o contro i maggiori esponenti della stessa; ma anche provvedimenti che, sotto il nome della libertà (Consorteria libertatis fu chiamata la Balìa degli Ottanta), capovolgendo la precedente situazione, creavano privilegi a favore dei componenti della Balìa.
Ma ecco che nel mezzo del conflitto creato dalle Arti minori contro le maggiori e i Grandi, si introduce e si mette alla testa di un nuovo movimento contro tutte le Arti, la plebe, i Ciompi.
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I Ciompi

 
Il tumulto dei Ciompi
Spiegazione più accreditata dell’origine della parola è questa: i soldati francesi, quando, pochi decenni prima, erano passati in Firenze come mercenari tra le truppe di Carlo di Calabria e del duca di Brienne, solevano chiamare compére ognuno che venisse da essi avvicinato.
La parola ciompo fu una corruzione della parola compére.
La sollevazione dei Ciompi passò alla storia col nome di tumulto.
“L’espressione, osserva il Rodolico, è forse dovuta al ricordo pauroso, che ne fu tramandato. In verità, risalendo ai due secoli che precedettero il Tumulto, esempi non mancano di sommosse, non meno sanguinose ed incendiarie; ma nessuna destò maggiore paura di questo nella borghesia, che si vide minacciata e colpita nei suoi interessi; e che chiamò quello, quasi per antonomasia, “Il Tumulto“.
La massa operaia che, soprattutto nell’ultimo trentennio, aveva preso coscienza dei suoi diritti, comprese come la lotta in corso fra le Arti maggiori e minori fosse occasione opportuna per farsi avanti a proclamare le sue rivendicazioni e dal 12 al 18 luglio ebbero luogo raduni, in diversi posti della città.
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Il raduno di Ronco – Arresti e torture

Numerosa e importante fu soprattutto un’adunanza tenuta il 18 al Ronco dove – si legge in una cronaca del tempo attribuita a Gino Capponi – “con grandi sacramenti e leghe si legarono insieme e baciaronsi in bocca d’essere alla morte e alla vita l’uno con l’altro e difendersi contro a chi li volesse offendere”.
Di quell’adunanza giunse notizia ai Priori; vi furono arresti; un Simoncino (detto Bugigatto) della
Porta di San Pietro a Gattolino ed altri due che risultavano intervenuti al raduno del Ronco furono messi alla tortura, e Simoncino, fra l’uno e l’altro tratto di corda, disse tutto ciò che ai torturatori piacque dicesse.
La notizia delle torture arrivò ai Ciompi e destò dal 19 il più vivo fermento: la commozione, lo sdegno, la coscienza della giusta causa e la ferma volontà di farla valere accendevano gli animi; e il 20 luglio nei quartieri più popolari cominciarono a suonare le campane a martello. In gran numero i Ciompi da tutte le vie si riversarono in sulla Piazza dei Signori, innanzi al Palazzo dove i Priori erano riuniti e minacciando d’ardere il Palazzo pretesero ed ottennero che i loro compagni fossero liberati; dopo di che corsero a bruciare la casa del gonfaloniere Luigi Guicciardini, colpevole, fra l’altro, d’aver chiamato a Firenze un bargello (Ser Nuto) spietato, crudele, perchè impiccasse il maggior numero di minuti popolani; altre case di magistrati invisi furono bruciate. I Priori si erano eclissati e i soldati sulla Piazza si rifiutarono di porsi contro i tumultuanti.
Tra la folla di questi si fece strada l’iniziativa di creare il Cavalierato del Popolo e nell’ardente giornata del 20 luglio più di settanta Cavalieri del Popolo furono creati, fra cui Salvestro de’ Medici. I più audaci fra i tumultuanti, si impadronirono del gonfalone di giustizia esposto alla finestra dell’Esecutore di Giustizia: e i Ciompi rivendicarono la loro sovranità: e tutta la notte passò in ardente veglia e nella guardia al conquistato gonfalone.
“Non era, scrisse il Rodolico (), la massa bruta che Popolani grassi fino allora avevano lanciato contro i Grandi, come, contro la selvaggina, cani famelici; ma un popolo che combatteva la sua battaglia. Vi era stata tutta una preparazione alla formazione di una coscienza operaia con un proprio programma che s’imperniava sul diritto d’associazione; e vi era – direi – uno stato maggiore che quella notte era all’opera”.
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La petizione del Popolo minuto

