PUBLIO VIRGILIO MARONE – Il poeta della mitezza

 

VIRGILIO

Il poeta della mitezza

Tra i grandi poeti di Roma, Virgilio è il più vicino al nostro sentimento, perché nella sua indole mite e affettuosa c’è un fondo di malinconia, molto simile a quella che accompagna la concezione cristiana della vita. Egli, inoltre è fra gli antichi poeti quello che più ha amato e sentito la bellezza del nostro paesaggio.

Nel suo maggior poema, l’Eneide, egli volle celebrare, nel felice tempo di Augusto, la grandezza di Roma ed esaltarne le origini, proprio quando Tito Livio scriveva le Storie; cantò così Enea profugo da Troia, le sue avventurose peregrinazioni nel Mediterraneo, simili a quelle di Ulisse, e le sue battaglie sostenute per la conquista del Lazio, sino alla decisiva vittoria su Turno, l’eroe d’Italia, impetuoso come Achille e coraggioso come Ettore.
Ma il suo affettuoso e generoso cuore era con i caduti ed i vinti: con i giovani eroi – Lauso, Pallante, Eurialo, Niso, Camilla – che cadono come fiori recisi, con i nobili re laziali – Evandro, Latino – e con i loro popoli, amanti della campagna e dei semplici costumi.
Anche Virgilio veniva da una famiglia dedita ai campi e perciò si compiaceva della contemplazione del paesaggio e del cielo. Già nel suo maggior poema incanta il lettore con la descrizione delle marine italiche, dei colli sfumanti azzurrini nel cielo e nelle mobili nubi; ma più ancora nelle opere di argomento agricolo – le Georgiche– o pastorale le Bucoliche – lo avvicina alla pura gioia elargita dalle bellezze della Natura: fa sentire il profumo della terra smossa, il calore accogliente delle stalle, lascia intravedere la nebbiolina che indugia rasente ai prati tra i filari chiari dei pioppi e evoca il soffio della brezza primaverile che accarezza i germogli e sfiora la chioma bianca dei mandorli in fiore.
Per questo gli Italiani, e primo fra tutti Dante, hanno sempre affettuosamente ricordato Virgilio.

Condiscepolo di Ottaviano

Chi visiti oggi il villaggio di Piètole, nel Mantovano, di Virgilio non trova traccia, a eccezione di un monumento che fu inaugurato da Giosuè Carducci nel secolo scorso. Il villaggio ha poco più di cento anni di vita; la Piètole medievale è scomparsa e scomparso è l’antico villaggio romano di Andes su cui essa era sorta e in cui settant’anni prima di Cristo nacque Publio Virgilio Marone.
Suo padre era un semplice agricoltore, ma un agricoltore agiato e ambizioso che voleva far fare strada al figlio. Virgilio fu mandato a studiare a Cremona, a Milano e, verso i diciassette anni, a Roma, meta di tutti i provinciali che volevano elevarsi dalla mediocrità del loro borgo e raggiunger gli onori. Fu così che alla scuola di un celebre maestro di eloquenza il giovane campagnolo si trovò accanto un ragazzino di poco più di dieci anni, ma di un’intelligenza quanto mai precoce, che si chiamava Ottavio e che sarebbe divenuto l’imperatore Ottaviano Augusto.
Ma la carriera degli onori non attirava Virgilio. Egli sentiva intimamente la poesia della pace campestre in cui era nato; e le agitate vicende politiche di quel tempo, le guerre civili fra cesare e Pompeo, lo allontanavano ancor più dalla vita pubblica.
A venticinque anni lasciò Roma per recarsi a perfezionare i suoi studi a Napoli, presso uno dei più noti maestri greci, e trascorse là un periodo felice tra amici fedeli e ai gusti affini.
Virgilio avrebbe voluto vivere nei primi tempi di Roma, quando anche i maggiori personaggi erano agricoltori e pastori. Ma la sorte lo aveva fatto nascere in un’epoca in cui le campagne, sconvolte dalle guerre civili, erano senza pace: i proprietari venivano di volta in volta spogliati e le loro terre distribuite ai soldati del partito vincitore.
Dovette tornare a Roma e sollecitare la protezione del suo antico condiscepolo, Ottaviano, divenuto potente; era già noto come poeta, fu accolto nel circolo di Mecenate: e grazie a queste amicizie poté riavere i poderi paterni che gli erano stati confiscati.
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Dosso Dossi, Enea e Acate sulla costa libica
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Seguace si Teòcrito

Al pari di tutte le epoche eccessivamente raffinate, la sua sentiva un’intima nostalgia di sensazioni e sentimenti semplici, di schiettezza campestre; anche la Grecia l’aveva provata agli inizi della sua splendida decadenza, fra il 300 e il 250 prima di Cristo, e un elegante poeta, Teòcrito, aveva cantato la felicità della vira agreste verseggiando gentili dialoghi fra semplici pastori. Naturalmente la sua era una campagna di maniera con pastori da salotto, ma quella poesia era stata molto popolare in Grecia e lo era adesso in Roma. Virgilio si ispirò a Teòcrito per la sua prima opera importante, le Bucoliche, ossia le poesie pastorali, ma assai più schiettamente di lui espresse il sentimento della terra, del mite gregge, del germoglio pieno di vita. Si creò così un ambiente campestre ideale e poetico in cui trovò la sua serenità.

