LA RIVOLUZIONE – CARLO PISACANE

LA RIVOLUZIONE

CARLO PISACANE

Nel panorama del pensiero politico del Risorgimento, Pisacane ha un posto particolare. Non solo si oppone alle impostazioni e alle proposte politiche della corrente cosiddetta “moderata” (che da Gioberti a D’Azeglio a Cavour, sia pur con sfumature diverse, è espressione degli interessi dei ceti borghesi) ma va anche ben oltre gli obiettivi democratici e mazziniani. Prioritario è per lui il problema sociale: senza l’eliminazione delle ingiustizie e dello sfruttamento, persino conquiste democratiche fondamentali come il diritto di voto, a suo giudizio, non hanno alcun significato.
Il saggio La rivoluzione fu scritto da Pisacane negli anni di elaborazione ideologica che precedettero immediatamente l’impresa di Sapri nella quale egli trovò una tragica morte (1857). Fu pubblicato postumo e non deve essere certo casuale il fatto che è stato ripubblicato e studiato in momenti particolari della nostra storia: nel 1894 con prefazione di Napoleone Colaianni che ne faceva strumento polemico contro la repressione crispina dei “fasci siciliani“, nel 1942 con prefazione di Giaime Pintor, carica di implicazioni antifasciste; all’inizio degli anni Settanta, nel clima della contestazione sessantottesca, con prefazione di Augusto Illuminati.

INCIPIT* Guai se la plebe, contenta di vane promesse, farà dipendere dall’altrui volere le proprie sorti! Essa vedrà molti di coloro che si dicono liberali, umili negli atti, larghi in promesse, con dolci parole adularla, come costumano adulare i tiranni, e carpirne il voto. Divenuti onnipotenti ed inviolabili, pensano al loro meglio e ribadiscono le catene di lei; ed alla richiesta di “pane” e “lavoro”, rispondono come l’assemblea francese rispose nel ’48, col cannone. Finché la società verrà composta da molti che lavorano e da pochi che dissipano, e nelle mani di questi pochi sarà il governo, il popolo deriso col nome di “libero” e di “sovrano”, i molti non saranno che vilissimi schiavi.

Tutte le leggi, tutte le riforme, eziandio, quelle in apparenza popolari, favoriscono solamente la classe ricca e culta imperocché le istituzioni sociali, per loro natura, volgono tutte in suo vantaggio. Voi plebe, allorché crederete avvicinarvi alla meta, ne andrete invece più lontano. Voi lavorate, gli oziosi gioiscono; voi producete, gli oziosi dissipano; voi combattere, ed essi godono la libertà. Il suffragio universale è un inganno. Come il vostro voto può esser libero, se la vostra esistenza dipende dal salario del padrone, dalle concessioni del proprietario? Voi indubitatamente voterete, costretti dal bisogno, come quelli vorranno. Come il vostro voto può essere giusto, se la miseria vi condanna a perpetua ignoranza, e vi toglie ogni abilità per giudicare degli uomini e de’ loro concetti? Come può dirsi libero un uomo la cui esistenza dal capriccio d’un altro uomo dipende? *

La miseria è la principale cagione, la sorgente inesauribile di tutti i mali della società; voragine spalancata che ne inghiottisce ogni virtù. La miseria aguzza il pugnale dell’assassino; prostituisce la donna, corrompe il cittadino; trova satelliti al despotismo. Conseguenza immediata della miseria è l’ignoranza, che vi rende incapaci di governare i vostri particolari negozi, non che quelli del pubblico, e corrivi nel credere a tutte quelle imposture che vi rendono fanatici, superstiziosi, intolleranti. La miseria e l’ignoranza sono gli angeli tutelati della moderna società, sono i sostegni sui quali la sua costituzione si innalza.

La statistica, scienza moderna, che mostra come indissolubilmente si legano le varie istituzioni sociali, ha già registrato come la miseria e l’ignoranza non si scompagnino mai dal misfatto. Finché i mezzi necessari all’educazione e all’indipezdenza assoluta del vivere non saranno guarentigia di ognuno, la libertà è promessa ingannevole.

I nemici che dobbiamo debellare sono molti, è vano l’illudersi; se tutti vorremo combattere da liberi cittadini, vinceremo. Cerchiamo penetrare con lo sguardo attraverso l’atmosfera che i pregiudizi ci hanno addensato intorno, in questo istante che trovasi distrutta la gerarchia sociale, quanto siano mostruose le usurpazioni del ricco, e quanto grandi le miserie del popolo!!… Con qual diritto un ozioso proprietario scialacqua col prodotto de’ sudori del fittaiuolo, mentre questi appena potrà offrire un pane alla sua povera e laboriosa famiglia? Con quale diritto, in un’officina in cui cento lavorano, uno solo oltre ogni stima arricchisce, non avendo gli altri, non dico assicurato l’avvenire, ma neanche la benché minima guarentigia del presente, bastando il capriccio di un solo per affamare centinaia di dipendenti? Distruggiamo codeste mostruosità, col garantire al contadino ed all’operaio il frutto del loro lavoro; e questi e quelli saranno contenti di lasciare per poco la vanga ed il martello ed impugnare il moschetto a difesa degli acquistati diritti; “Se la vittoria assicura a tutti l’agiatezza, e la disfatta li ricaccia nella miseria, tutti saranno valorosi”. Ecco il segreto di cui si valsero i nostri progenitori per soggiogare il mondo.

* Voi plebe… dipende?: oltre che dal punto di vista politico, La rivoluzione è interessante anche da un punto di vista linguistico e stilistico. Pisacane parla di questioni sociali non col distacco “scientifico” dell’economista, ma con passione, con adesione e sofferenza umana che si traducono in una prosa viva, scattante, giocata su rapide e incisive contrapposizioni. Qui, ad esempio, col passaggio alla seconda persona, col rivolgersi direttamente alla plebe come ad un interlocutore, la funzione referenziale.

Carlo Pisacane nacque a Napoli nel 1818 e, abbandonato l’esercito borbonico dove prestava servizio militare, andò prima a Livorno, poi in Francia e Inghilterra. Partecipò alla prima guerra d’indipendenza e alla Repubblica Romana. Fece, dopo, altre esperienze di esilio e approfondì i suoi studi politico-sociali (La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49; Saggio sulla rivoluzione, postumo).
Convinto della necessità dell’azione, organizzò una Spedizione nel Meridione sperando di provocare un’insurrezlone. Ma poco dopo lo sbarco a Sapri questa generosa illusione ebbe una triste fine: popolazioni locali e truppe borboniche sconfissero i patrioti. Pisacane si suicidò (1857).

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