LA LUNA E I FALÒ – Cesare Pavese

LA LUNA E I FALÒ

È tornato, ma in paese non c’è più nessuno di quelli d’un tempo. Virginia e Padrino, ai quali egli può dir grazie se è cresciuto in quel paese e non in un altro, sono morti da tanti anni. L’avevano allevato insieme con i loro figli, ma non sapevano chi fosse il piccolo per il quale ricevevano ogni mese cinque lire dal brefotrofio di Alessandria.
In quegli anni qualche compagno di scuola dispettoso o maligno lo chiamava “bastardo”; ed egli rispondeva per le rime perché per lui quella era una parola come vigliacco o vagabondo. Neppure lo sfiorava il pensiero di non essere nato lì, in Gaminella, tra quelle colline e quei grandi prati che si arrampicavano verso le cime.
La campagna, le vigne, le cascine sparse, l’acqua del Belbo erano stati tutto il suo mondo e mai, da ragazzo, si era chiesto se poteva essercene un altro diverso. Ora che di mondo ne ha visto tanto, ha voluto tornare. Alloggia all’albergo dell’Angelo, sulla piazza grande del paese; tutti sanno che ha fatto fortuna: gli offrono i loro poderi da comprare e le figlie per spose.
Non lo chiamano più bastardo o Anguilla, come quando serviva alla fattoria della Mora; lo chiamano l’Americano e stentano a riconoscere in lui il ragazzetto scalzo d’un tempo.
Tutto è cambiato; anche Nuto, il falegname del Salto, suo maestro e modello, l’allegra complice delle prime scappate, s’è fatto un uomo maturo; ha abbandonato il clarino, con cui per dieci anni aveva allietato le feste dei dintorni, s’è sposato e ha continuato il mestiere del padre, in quella sua casa che ha sempre un odore di gerani e di trucioli.
È lì che l’Americano torna più volentieri, a parlare con Nuto, a ricercare insieme con lui il tempo perduto dell’infanzia e della giovinezza. Più spesso il discorso torna alla famiglia del signor Matteo, il ricco proprietario della Mora. Di loro non c’è più nessuno; tutti finiti, trascinati da un oscuro destino di rovina e di morte.

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Com’era grande e bella la Mora, col suo enorme cortile vicino allo stradone e quel giardino pieno di fiori, che Irene e Silvia, le figlie grandi del signor Matteo, coglievano ogni mattina. In mezzo a quei fiori splendeva la testa bionda della più piccola, Santa, bellissima ma bizzosa da far ammattire tutti quanti. Irene, la maggiore, era tutta bionda e bianca e a lei, così dolce e fragile, non si poteva pensare come un ragazzo, le prime volte, pensa a una donna.
A Silvia, invece, si poteva pensare anche in quel modo.
Anguilla non era allora che un servitorello della Mora, ma poteva guardare Silvia e ripensarla poi in solitudine, rivedersela davanti, coi capelli che le scendevano sugli occhi, tutta rossa e accaldata durante la vendemmia.
Quando Silvia morì, furono recisi tutti i fiori del giardino per il suo funerale e in quel mese di giugno di fiori ce n’erano tanti. Non molto tempo dopo, i maltrattamenti e la vita stentata uccisero anche Irene, sposata contro voglia a un giovane che se l’era presa soltanto per la dote.
E Santa? Quando Anguilla serviva alla Mora, Santa era una bambina; ma poi… Nuto, mentre parla di Santa, sembra sfuggire con gli occhi tristi un ricordo che si ostina a tornare.
“Tu Santa a venti anni… non l’hai vista. Era più bella d’lrene, aveva gli occhi come il cuore del papavero…” Nuto sa com’è morta Santa, l’ha vista morire. Aveva fatto la spia per i fascisti e i partigiani l’avevano condannata a morte: una scarica di mitra che non finiva più. Poi l’avevano coperta di sterpi, inondata di benzina e lasciata bruciare, finché non era rimasto altro che cenere: come i falò il giorno dopo San Giovanni.
Non si poteva risparmiarla; troppi ragazzi erano già morti per causa sua. Morta Santa, alla Mora non c’è rimasto più nessuno di quelli d’un tempo.

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Lui ora è tornato, è ricco; ma di tanta gente che era stata viva, che aveva goduto e sofferto, non restano adesso che lui e Nuto; e anche Nuto non è più quello d’un tempo: è un uomo ormai, col suo fardello di esperienze amare. Quante volte, in America, aveva fantasticato di tornare, di ripercorrere quello stradone, di suonare a quel cancello e farsi riconoscere; la voglia di tornare lo faceva star male, ma ora sa che non ne valeva la pena. Quelli che avrebbero dovuto riconoscerlo, guardarlo stupiti, fargli festa, non ci sono più. Sono tutti morti. È come arrivare in una vigna dopo la vendemmia, quando tutti ormai se ne sono andati e i canti e le risa non risuonano più. La misera casa di Gaminella, dove era vissuto bambino, con Padrino, Virginia e le loro figlie, ora è abitata dalla famiglia del Valino, che è forse ancora più povera di quanto loro non fossero mai stati. Nella casa vi è anche un ragazzetto di nome Cinto, scalzo e sbrindellato com’era lui, ma più infelice, perché è sciancato e rachitico, terrorizzato dal padre, quel Valino, sempre rabbioso per la stanchezza e la miseria. L’Americano trascorre con Cinto molte ore, ama parlare con lui. intuirne i pensieri. In Cinto riconosce se stesso com’era un tempo: gli stessi desideri inespressi, gli stessi dolori, la stessa fame, naturale come l’aria.

