APPUNTI SU FRANK ZAPPA

Frank Vincent Zappa (Baltimora, 21 dicembre 1940 – Los Angeles, 4 dicembre 1993) è stato un compositore, chitarrista, cantante e polistrumentista statunitense.

Genio e Regolatezza: appunti di zappologia

“Quando scrivo canzoni come Valley Girl, Mud shark o altro, in fondo rendo un servizio al pubblico. La mia è una sorta di ricerca folk orale, un po’ come certe registrazioni “sul campo” di Alan Lomax per la Library of Congress; una mappa della stupidità del mondo!”

A una siffatta recherche ben poco è sfuggito: la penna “sociologica, mai politica” di Zappa non ha risparmiato nessuno dei vizi e delle debolezze del Sogno Americano. Ma nessuna “vera” analisi, nessuno sbilanciamento “illuminato”, lo hanno mai sospinto oltre le sue pur indovinate intuizioni, gettando quindi un’ombra di dubbio sulla patente di “terrorista” accordatagli così spesso e volentieri in passato. In realtà, nel capovolgere prospettive e scardinare apparenze in nome di un nuovo “taglio” dell’universo, Zappa ha trovato un efficace meccanismo di difesa, altro che terrorismo: “genio e regolatezza” varrebbe la pena di scrivere sullo stemma della sua casata, in pieno ossequio ai precetti della “patafisica” (“Zappatafisica”?) di Alfred Jarry. “Del disordine e dell’ordine” potremmo forse chiamare un saggio sull’uomo, a conferma delle teorie dello psicologo Rudolf Arnheim secondo cui, mentre massima informazione equivale a massima imprevedibilità, allo stesso tempo massima informazione equivale a minima entropia, cioè minimo disordine, dunque massimo ordine e massima prevedibilità.
Zappa non innesca esplosivi culturali, si arma semmai di un humour glaciale, “nero”, che violenta, disarticola e ricostituisce il mondo seguendo una logica cavillosa e una visione nettamente superomistica. Narcisista e superuomo (da una cosa all’altra, il passo è breve), egli irride tutto e tutti, mette al rogo, crocifigge: si proclama misogino tra le righe delle peripezie incestuose di Magdalena e Brown Shoes Don’t Make It per poi ridurre la donna a puro oggetto di lascivie innominabili (Dinah-Moe Humm, Penguin In Bondage, l’intero concept di 200 Motels); incendia l’America di Johnson e Nixon, e quella Kultura “di plastica” che egli addita come “supremo crimine in una società tra le più reazionarie”, col sarcasmo e col paradosso; travolge in un delirio iconoclasta istituzioni, mode (il Flower Power ieri, il Punk oggi, la gurumania), i media definiti senza troppi complimenti “gente che non sa scrivere che intervista gente che non sa parlare
per gente che non sa leggere”; il tutto, naturalmente, giocato sul filo di un entertainment semiserio di grande effetto teatrale.

Tuttavia se il periodo storico in cui le prime Mothers fanno la loro comparsa sulla scena americana, verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso, consente ancora un buon margine al gioco e alla satira della Grande Società, l’asprezza del dopo ’68 e il nuovo corso intrapreso dalla cultura giovanile portano Zappa a deviare verso una dimensione rigorosamente
musicale (Waka/Jawaka, The Grand Wazoo, buona parte di 200 Motels) e freddamente “qualunquistica”. Il distacco umoristico, che accompagna l’interminabile saga di una r’n’r band in tournée ridotta a una passerella di amplessi “proibiti”, fellatio selvagge e fallopatie di vario genere, fa calare definitivamente il sipario sulle illusioni nutrite riguardo alle “vere” motivazioni dell’artista. L’osceno come esorcismo ed estremo congelamento del comico (Jarry tevisited) e l’amor di scandalo prendono il sopravvento nella strategia di “trasgressione” che Zappa mette in atto dal ’73 in avanti: non più il “gioco” attraverso il quale prender coscienza della propria vita e scuotere certa passività compiacente, il meraviglioso e inebriante Freak Out!, bensì la ricerca di un qualunque pretesto pur di buttare a gambe all’aria, facendone tabula rasa, le certezze più sacre e gli eroismi più radicati dell’American Way of Life.

Come dada, Zappa dunque passa dalla parte del torto, avendo ragione. Ma tanto gli basta per aver dalla sua un’intera nuova generazione che rabbrividisce di piacere per un’operetta traballante come Joe’s Garage, trionfo dell’ambiguità e del double-entendre. .

L’artista, da parte sua, osserva compiaciuto i frutti del suo raccolto: “Ero un disgraziato di San Diego che faceva della musica “strana”, ritenuta unanimemente priva di potenziale commerciale. Quasi vent’anni dopo e con una trentina di dischi alle spalle, mi ritrovo con un paio di successi in classifica, un paio di processi in corso, vivo a Hollywood, la mia musica è tuttora “strana” e il mio aspetto non è cambiato affatto. Allora, chi è veramente strano?”, dichiara orgoglioso alla stampa, ma l’irrequietezza d’un tempo ha ceduto il passo a una parodia di se stesso. Zappa cita Zappa, ricicla moine, ossessioni, rovistando nell’arsenale dei vecchi trucchi, si identifica addirittura (o meglio, si mimetizza) con la propria maschera, ad uso e consumo di tutti, e intanto si barrica in casa, difende la sua privacy, rifiuta ogni contatto col mondo esterno, in un supremo rigurgito di solipsismo. Assolutamente incurante del mostro da lui stesso creato, Zappa quindi toglie corrente all’eterna sfida, alla provocazione tout court, optando invece per cofanetti di taglio “classico” in cui riversare tonnellate di musica, quelle si provocatorie in questi tempi di crisi. Ennesima contraddizione per l’uomo che un di si volle “assolutamente libero”.

Guido Harari (Il Cairo, 28 dicembre 1952) è un fotografo e critico musicale italiano.

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