L’AFFITTACAMERE – Richard Quine

L’AFFITTACAMERE

Titolo originale – The Notorious Landlady
Genere – Commedia, giallo
Regia – Richard Quine
Soggetto tratto dal romanzo di Margery Sharp
Sceneggiatura – Blake Edwards, Larry Gelbart
Produttore – Fred Kohlmar, Richard Quine
Produttore esecutivo – Richard Quine
Casa di produzione – Columbia Pictures
Fotografia – Arthur E. Arling
Montaggio – Charles Nelson
Effetti speciali – Dave Koehler
Musiche – George Duning
Scenografia – Louis Diage
Paese di produzione – Stati Uniti d’America
Anno 1962
Durata 123 minuti
Dati tecnici – Bianco/Nero

Interpreti e personaggi
Kim Novak: Carly Hardwicke
Jack Lemmon: William Gridley
Fred Astaire: Franklyn Ambruster
Lionel Jeffries: ispettore Oliphant
Estelle Winwood: signora Dunhill
Maxwell Reed: Miles Hardwicke
Philippa Bevans: signora Brown
Henry Daniell: il prete
Ronald Long: coroner
Richard Peel: sergente Dillings
Doris Lloyd: lady Fallott
Doppiatori italiani
Rosetta Calavetta: Carla Hardwicke
Giuseppe Rinaldi: William Gridley
Nando Gazzolo: Franklyn Ambruster
Giorgio Capecchi: ispettore Oliphant
Giovanna Scotto: signora Dunhill
Pino Locchi: Miles Hardwicke
Lydia Simoneschi: signora Brown
Renato Turi: il prete
Bruno Persa: coroner
Giulio Panicali: sergente Dillings

PREMESSA – C’è, nella storia del cinema americano, un periodo in cui fiorì un genere particolare di film per il quale venne a crearsi addirittura un’etichetta di designazione: “sophisticated comedy”. Tradotta letteralmente, l’espressione significa “comica raffinata”, ma, usando termini correnti, alcuni hanno parlato e parlano ancora di “commedia brillante”. Quantunque come traduzione sia un poco approssimativa, in realtà il termine si presta bene a rendere l’idea di ciò che è la suddetta “sophisticated comedy”: quel tipo di film scanzonato, disinvolto, dalla trama non poche volte assurda ma sempre gaia, ironica, magari satirica, che ebbe i suoi capiscuola in Accadde una notte e Ventesimo secolo, le sue grandi regine in Carole Lombard, Constance Bennet, Myrna Loy e Loretta Young, i suoi divi più “sciarmanti” di William Powell, Clark Gable, Robert Montgomery e Cary Grant, e i suoi registi più ispirati in Frank Capra, Howard Hawks, Ernest Lubitsch, W.S. Van Dyke, eccetera.

Fu un filone che ebbe strepitoso successo nel decennio precedente la seconda guerra mondiale, ma, com’è destino di tante cose del mondo, ci fu anche per esso la parabola discendente.

Qua in Italia, quando ripresero ad arrivare i tanto sospirati bei film americani di una volta, si vide come, nonostante qualche sporadico guizzo, la “sophisticated comedy” fosse ormai diventata una cosa del passato.

Il cinema, d’altra parte, come tutti ben sappiamo, è quel colosso industriale che, per sopravvivere, si trova costretto a diuturne battaglie, a una lotta che spesso si traduce in una ricerca disperata di rinnovamento, sicché gli capita con altrettanta frequenza – analogamente a quanto accade nel campo della moda – di andare a cercare il nuovo nel vecchio, o almeno in quel vecchio che, giacendo ormai da anni nel pozzo delle cose dimenticate, può essere riesumato e fatto oggetto di un rilancio.