Una notte il padre di Cinto, improvvisamente impazzito, uccide le donne della famiglia, dà fuoco alla casa e s’impicca. Cinto sfugge per miracolo alla carneficina e si trova da un’ora all’altra solo al mondo. Lo accoglie Nuto nella sua casa, dove Cinto potrà anche imparare un mestiere; anche Anguilla, tanti anni prima, era entrato alla Mora e aveva incominciato ad apprendere il mestiere di vivere.
Trovato il rifugio a Cinto e promesso il suo aiuto per il futuro, l’Americano sente che non gli resta più nulla da fare al suo paese. Non può rimettervi radici. Questo non è più il “suo” paese; appartiene ad Anguilla, a quei suoi sogni lontani. È il paese di Cinto, di Nuto, che non ha mai abbandonato la sua casa del Salto. Ritornerà a Genova, ripasserà il mare chissà quante volte ancora. Ogni tanto sarà di nuovo qui, a parlare con Nuto, a cercare se stesso e l’infanzia perduta, tra le vigne e l’acqua del Belbo.

COMMENTO

La maggior parte dei temi cari a Pavese li troviamo nel noto romanzo La luna e i falò, l’opera della sua maturità artistica e certamente quella più riuscita. È questo il suo testamento spirituale, il risultato e la sin-tesi di tutte le sue passate esperienze, ma anche il suo libro più ricco di poesia.
Quasi ogni pagina, nel commosso ritratto della vita semplice, rivela l’amore di Pavese per la propria terra, la Langa piemontese. Un magico mondo, in cui tutte le favole avevano la possibilità di nascere e diventare credibili; terra “d’infanzia, di falò, di scappate, di giochi”. Era tra quei confini e circoscritto il mondo delle cose che “non passano mai”, perché ciò che “sapevamo fin da bambini” rimarrà per sempre vero, anche quando, coi capelli bianchi, non sapremo più ritrovare nella nostra memoria i tanti avvenimenti trascorsi.
Questo è un tema che ricorre spesso nelle opere di Cesare Pavese, il quale, nel tempo e nei luoghi che videro la sua infanzia, cerca di scoprire le radici di tutta la sua vita.
Tutti i personaggi di Pavese conoscono una profonda solitudine spirituale che li rende estranei alla società in cui vivono; dietro di loro c’è lo scrittore, con la sua amarezza, i suoi dubbi, la sua ricerca ansiosa di verità. Anche le figure femminili che incontriamo nel romanzo La luna e i falò hanno una caratteristica in comune con le altre donne dei romanzi di Pavese: di loro si può sognare, si può sperare di averle, ma non le si ottiene mai veramente. Pavese non ha potuto credere nell’amore, perché ogni donna l’ha deluso e ferito nel profondo dell’animo; e i personaggi dei suoi romanzi ripropongono l’angoscia di questo fallimento e di questa delusione.

LE ALTRE OPERE DI PAVESE

LAVORARE STANCA

È una raccolta di poesie e contiene tutti i temi che via via appassioneranno lo scrittore. In quest’opera sono rappresentate non soltanto le tradizioni paesane e l’infanzia cercata nelle vecchie storie di famiglia, ma anche Torino con le sue colline e le lunghe ore incantate trascorse sul Po, il mondo operaio della periferia, la solitudine spirituale di chi è incapace di comunicare con gli altri e si sente tra la gente come una foglia battuta.

FERIA D’AGOSTO

È il titolo di un volume di racconti in cui Cesare Pavese, toccando con nostalgia il fondo dei suoi ricordi d’infanzia, interprete mirabilmente il mondo umano e naturale della collina piemontese a lui tanto caro.

IL COMPAGNO

È il romanzo della vita cittadina e della vocazione politica: l’autore, pur non indugiando su descrizioni. ci dà una schietta immagine della sua Torino, di cui con rapidi scorci ricrea la particolare atmosfera. Al centro del racconto è la figura di Pablo, il giovanotto spensierato che a poco a poco si renderà conto della sua responsabilità di uomo e di cittadino.

TRA DONNE SOLE

È un romanzo breve, facente parte de La bella estate insieme col racconto omonimo e con Il diavolo sulle colline. Fra le altre figure femminili felicemente tratteggiate dalle mani dello scrittore, spicca quello della giovane Rosetta, la ragazza dal tragico destino. Il regista Michelangelo Antonioni trasse da Tre donne sole il film Le amiche.

IL MESTIERE DI VIVERE

É il diario di Pavese. pubblicato dopo la sua morte. Egli stesso aveva dato questo titolo alle pagine a cui da molti anni le lotte intime con se stesso. Sono pagine sincere, talvolta spietate, in cui è manifestata la sua solitudine spirituale.

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