Palazzo Vecchio (Palazzo dei Priori) – Firenze
Questo Stato Maggiore, composto dai 20 ai 30 popolani, si riunì nelle primissime ore del 21 per preparare la petizione unitamente ai sindaci delle Arti (mancava solo quella della Lana). Intanto quel bargello, ser Nuto, veniva linciato dalla folla: e fu la sola vittima dell’eccitazione collettiva in quei giorni.
Il Palazzo del Podestà non tardò a cadere nelle mani degli insorti, che vi stabilirono il loro quartiere generale, mentre sventolavano dalle finestre il gonfalone di giustizia e le bandiere delle Arti. Di fronte al Palazzo dei Priori, esautorata sede del governo, il Palazzo del Podestà rappresentava la sovranità sia delle Arti, sia del Popolo minuto.
Dalla notte di quel Comitato Dirigente, di 20 o 30 membri, che abbiamo chiamato Stato Maggiore, uscirono due distinte petizioni ai Priori, una delle Arti e l’altra del Popolo minuto (e questa divisione rivela la sostanziale divergenza, o, per lo meno, diversità d’interessi); la prima petizione chiedeva provvedimenti di carattere politico a soddisfazione degli oppositori di Parte Guelfa e, quanto al Popolo minuto, si limitava a domandate l’acquisto di un locale per le sue riunioni (riconoscimento implicito del diritto di associazione).
Nella petizione del Popolo minuto (il nome appare per la prima volta in un atto ufficiale) si elencano i nomi di trentadue sindaci del Popolo stesso a cui sarebbero spettati diritti pari a quelli dei sindaci delle ventuno Arti; donde la parità dei diritti politici nei rapporti col Comune.
Si richiedeva una più giusta ripartizione delle imposte, previo, entro sei mesi, l’estimo delle possessioni e degli averi di tutti i cittadini; si affrontava la questione del debito pubblico per evitare sotterfugi attraverso i quali i Monti riuscivano ad aumentare l’interesse regolamentare del 5 %; si chiedeva l’abolizione di ogni privilegio in materia giudiziaria e penale nonché la mitigazione della prigionia per debiti, la soppressione sia dell’ufficiale forestiere dell’Arte della Lana (forestiere perchè in quella Corporazione potesse meglio esercitare attività di aguzzino) sia degli “ufficiali della Grascia”, investiti di “funzioni di polizia e giudiziarie ricadenti soprattutto a danno del Popolo minuto.
Questa petizione, osserva il Rodolico (), “racchiude tutto un programma politico che oltrepassa gli interessi particolari di classe, e riguarda non pochi di quelli di interesse generale. È documento di una coscienza politica. Si resta sorpresi dal modo con cui si vede segnata la strada che bisognava fare, e che s’intendeva animosamente percorrere”.
Approvate le due petizioni, i tumultuanti ne pretesero l’immediata applicazione con la decadenza delle vecchie magistrature e la presa del potere da parte del Popolo minuto.
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Michele di Lando

 
La statua di Michele di Lando, Loggia del Mercato Nuovo, Firenze

Vedi qui file originale

In testa alla folla che invase il Palazzo dei Priori era, scalzo, un gagliardo “scardassiere”, ossia pettinatore di lana, che reggeva il gonfalone di giustizia: si chiamava Michele di Lando ed aveva trentacinque anni. Chi fosse il padre non è assodato; sua madre vendeva stoviglie e sua moglie era pizzicagnola. Il popolo unanime lo acclamò a gran voce Gonfaloniere di Giustizia ed egli si trovò ad avere pieni poteri, perchè i Priori erano stati dimessi dal governo del Comune e tutti i Collegi erano stati sciolti.

Egli “venne in su la ringhiera, dice un cronista, con tutte le trombe e suoni del Comune” e parlò al popolo. Signore di Firenze, ebbe la chiara visione del momento ed il felice accorgimento della moderazione: entro 48 ore – chè questo fu il tempo a cui si limitò la sua dittatura – fece convocare un parlamento perchè fosse creata una Bal’a e conferita ai Sindaci delle Arti e del Popolo minuto (egli vi apparteneva) col mandato di creare una nuova Costituzione che comprendesse la rappresentanza del Popolo minuto; nominò i nuovi Priori ed i Collegi e conservò per sè il gonfalonierato.
La mattina del 29 luglio tutti i nuovi magistrati vennero alla ringhiera e giurarono innanzi al popolo.
Dal 29 al 31 furono costituite tre nuove Arti, quella dei Farsettai, quella dei Tintori, quella del Popolo minuto. L’ordinamento politico corporativo risultava quindi costituito dalle sette Arti maggiori, dalle quattordici minori e dalle tre nuove; e fra esse erano ugualmente ripartite le cariche politiche.
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La sconfitta del Ciompi

