BELLA CIAO

Stamattina mi sono alzato
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
stamattina mi sono alzato
e ci ho trovato l’invasor.

O partigiano, portami via
o bella ciao bella ciao bella ciao Ciao Ciao
o partigiano, portami via
che mi sento di morir.

E se muoio da partigiano
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
e se muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.

Seppellire lassù in montagna
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
seppellire lassù in montagna
sotto l’ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
e le genti che passeranno
e diranno: o che bel fior!

È questo il fiore del partigiano
o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao
è questo il fiore del partigiano
morto per la libertà.

BELLA CIAO

La più famosa delle canzoni della Resistenza, conosciuta ovunque specie a partire dai primi anni sessanta, con un rilancio nella trasmissione televisiva Canzoniere minimo (G. Gaber, M. Monti. Margot), l’incisione in un italiano volenteroso di Yves Montand e soprattutto lo spettacolo dallo stesso titolo presentato dal Nuovo Canzoniere Italiano nel 1964 al festival di Spoleto, fra incredibili polemiche.
Durante la lotta di Liberazione fu cantata soprattutto in Emilia-Romagna. Roberto Leydi ha raggiunto risultati, credo, definitivi nella ricerca delle origini della canzone e delle ascendenze sia testuali (la nota ballata del Fior di tomba) che musicali (una filastrocca infantile derivata a sua volta dall’altra nota ballata detta della Bevanda sonnifera).
Posteriore alla versione partigiana è un canto di risaia, dal repertorio di Giovanna Daffini, di cui si dà qui di seguito il testo che l’ex-mondina interpretò nello spettacolo Bella ciao (un testo da lei precedentemente registrato, con delle varianti anche di un certo rilievo, è pubblicato sul n. 5, cit., della rivista Il nuovo canzoniere italiano):

“Alla mattina appena alzata / o bella ciau bella ciau bella ciau ciau ciau / alla mattina appena alzata / in risaia mi tocca andar. / E fra gli insetti e le zanzare / un dur lavoro mi tocca far. / O mamma mia, oh che tormento! / Io t’invoco ogni doman. / Il capo in piedi col suo bastone / e noi curve a lavorar. / Ma verrà un giorno che tutte quante / lavoreremo in libertà.”

La musica di Bella ciao, cosi orecchiabile e così adatta alle esecuzioni in coro, è stata più volte utilizzata per canzoni nate in occasione di lotte di fabbrica. Ne riporto una delle operaie della Crouzet (Milano), in lotta per salvaguardare il posto di lavoro (1972): “Alla mattina appena alzata / a Zingonia mi tocca andar. / E con la nebbia e il brutto tempo / a noi tocca anche viaggiar. / E a Zingonia noi troveremo / nuovi ritmi di lavor. / Il capo in piedi col suo bastone / e noi curve a lavorar. / Compagne mie, ma che tormento, / ma che vita ci tocca far! / Il salvagente lui ha avanzato / e a noi la barca per affondar. / Il mio “papà” che mi vuol bene / a Zingonia mi vuol mandar. / E senza mezzi per arrivare / a Zingonia a lavorar”.

Documentazione

Riportiamo ampi stralci da un servizio speciale del quotidiano Lotta continua del 25-4-1972.

