IL COLORE VIOLA (The Color Purple) – Steven Spielberg

IL COLORE VIOLA

Titolo originale – The Color Purple
Paese di produzione – Stati Uniti d’America
Anno 1985
Durata 153 minuti
Genere – Drammatico
Regia – Steven Spielberg
Soggetto tratto dal romanzo omonimo di Alice Walker
Sceneggiatura – Menno Meyjes
Produttore – Steven Spielberg, Kathleen Kennedy, Quincy Jones, Frank Marshall
Produttore esecutivo – Jon Peters, Peter Guber
Casa di produzione – Warner Bros.
Fotografia – Allen Daviau
Montaggio – Michael Kahn
Effetti speciali – Matt Sweeney
Musiche – Quincy Jones
Scenografia – J. Michael Riva, Bo Welch, Linda DeScenna
Costumi – Aggie Guerard Rodgers
Trucco – Ken Chase

Interpreti e personaggi

Whoopi Goldberg: Celie Harris
Danny Glover: Albert Johnson
Margaret Avery: Shug Avery
Oprah Winfrey: Sofia
Willard E. Pugh: Harpo Johnson
Akosua Busia: Nettie Harris
Desreta Jackson: giovane Celie
Adolph Caesar: vecchio Mr. Johnson
Rae Dawn Chong: Squeak
Dana Ivey: Miss Millie
Leonard Jackson: Alphonso “Pa” Harris
Bennet Guillory: Grady
James Tillis: Henry “Buster” Broadnax
Philip Strong: sindaco
Laurence Fishburne: Swain
Lelo Masamba: Olivia Johnson
Howard Starr: Harpo da bambino


Parlare con Dio, ovvero: Le radici del blues

TRAMA – La storia corre dal 1909 al 1937, in una comunità agricola nera della Georgia. Celie e Nettie sono sorelle e vivono col padre vedovo, che per due volte abusa sessualmente della prima quando ella ha 14 anni. Il maschietto e la femmina che nascono le vengono strappati e affidati a una coppia nera. Celie, che a differenza dalla sorella è molto brutta, si stringe sempre più a Nettie, la quale però è concupita dal padre. Questi si libera di Celie dandola in sposa a Mister, un vedovo con figli, che vorrebbe invece sposare l’altra. Mister è un violento e un prepotente e schiavizza Celie, che vive miseramente con lui, rendendosi peraltro necessaria.

Mister ha una cotta da molti anni per Shug, una bella cantante di blues che a volte l’uomo ospita in casa. Ma prima di Shug arriva Nettie, che è fuggita dal padre, ma che a sua volta è concupita da Mister. Ribellatasi alle sue profferte, Nettie viene cacciata via, ma fra le lacrime giura che scriverà a Celie e che soltanto la morte porrà separarle.

Quando arriva Shug la vita cambia nella casa. Lei e Celie fanno amicizia, e Shug insegna all’altra ad essere sempre più indipendente. Nettie a sua volta aveva insegnato a Celie a leggere. Insomma, l’emancipazione di Celie procede, anche se lentamente. Nel frattempo i figli di Mister crescono. Uno, Harpo, si invaghisce di Sophia, una nera indipendente e fiera, che resta incinta. I due si sposano ma non vanno d’accordo e la ragazza lascia Harpo portandosi via i figli. Purtroppo Sophia risponderà con durezza per strada alla moglie del sindaco e finirà in carcere.
Uscitane sciancata, viene presa come domestica dalla signora, che le consente di vedere i suoi figli soltanto dopo orto anni.

Harpo intanto ha tentato la fortuna con un Blues Bar, e le cose gli vanno bene. Anche Shug canta nel locale, componendo una canzone per Celie che esegue in pubblico. Shug è molto infelice poiché suo padre, un pastore, l’ha allontanata da casa e non la riconosce per figlia dal momento che ritiene ella viva nel peccato.

Shug ha molta tenerezza per Celie e la inizia addirittura sessualmente, dopo che questa le ha confessato di non partecipare minimamente agli amplessi con Mister. Questi, perfidamente, ha continuato a sottrarre le lettere che Nettie, partita per l’Africa, ha spedito alla sorella, disperata per questo silenzio.

Un giorno Shug, che ritorna da Mister insieme al suo nuovo marito, scopre una lettera di Nettie appena arrivata. Celie capisce che Mister ha nascosto tutte le altre e le scopre in un nascondiglio. Quindi si mette a leggerle ripercorrendo in pochi minuti una serie di informazioni che erano giunte negli anni. Viene così a sapere che la coppia che aveva adottato i due figli di Celie è andata missionaria in Africa e che Nettie si è unita a loro, che i due figli sono bellissimi e ormai molto cresciuti e che prima o poi faranno tutti ritorno in America.

Infuriata Celie sta per tagliare la gola a Mister mentre gli fa la barba, ma Shug arriva in tempo per impedirlo. A questo punto, durante un pranzo, Celie dice al marito che se ne andrà via con Shug, gettandogli in faccia tutto quello che negli anni passati ella ha dovuto subire da lui. Questi si infuria, ma inutilmente. Celie parte e subito dopo viene a sapere che suo padre è morto e che, ben più importante, l’uomo non era suo padre: quindi i suoi figli non sono frutto di incesto.
Inoltre per legge rimane proprietaria della casa del patrigno. Ed è lì che un giorno Nettie e gli altri che erano con lei in Africa giungono, poiché Mister, evidentemente pentito, ha facilitato il loro viaggio. Tutti si riuniscono felici e le due sorelle, ormai quarantenni, giocano ancora fra loro nei campi come quando erano bambine.