Via della Ninna a Firenze, dove i Ciompi furono aggrediti
Dal 27 al 31 agosto rinacque l’agitazione dei Ciompi. La rapida riforma politica non aveva, nè poteva avere, risanato la situazione economica, la quale, già disperata per i nullatenenti, si fece disperatissima nel periodo di disoccupazione prodotto dal tumulto. A ciò si aggiunse, e fu decisivo, il malvolere dei capi dell’Arte della Lana i quali compresero come, per ottenere la rivincita, essi non avessero altro mezzo che di affamare i salariati, protraendo cioè la loro disoccupazione con singole serrate: nel tempo stesso facevano scomparire dai depositi le mercanzie di maggior valore.
Di tutto quanto accadeva la moltitudine dei Ciompi cominciò a dar colpa – accusandoli di tradimento – ai capi che essa aveva elevati al potere e che, certo, non avevano ancora avuto il tempo e la possibilità di attuare i provvedimenti di carattere economico contenuti nella petizione del 21 luglio.
La mattina del 28 agosto furono più di cinquemila in Piazza San Marco e, con alte grida, si riversarono, per tutte le vie, verso il Palazzo della Signoria. Qui, allorché ha gli altri, apparve alla ringhiera il gonfaloniere dell’Arte della Lana, una balestra partì dalla folla contro di esso e ferì il portatore. Fu presentata ed approvata una petizione che reclamava la pronta attuazione di quanto non era stato ancora attuato, provvedimenti contro la disoccupazione, riduzione dei compensi a chi era investito di cariche pubbliche.
Nuova grande adunata vi fu il giorno seguente per la sostituzione dei Priori.
Grande era la sovreccitazione della folla e sempre più si scavava l’avversione di classe fra i Ciompi da una parte, che reclamavano il loro diritto e quello delle loro famiglie, alla vita e dall’altra i padroni (soprattutto i lanaiuoli) presi dal panico, che, oltre a vedersi colpiti negli interessi, si sentivano umiliati e feriti nell’orgoglio da gente che essi ritenevano ingrata, in quanto essa doveva sentirsi beneficata per avere già avuto (a condizioni esose) lavoro. In questo momento cruciale della lotta di classe avvenne ciò che – la storia insegna – è sempre avvenuto: contro i lavoratori si schierarono, facendo tacere i loro antagonismi, tutte fazioni della borghesia.
Contro l’Arte del Popolo minuto era stato stretto, il 26 agosto, un accordo fra Arti maggiori, Arti minori, Arte dei Farsettai e dei Tintori.
Qui sorge un interrogativo, a cui la storia non ha ancora risposto, per Michele di Lando.

Anch’egli partecipò all’accordo. Tale suo atteggiamento fu ispirato da una visione realistica degli avvenimenti, e da un sincero convincimento del pericolo a cui l’estremismo avrebbe esposto e, quindi, della necessità di moderazione? O si lasciò corrompere? Non mancano elementi sia per l’una sia per l’altra soluzione: comunque, avvertivo, non esistono dati sicuri per la scelta. Nè, in ogni modo, si tratta di una questione storicamente decisiva se si sfronda dalla personalità di Michele di Lando tutto il complesso creato dalla tradizione, personificando, quasi, il moto dei Ciompi nello scalzo scardassiere che la mattina del 21 luglio entrò, alla testa dei Ciompi, nel Palazzo dei Comune, reggendo fra le robuste braccia il gonfalone di giustizia. Il moto dei Ciompi, infatti, fu un moto collettivo, preparato da un’ormai sviluppata coscienza di classe, ma non ancora sorretto da una possibilità di conseguente tattica e strategia rivoluzionaria. Esso nacque, declinò, fu represso, indipendentemente dall’iniziativa e dall’azione di chicchessia.

Ad avvalorare l’ipotesi che Michele di Lando fosse stato corrotto sta il fatto che nel 1381 potè dare in dote alla figlia Filippa seicento fiorini d’oro (si sappia, d’altronde, che già dall’estate del 1378 egli si era iscritto nell’arte dei Pizzicagnoli, e pizzicagnola era stata sempre la moglie). A scagionarlo dai sospetti di corruzione sta il fatto che il Popolo grasso non gli perdonò il suo comportamento rivoluzionario e nel 1382, quando molti che avevano preso parte al tumulto dei Ciompi furono banditi, la stessa sorte toccò a Michele di Lando che andò in esilio a Lucca, dove passò il resto della sua vita.

Deplorevole, comunque, resta per Michele di Lando avere partecipato alle violenze contro i Ciompi ed, anzi, di aver dato, il 31 agosto, inizio alle stesse.