“Gli anni di guerra furono durissimi per gli operai. Nel 1945 il Salario reale di un operaio era ridotto al 21 per cento del salario anteguerra. Le condizioni di vita erano disastrose: le case bombardare, i viveri solo a prezzi altissimi a “borsa nera”, lavoro in fabbrica di 12 ore, e dormire pure in fabbrica per l’assenza di trasporti. L’inverno ’44-’45 fu terribile: a tutti i malanni si aggiunse il freddo e la mancanza di combustibile. Si tagliarono gli alberi dei viali cittadini per farne legna da ardere. Gli operai si presero la città lasciatagli dai borghesi sfollati in campagna, ne occuparono le case, ne usarono mobili e libri per scaldarsi.
Gli alleati bombardavano le case, i fascisti li avevano ridotti alla fame, i padroni li sfruttavano di più e li pagavano di meno. I capitalisti di qualsiasi colore erano i loro nemici. Cominciarono le lotte. Marzo l9-43 agosto 1943, novembre-dicembre 1943, marzo ’44, giugno ’44 e via ininterrottamente sino al 25 aprile, l’offensiva operaia con scioperi di massa o sabotaggi individuali, con lazione di propaganda politica o con le squadre armate, non conobbe soste.
Le “SS” hitleriane che fuori della fabbrica spadroneggiavano e uccidevano, di fronte alle lotte operaie erano impotenti: provarono un paio di volte ad entrare con i mitra nelle fabbriche in sciopero (Zimmermann a Mirafiori nel dicembre del ’44), ma ne uscirono subito perché gli operai avevano già spalancato i forni. Gli stessi forni che nei giorni della liberazione furono usati come strumento di giustizia popolare.
Tra il 25 aprile e il 30 aprile, prima che il PCI e i borghesi avessero il tempo di intervenire, centinaia di fascisti e padroni finirono lì dentro. Si è parlato di commissioni interne, di comitati sindacali, di comitati d’agitazione, come degli organismi dirigenti delle lotte operaie in fabbrica, cercando di attribuire una veste istituzionale alle avanguardie espresse in quelle lotte. Erano etichette di comodo: c’era un grado di spontaneità altissimo e in realtà gli operai si identificavano, di volta in volta, con quelli tra loro che si mostravano i più decisi. i più capaci nella lotta.
Gli operai che lottavano erano comunisti, avevano correttamente identificato i loro nemici di classe e li combattevano senza esclusione di colpi. Ma l’identificazione col PCI come partito ci fu soltanto a partire dal 25 aprile, dalla line della lotta armata…
Su giornali di fabbrica comparivano sempre consigli pratici su come sabotare gli strumenti della produzione o i prodotti finiti. Consigli che gli operai mettevano largamente in pratica”.

Voci d’officina dell’aprile del ’44 scriveva:
“Per le lavorazioni a caldo, fucinature, laminazioni, basta provocare un errore nell’andamento dei forni che può avere come conseguenza l’arresto di interi reparti e talora dà lungo a pezzi di scarto dalla apparenza sana. Questo è il sabotaggio più efficiente, perché senza incidere sulla busta paga. fornisce ai tedeschi strumenti che si inceppano proprio al momento dell’impiego”.
l sabotaggi in fabbrica miravano a mettere in crisi la produzione bellica. I fascisti cercarono in tutti i modi di dividere i proletari su questo punto, arrivando a mandare nelle fabbriche delegazioni di mutilati che avrebbero dovuto chiamare traditori i loro fratelli operai. Alla Caproni, durante i grandi scioperi del marzo `43, un’operaia cosi saluto i mutilati: “Non aspettavamo voi, voialtri siete in disgrazia come noi. Sono i padroni e i gerarchi fascisti che debbono venire, sono essi che accumulano alti profitti sul vostro sangue e sul nostro sudore”.