Non è qui il caso di soffermarci su tutti i tentativi compiuti nel dopoguerra per riportare alla luce dello schermo la “sophisticated comedy”. Basterà osservare che a tale sforzo Richard Quine ha dato un consistente anche se non molto efficace contributo. È a lui, infatti, che si devono film come. Una Cadillac tutta d’oro e Una strega in paradiso: quanto a dire commediole senza dubbio spiritose, e accolte dal pubblico con notevole favore, ma ben lontane dal suscitare l’ondata di entusiasmo con cui furono accolte le loro antenate.

A quanto pare, però, il sostanziale tepore di tale successo non ha indotto Quine a desistere. E, autore anche di film gialli (Il terrore come sull’autostrada, 1954; Criminale di turno, 1955), stavolta egli è tornato alla carica con quel miscuglio di “giallo” e di “sophisticated comedy” che ha anch’esso una sua etichetta: il “giallo-rosa”.

TRAMA – Quando l’ impiegato dell’ambasciata americana William Gridley inizia il suo servizio a Londra, affitta parte dell’attraente casa dell’attraente Carly Hardwicke in risposta a un annuncio su un giornale. Gridley si innamora immediatamente della sua padrona di casa. Essendo nuovo arrivato, non ha idea che molte persone a Londra credano che Carly abbia ucciso il marito scomparso Miles.
Dopo aver appreso dei sospetti contro Carly da un funzionario di Scotland Yard, lui e il suo superiore, l’ambasciatore americano Ambruster, vogliono dimostrare l’innocenza di Carly.
Quando il marito scomparso riappare inaspettatamente, viene colpito da Carly durante una rissa. Grazie alla testimonianza della signora Brown, un’anziana vicina di casa dall’altra parte della strada, Carly riesce a evitare di essere condannata per omicidio.
Carly deve quindi affrontare un processo e un successivo tentativo di ricatto, ma con l’aiuto di Gridley e Ambruster riesce a dimostrare la propria innocenza, dopo ripetuti colpi di scena.

COMMENTO – Del giallo-rosa, infatti, L’affittacamere ha tutti gli ingredienti necessari. Si va dal soggetto – il giovane diplomatico americano che capita in pensione da una bella ma piuttosto enigmatica signora, ci prende la cotta, e poi si vede costretto a spiarla per conto di Scotland Yard, onde accertare se sia davvero, come si mormora, l’assassina del proprio marito -, allo stampo dei personaggi – uno stampo di resa sicura: sono tutti gradevoli, eleganti, simpatici, spiritosi o strampalati -, ai dialoghi, al ritmo dell’azione e persino alla fotografia, quel tipo di immagini sfumate che fu, appannaggio di Jean Harlow, Marlene Dietrich e altre vamp di quei giorni.
Ma, proprio per questi motivi, proprio perché in sostanza è l’applicazione a freddo di una formula ormai spremuta, non si può dire che il film segni un punto a favore del regista. Indubbiamente, diverte.

Jack Lemmon non viene meno . a se stesso; Fred Astaire, alle prese con una parte che gli è congeniale, adombra l’eleganza di recitazione e d’aspetto che lo distinse nei suoi memorabili film-rivista e ci risparmia la delusione che ci diede in L’ultima spiaggia.

Anche miss Novak – vestiti disegnati da lei a parte – è meno alabastrina del. solito, benché sui suoi sforzi di riecheggiare la “platinum blonde” sia meglio serbare un cavalleresco silenzio.

Detto questo, c’è anche da osservare, però, che l’architettura generale del film difetta grossolanamente di sapienza (non dimentichiamoci che in fin dei conti è un giallo, e tutta la parte finale, dal processo in poi, sa troppo di rugginoso, di nodi stretti alla carlona), sicché anche le sequenze più azzeccate – vedi, per esempio, la corsa della carrozzella verso lo strapiombo e il concomitante match tra Kim e la grassona – fanno sorgere il dubbio, per non dire la certezza, che si sia voluto coprire le magagne con i soliti giochi di prestigio.

Comunque, in terra di ciechi…

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