Gli “Otto Santi del Popolo di Dio”, già acclamati dai Ciompi, avevano intanto preso dimora a Santa Maria Novella e colà, la sera del 30, si raccolsero molti Ciompi per discutete e deliberate sulla situazione (fa notare il Rodolico che, intanto, nessun atto di saccheggio è stato compiuto, nell’agosto, dai Ciompi). La mattina due degli Otto si recarono a Palazzo della Signoria per insistere nelle richieste del Popolo minuto.
Narra il solito cronista avverso ai Ciompi ():
“Era presente il Gonfaloniere di Giustizia, Michele, che disse loro:- Aspettate un poco, che io torno -. E subito s’andò nella camera ad armare e tornò fuori gridando – Ove sono i traditori?”.
Accusava egli di tradimento i Ciompi ribelli oppure – accusati, lui, i tre Priori dei Ciompi e i loro Sindaci di tradimento – sfidava i rappresentanti dei ribelli a ripetere la loro accusa?
Il certo è che, roteando lo spadone, cominciò a ferire ed ammazzare e che, montato a cavalla, corse a Santa Maria Novella, dove credeva trovare i Ciompi e, non trovatili, ritornò nella Piazza e là si accese la mischia nello stretto di via della Ninna, che fiancheggiava il Palazzo. Dall’alto, per ordine dei Priori, cominciavano a cadere dei grandi sassi e la mischia si concluse con la sconfitta dei Ciompi. Essi, si legge in una cronaca (), “se n’andarono sì come gente rotta e senza capo e senza sentimento; però chè l’avieno perduto, sì come gente che si fidavano, e furono traditi da loro medesimi”.

La mattina del 1° settembre la bandiera dei Ciompi fu gettata giù da una finestra del Palazzo di Piazza della Signoria e tra le urla della folla fu lacerata e calpestata… Povere case dei Camaldoli e del quartiere di San Frediano furono invase e distrutte…

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La reazione

Seguì la più pesante e spietata reazione. Col 1° settembre l’Arte del Popolo minuto fu soppressa, e cominciò la caccia ai Ciompi.

Il 10 settembre fu celebrata la festa delle Bandiere di tutta la borghesia coalizzata – Arti maggiori e minori – e l’indomani fu eseguita la condanna capitale degli “Otto Santi del Popolo di Dio”, che avevano osato presentare ai Priori le richieste del Popolo minuto. Furono pronunciate altre diciotto condanne a morte e solo pochi si salvarono con la fuga. Soppressi tutti i provvedimenti che la sollevazione dei Ciompi aveva ottenuti nel luglio, furono emanate le norme più restrittive e più esose contro i lavoratori.

Restavano ancora focolai di rivolta. La moltitudine degli operai e degli infimi lavoratori fiorentini – i produttori della ricchezza della città – era calpestata sotto il tallone padronale; ma non era rassegnata. Vi furono nei primi anni successivi alla loro sconfitta cospirazioni, tentativi di riscossa, processi, condanne a morte.
Anche le due ultime Arti di operai della Lana, Farsettai e Tintori, erano isolate, combattute e finirono, nel gennaio 1382, con l’essere sciolte. Fra quanti venivano accusati di “aver voluto distruggere la città” chi sfuggiva ai capestro era esiliato, (in esilio, come abbiamo detto, fu mandato anche Michele di Lando).
Popolo grasso e Magnati in combutta, scesi in Piazza con le armi alla mano, ripresero  la supremazia riducendo anche al minimo la partecipazione delle Arti minori al governo: fu iI trionfo della Parte Guelfa e, quindi, degli Albizzi.
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Gli ultimi tentativi di rivolta

Ultimo e represso tentativo di rivolta degli operai della Lana si ebbe nel 1383, quando essi, nel febbraio, cercarono di inserirsi in un conflitto tra i Magnati, che miravano a distruggere gli ultimi resti degli Ordinamenti di Giustizia, e le Arti. Il 10 marzo scoppiò un tumulto, che vide riuniti i Ciompi con i lavoratori delle due Arti soppresse, Farsettai e Tintori: il Popolo grasso ancora una volta prevalse con la forza e seguirono bandi e condanne a morte.
Ma la forca e la mannaia non bastavano a far desistere i più animosi e i più disperati da una lotta che essi combattevano per difendere il loro diritto all’esistenza ed ancora altri estremi tentativi seguirono.
“Muoiano li traditori che li fanno morire di fame e vivano le 24 arti”… era il loro grido (ventiquattro, cioè le antiche 21 più le tre sorte dal tumulto). L’ultimo disperato sforzo fu nel luglio 1383. Poi il rullo compressore dello sfruttamento schiacciò, senza speranza più di riscossa, il proletariato fiorentino.
Fu, quello dei Ciompi, nella storia operaia, il primo tentativo di riscossa, fallito per l’immaturità dei tempi, per la mancanza, cioè, di una organizzazione di classe capace di fronteggiare la coalizione di tutte le forze della potente borghesia.