Fonte video: YouTube – Home Cinema Trailer

COMMENTO – Inutile dire che il film mantiene del romanzo soltanto il soggetto. Il libro infatti era costruito sul linguaggio scritto, e specificamente sul progressivo miglioramento di esso da parte di Celie che scrive delle lettere a Dio mano a mano che ella acquista sempre più coscienza di se stessa come essere umano e come donna. Tutto questo, ovviamente, nella pellicola non c’è. C’è invece lo stesso amore fortissimo che lega le due sorelle e la stessa forte caratterizzazione dei personaggi: di norma molto negativi gli uomini, molto positive le donne.

Ma Spielberg non è autore “sociale”, non ha fatto un film sulla condizione nera in Georgia nei primi decenni del secolo, e tutto sommato nemmeno un film sulla condizione della donna nera in quegli anni. La “negritudine”, si ha l’impressione, è soltanto l’occasione per mostrare personaggi particolarmente deboli e inermi vittime della brutalità dei prepotenti.
Ci sono elementi da feuilleton, quegli stessi che erano, si, nel romanzo della Walker ma riscattati dall’operazione che la scrittrice aveva fatto appunto sul linguaggio. Un nero ignorante e misero, insomma, lo è più di un bianco nelle stesse condizioni: è un modello inculcato e si tratta di una risposta emotiva inevitabile. In questo senso si comprende perché la comunità nera in genere abbia boicottato la pellicola (il maggior romanziere e polemista nero vivente, Ishmael Reed, giunse ad affermare che la visione che Spielberg ha dei neri non è diversa da quella che i nazisti avevano degli ebrei), anche se ovviamente le intenzioni di Spielberg erano più che onorevoli.

Le grandi emozioni sono tutte in scena, sempre: orgoglio, modestia, amore, sessualità, violenza, rimpianto e via dicendo, e tutte trovano corpo in questo o quel personaggio senza ambiguità, senza sfumature. Si, questo è un feuilleton, ma è pur sempre condotto con mano particolare. Il senso dell’ambiente diventa qui una specie di personaggio. Mai come in questo film Spielberg si è dato a lunghi carrelli laterali spiando leggermente la gioia delle sue protagoniste che corrono nei campi fioriti e colorati e si ha l’impressione che in fondo, come si diceva più sopra, la dominante dell’opera sia quella del musical. La scena d’apertura porrebbe appartenere a Tutti insieme appassionatamente, quella di Shug che canta nel bar di Harpo a Carmen Jones, quella con i due girasoli che danzano a qualunque cartoon di carattere musicale, e nell’insieme il senso di gruppo della comunità nera che vediamo in scena ne fa un potenziale coro non tanto diverso (anche se naturalmente più dissonante) da quello che osserviamo e sentiamo nella chiesa del padre di Shug. Al proposito, anzi, non si può tacere del momento d’incontro fra i due gruppi, quello nella chiesa e quello che giunge dal bar: il primo intona uno spiritual (Il Signore vuol dirti qualcosa) per contrastare il rumore del blues che giunge da li vicino, ed ecco allora che anche il gruppo laico intona lo stesso spiritual andandosi a congiungere ai fedeli, preludio alla ricongiunzione fra Shug e il padre. Il momento è forte e il suo significato evidente: le radici della cultura nera sono le stesse, laica o religiosa che essa sia: il blues è soltanto un’altra forma di lamento per la propria condizione di reietti, di infelici ed in ultima analisi di peccatori, non più e non meno di quel canto cadenzato che ritma il lavoro della chain gang quando Celie legge le lettere africane di Nettie nella celebrata alternanza di immagini della vita quotidiana nella zona e di quella esotica nel continente nero (e non è un caso che la raccolta The Sound of the South, sette dischi registrati in field da Alan Lomax ormai oltre mezzo secolo fa, apra quello intitolato The Roots of the Blues proprio con una chain gang song).

Spielberg ha dunque proposto il suo E.T. nero, venandolo di suggestioni infantili a un punto tale che la scena di chiusura fra le due sorelle che giocano sullo sfondo di un sole troppo grande rimanda in qualche misura allo spirito dell’episodio di Ai confini della realtà: un’età ritrovata dopo essere stata tenuta chiusa dentro per tanti anni, e qui come li da personaggi neri. Le bambine d’un tempo si rincontrano grandi, non è finito l’amore, non è finito il piacere del gioco. Dopo la sofferenza c’è la tranquillità, la pace. Per quanto pieno di elementi di commedia, Il colore viola rimane tuttavia un film di dolore. Forse per questo Spielberg ha scelto di fare un all-black: forse in nessun popolo come quello del blues il dramma della razza si confonde con un’inesausta capacità di scherzare, ridere, gioire. In nessuno tranne che nel popolo ebraico, del quale proprio nei suoi spirituals quello nero afferma di sentirsi epigone e a cui per razza, guarda caso, appartiene anche il nostro regista. E nera od ebraica l’esclamazione di Shug è giustissima: “Cantiamo, gridiamo, balliamo per farci amare”.
Chissà, forse per farci amare facciamo anche film.

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