Poeta dei campi

Ottaviano Augusto era uno spirito pratico che cercava far profitto di tutto, anche della poesia. Le guerre civili avevano danneggiato l’agricoltura, e Ottaviano voleva riportare le popolazioni italiche all’amore della terra; quel suo amico poeta che aveva così profondo il sentimento della campagna gli si presentava dunque quanto mai opportuno per un’opera di propaganda. Lo invitò a scrivere sul lavoro dei campi, e Virgilio creò la sua seconda opera, le Georgiche.
Ma ecco che, nell’anima del mite poeta, la solennità della misteriosa vita della tema sembra confondersi con la solennità stessa della storia di Roma, che era stata per eccellenza una città di pastori e di agricoltori.
E Virgilio incomincia a pensare a un grande poema che dovrebbe celebrare insieme la natura e il popolo romano.

Si delinea l’ENEIDE

Era semplice e modesto, ma aveva coscienza del proprio valore e, soprattutto, amava la sua terra, il suo popolo, le antiche tradizioni. Due antichi poeti latini, Ennio e Nevio, avevano cantato le gesta romane, imitando i poemi di Omero, ma le loro erano più che altro rozze cronache in versi. Adesso bisognava dare a Roma il grande poema epico  che non aveva ancora avuto, e celebrare la gloria romana fondendo armonicamente la realtà e la leggenda. Nacque così l’Eneide.
Un’antica tradizione voleva che Roma fosse stata fondata dai discendenti di un eroe troiano, Enea, figlio di Anchise e di Venere, il quale, dopo la distruzione di Troia, era emigrato coi suoi ai lidi italici. Il poema delle origini di Roma sarebbe stato dunque il poema di Enea, e, secondo il modello dato dall’Iliade e dall’Odissea, avrebbe cantato la distruzione di Troia, la partenza dell’esule, le sue peregrinazioni, il suo arrivo in Italia, le sue lotte per stabilirvisi.

La morte 

Virgilio lavorò per molti anni a quest’opera, che doveva essere il suo capolavoro. Quando l’ebbe finita, volle fare un viaggio in Grecia per rifinirla nella terra in cui era nata la poesia. Mancava ancora quel paziente lavoro di revisione a cui i poeti latini sottoponevano sempre i loro scritti per portarli a perfezione; molti versi erano stati addirittura lasciati in tronco per poter seguire l’estro del momento. Ma a Brindisi, quando stava per imbarcarsi, la malattia lo colse e lo portò alla tomba a cinquantun anni. Prima di morire, prese una decisione estrema: non voleva che il poema destinato a celebrare la grandezza di Roma giungesse imperfetto alla posterità, e ordinò che il manoscritto fosse dato alle fiamme. Augusto non lo permise, e i fedeli amici del poeta pubblicarono l’opera.
Virgilio fu grande di statura, abbronzato nella carnagione, di aspetto semplice e dimesso, debole di salute. Amò la semplicità e la solitudine: in mezzo alla gente si sentiva timido e sperduto. Quando divenne noto a Roma, e durante la passeggiata si sentiva osservato e seguito da alcuni, cercava rifugio nella casa più vicina, per sfuggire agli ammiratori. Amò la natura e la sua prediletta terra di Mantova, i campi, il cielo limpido, i boschi, gli animali per cui sentì una profonda tenerezza. Nei suoi versi ricordò le api, i vitellini, i buoi, i cavalli, gli uccellini, tutte le bestie che circondano gli agricoltori di cui celebrò la nobile fatica e i lucenti attrezzi levigati dal lavoro: e non si compiacque dei trionfi militari e delle vittoriose imprese di Roma che sempre considerò crudelmente necessarie. Eppure rimase stupito e riverente di fronte alla sua grande città adottiva, dinanzi all’impero di Augusto che esaltò nell’Eneide, l’immortale poema eroico e nazionale, nel momento del massimo splendore. Trascorse la vita contento nei pensieri contemplativi, e nel culto costante della poesia. Secondo quanto riferiscono i suoi biografi, lavorava molto lentamente, limando e perfezionando di continuo i versi; e paragonava se stesso all’orsa che genera i suoi piccoli ancora informi, ma dà loro la giusta forma, lambendoli e lisciandoli con assidua cura amorosa.