IL TEATRO ROMANO

Sopra, attori comici in un codice plautino. Plauto fu il primo tra i commediografi latini a contaminare lo schema della commedia nuova greca di Difilo, Filemone e Menandro con elementi del teatro popolare

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IL TEATRO ROMANO

Le prime manifestazioni teatrali a Roma sono spettacoli comici destinati ad un pubblico popolare: il fescennino, farsa costituita da un dialogo fra contadini e rappresentato durante le festività contadine o i riti nuziali; la satura, forse un insieme di danze, dialoghi e canti; l’atellana, farsa realistica i cui personaggi assunsero ben presto caratteristiche fisse. Interpretata da attori mascherati, l’atellana era rappresentata alla fine della tragedia come conclusione dello spettacolo. Anche il mimo era molto popolare. Il contatto con la cultura greca fu molto importante per la letteratura latina e soprattutto per l’evoluzione del teatro. A Livio Andronico (III secolo a.C.) e a Gneo Nevio (270-201 a.C.) va il merito di aver rielaborato i testi teatrali greci e di averli rappresentati. Nevio compose anche drammi storici di soggetto romano. Con questi due scrittori nasce il teatro in lingua latina i cui generi principali sono: la tragedia che, a parte l’abolizione del coro, non è diversa da quella greca, e la commedia, composta da: prologo, soliloqui dei personaggi, dialoghi (o diverbi) e cantici (brani cantati). Durante le rappresentazioni gli attori recitavano, cantavano, danzavano, accompagnati dalla musica dei flauti.
I maggiori commediografi romani sono Plauto (254-184 a.C.) e Terenzio (190-159 a.C.) che si ispirarono ai soggetti ed ai temi della Commedia Nuova di Menandro.
Tito Maccio Plauto inserì elementi del teatro popolare nello schema della Commedia Nuova.
Le sue commedie, più che per la caratterizzazione dei personaggi, che non si differenziano dai tipi tradizionali (il soldato fanfarone del Miles G1oriosus, l’avaro della Aulularia, ecc.), sono importanti per la rappresentazione della società del tempo, che traspare sotto l’ambientazione greca, e per l’originalità e la varietà della versificazione. La comicità buffonesca di Plauto lascia il posto, nelle commedie di Publio Terenzio Afro, ad una analisi più accurata del personaggio e ad un linguaggio più contenuto e raffinato.
Anche la tragedia conobbe un certo successo presso il pubblico romano, soprattutto nel periodo di transizione dalla Repubblica all’Impero. I principali autori di tragedie latine furono Ennio, Pacuvio e Accio, delle cui opere ci restano pochi versi.
In epoca imperiale il teatro attraversò un momento di crisi, in cui i generi della Commedia e della Tragedia decaddero a favore dei generi più popolari come l’atellana, il mimo e la pantomima. In questo tipo di spettacolo l’attore protagonista rappresentava la vicenda con i soli gesti, accompagnato dalla musica. Talvolta era presente un altro attore con una parte parlata. I soggetti delle pantomime erano tratti da drammi, poemi, favole e leggende che narravano gli amori degli dei.
A teatro si continuarono a rappresentare commedie e tragedie, ma per attirare il pubblico si curò molto la scenografia e si organizzarono coreografie imponenti e spettacolari.
In questo periodo di crisi della tragedia nasce l’opera drammatica del filosofo Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) che, nelle intenzioni dell’autore, non era destinata alla rappresentazione, ma solo alla lettura. Le tragedie di Seneca seguono lo schema classico della tragedia greca di cui riprendono gli argomenti. Esse sono costituite per la maggior parte da soliloqui di personaggi in preda a violente passioni, e sono caratterizzate dal gusto del
macabro e del truce. La decadenza dell’Impero Romano segnò anche la decadenza del teatro.

Mosaico riproducente le tipiche maschere del teatro romano
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L’attore in Grecia e a Roma

L’origine religiosa del teatro ha comportato l’identificazione dell’attore con una figura sacerdotale, e ciò vale sia per la tradizione orientale, di cui si hanno le più antiche testimonianze, sia per quella occidentale, localizzabile in area ateniese verso il VI secolo a.C., quando la struttura della tragedia si evolse in modo tale da consentire l’articolazione dei ruoli e l’instaurazione del dialogo. La rappresentazione tragica s’imperniava sulle vicende di mitiche figure divine ed eroiche, di cui l’attore non era il semplice interprete, bensì il magico evocatore, quale “ministro” del rapporto tra umano e divino. Per questo l’attore greco godeva di un grande prestigio, che si traduceva nell’attribuzione di particolari prerogative: finanziamento statale, esenzione dal servizio militare e libertà di accesso in campo nemico. Inoltre, non era infrequente che gli stessi autori fossero anche interpreti delle loro tragedie: è il caso di Tespi, Eschilo ed altri. L’autorevolezza dell’attore era tale da procurargli persino delle investiture politiche, come tributo di alta considerazione per le sue abilita retoriche. Un tale impegno culturale non aveva riscontri a Roma: qui il teatro non rispecchiava più l’identità spirituale di un popolo, bensì riproduceva al suo interno ,divisioni sociali ed etniche. Da ciò derivò lo scadimento del livello letterario, che coinvolgeva anche l’attore nella volgarità di generi bassamente spettacolari. La morale romana sanciva così l’indegnità della mercificazione che l’attore faceva della sua persona, limitando la sua provenienza sociale alle file degli schiavi, solo in epoca tardoromana estesa anche ai ranghi dei liberti, mentre le donne erano estromesse, salvo rare eccezioni.

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