C`era un giornale operaio milanese, la Fabbrica che aveva una rubrica fissa: “Stato d`accusa”. Cerano pubblicati nomi, cognomi, indirizzi di padroni, fascisti. spie. ecc. da giustiziare. E i compagni colpivano in fabbrica e fuori.
“Alla Breda durante lo sciopero del 16 dicembre 1944 fu giustiziato un capo reparto aguzzino, il 7 fu la volta della spia fascista Lamperti. Il 18 dicembre fu ammazzato il federale di Milano Aldo Resega, il 19 aprile fu ammazzato a casa sua il fascista Uccelli, il feroce ex-prefetto di Milano. Sono alcuni episodi citati da Fabbrica.
Cento, mille altri ce ne furono: i fascisti non si sentivano più sicuri a casa propria, (sulle porte delle loro case con la vernice rossa era scritto “spia” o “fascista” e questo voleva dire una condanna a morte), non si sentivano sicuri nei bar e nei circoli che frequentavano (la bomba all’Albergo Nazionale di Torino fece giustizia in un colpo solo di otto tedeschi e di quattro repubblichini), nei cinematografi dove anzi i partigiani andavano a prelevarli. spiegando dal palcoscenico agli spettatori il significato politico della loro azione e dileguandosi prima che arrivassero rinforzi fascisti. Lo strumento per queste azioni erano i GAP e le SAP.
Il problema delle armi fu il più grosso con cui si scontrarono i partigiani in montagna. I lanci di viveri e munizioni da parte degli alleati erano scarsi e selezionati, nel senso che venivano favorite le formazioni badogliane o comunque moderate, che poi erano quelle che sparavano di meno. Spesso i “Garibaldini” per disporre di armi pesanti dovevano piombare sugli uomini delle altre formazioni che stavano raccogliendo i lanci e portarglieli via con le buone o con le cattive.
Le armi tolte al nemico erano quasi sempre armi leggere, i rifornimenti dalla città pressoché inesistenti. Questo nonostante gli sforzi e l’inventiva degli operai delle grandi fabbriche che, specialmente alla vigilia dell`insurrezione, trasformarono le loro officine in altrettanti arsenali, da dove furono tirati fuori addirittura due carri armati (alla SPA di Torino) interamente costruiti dagli operai con mezzi di fortuna. La tecnica più diffusa per impadronirsi delle armi era quella di disarmare le pattuglie di poliziotti e carabinieri. Erano quelli che mollavano prima. Un partigiano da solo spesso bastava per disarmare tre carabinieri in una volta.
I GAP (gruppi di azione patriottica) agivano nelle città. Dovevano portare la guerra in campo nemico, giustiziare i nemici, particolarmente quelli più in vista, (ricordiamo il colonnello Gobbi ammazzato a Firenze), attaccare i tedeschi in città (l’attentato di via Rasella a Roma), rendere insicure le retrovie cittadine dell’esercito occupante. I loro militanti erano pochissimi e tutti dotati di straordinario coraggio. Non divennero mai, e non potevano esserlo per i loro stessi compiti, degli “organismi di massa”. Diverso è il caso delle SAP (squadre di azione patriottica). Erano costituite da operai (anche loro in numero ristretto) che non abbandonavano la vita civile, la casa, il lavoro, e che venivano mobilitati di volta in volta per azioni particolari o sabotaggi. E il loro terreno d’azione preferito fu la fabbrica, i loro nemici diretti i capi e capetti della gerarchia aziendale. Le esecuzioni di questi aguzzini portano quasi tutte le firma delle SAP.
C’è una cosa che i borghesi non riusciranno mai a cancellare dall’esperienza storica del proletariato negli anni ’44-’45; l’uso della violenza.
La resistenza dimostrò che un carabiniere poteva essere disarmato puntandogli un dito alla schiena, dimostrò che i padroni che non volevano concedere gli aumenti salariali potevano esserci costretti con i mitra puntati (ce li ricordiamo gli industriali tessili del Biellese che diedero un aumento del 50 per cento per tutti, mentre i partigiani assistevano alla firma con i mitra in mano), dimostrò che uno stato borghese, anche il più agguerrito e il più fascista, può essere messo in ginocchio dal proletariato in armi.”

Circolare del PCI, firmata da Pratolongo, membro del Comitato Centrale e responsabile del triumviro insurrezionale veneto. inviata ai comandi partigiani (7 giugno 1945).
“Il processo di smobilitazione delle unità partigiane procede molto lentamente nella nostra regione. Occorre procedere con maggiore energia ad una smobilitazione delle formazioni. Sappiamo che s’incontrano resistenze in questo campo, non soltanto nelle masse dei partigiani ma pure nei comandi. Il permanere delle formazioni non risponde più a necessità militari né a necessità politiche. Si può dire che dai primi giorni dopo l’insurrezione il nostro partito ha posto il problema della smobilitazione per il riassorbimento dei combattenti nella vita normale.
La stessa normalizzazione della vita del paese richiede questa smobilitazione non soltanto materiale, ma pure negli spiriti.
Si nota inoltre una resistenza al ritorno dei partigiani contadini ai loro campi, al lavoro della campagna, e questo a tutto danno della ripresa economica e della necessità della produzione.
Partigiani del combattimento, partigiani della ricostruzione non deve rimanere una frase vuota, ma assumere valore sostanziale. In questo senso dovete sviluppare tutto il lavoro di smobilitazione. Dare ai comandi, alle formazioni, uno spirito di smobilitazione nel senso puro della parola.”

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