LA LOCANDIERA – Carlo Goldoni

LA LOCANDIERA

Commedia in prosa in tre atti di Carlo Goldoni.
Rappresentata al Teatro Sant’Angelo di Venezia nel carnevale del 1753
Venne pubblicata a Venezia nel 1753.

Personaggi

Il Cavaliere di Ripafratta
Il Marchese di Forlipopoli
Il Conte d’Albafiorita
Mirandolina, locandiera
Ortensia, comica (finta dama)
Dejanira, comica (finta dama)
Fabrizio, cameriere di locanda

Trasposizioni operistiche

La locandiera di Antonio Salieri
Mirandolina di Bohuslav Martinů
La locandiera di Johann Simon Mayr
La locandiera di Mario Persico

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ATTO I

Mirandolina, padrona della locanda che gestisce, è oggetto di galanti attenzioni da parte di due clienti: il Conte di Albafiorita, che spera di veder ricambiati i doni di cui la ricopre, e lo spiantato Marchese di Forlipopoli, che invece ne pretende l’affetto come dovuto alla sua nobiltà. Tutto ciò altera sensibilmente Fabrizio, cameriere nella locanda e promesso sposo di Mirandolina: costui viene ridicolizzato dal Cavaliere di Ripafratta, che fa professione di misoginia. Mirandolina è annoiata dagli spasimanti languidi, che vuole burlare, mentre desidera scatenare la passione nei burberi, come il Cavaliere, per far trionfare la seduzione femminile. Ad assecondare il suo piano contribuisce l’arrivo alla locanda di Ortensia e Dejanira, due attrici in bolletta, che, abituate a ricoprire parti di donne nobili, si spacciano per aristocratiche. Mirandolina capisce subito la finzione, ma l’asseconda, facendo in modo che il Conte e il Marchese si dedichino alle nuove arrivate, per concentrare i suoi sforzi sul Cavaliere, scombussolato dalla disinvoltura assai poco leziosa mostrata da Mirandolina nei suoi confronti.

ATTO II

Il Cavaliere, affascinato dalle cortesi attenzioni di Mirandolina, la invita a pranzo in camera sua: attenzione mai dedicata prima a una donna. Ma, per non cadere irrimediabilmente nella rete della locandiera, risolve di andarsene. Mirandolina, per obbligarlo a mostrarsi vinto, gli porta di persona il conto e, al momento della separazione, finge uno svenimento, facendo sì che il Cavaliere non possa piú esserle indifferente.

ATTO III

Il Cavaliere confessa a Mirandolina di amarla, ma lei si rende conto di aver condotto il gioco ormai troppo oltre. Per difendersi dalle sue invadenti pretese ed evitare che la contesa ormai in corso tra il Cavaliere e il Conte degeneri, Mirandolina si appoggia a Fabrizio e proclama di essere stata da suo padre a lui promessa. Ottiene il pieno trionfo sul Cavaliere, che insiste a non confessare l’innamoramento, ma se ne va dopo aver ammesso di essere stato umiliato. Mirandolina promette a questo punto di cambiar vita, una volta sposata con Fabrizio, affinché le sue malizie non turbino l’onesta vita coniugale.

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IL MARCHESE DI FORLIMPOPOLI: “Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me”.

IL CONTE D’ALBAFIORITA: “Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? Perché credete ch’io sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda?”.

Alla decima battuta della commedia, secondo lo stile del perfetto autore, la situazione è già delineata. Tutti e due i nobili sono innamorati della giovane,
bella locandiera. Ciascuno usa le armi che ha: il Conte, che è molto ricco, fa splendidi regali a Mirandolina, cercando di ingraziarsi con grosse mance Fabrizio, il cameriere della locanda.
Il Marchese, che è spiantato, cerca di far valere il suo nome, i vantaggi della sua aristocratica protezione. Nella locanda alloggia anche il Cavaliere di
Ripafratta, uomo scorbutico e misogino, il quale non solo non rimane colpito dalla grazia di Mirandolina, ma la tratta con asprezza.
Naturalmente non ci vuol altro per ferire l’amor proprio di Mirandolina. Le sembra veramente incredibile, offensivo, che un uomo possa rimanere insensibile di fronte alla sua femminilità. Il Cavaliere la disprezza?
Benissimo, lei si metterà d’impegno per farlo innamorare; e quando lo scorbutico uomo sarà vinto, soggiogato e implorerà il suo amore, lei lo respingerà: e insieme a lei, avrà trionfato tutto il sesso femminile. Mirandolina, con la sua irresistibile civetteria e con sottilissima furberia comincia a circuire il Cavaliere: si finge umile, modesta, remissiva, gli dà ragione in tutto, anche nella sua avversione per le donne.

MIRANDOLINA: “Ha moglie Vossignoria illustrissima? ».

CAVALIERE: “Il Cielo me ne liberi. Non voglio donne”.

MIRANDOLINA: “Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore… Basta, a me non tocca a dirne male”..

Il Cavaliere dapprima è stupito; poi deve ammettere a denti stretti che, tutto sommato, quella donna non è l’inferno; poi la fa sedere alla sua tavola, mentre Mirandolina finge impaccio e soggezione; poi comincia a guardarla con occhi languidi.
Nel frattempo il Conte e il Marchese continuano la loro guerra: ciascuno vuole eliminare il rivale e conquistare Mirandolina; ma la locandiera li tratta col minimo riguardo necessario per trattenerli nella locanda. Tutti i suoi sforzi sono rivolti alla conquista del Cavaliere, il quale capitola abbastanza presto.
Quando il poveretto le annuncia che deve partire (in realtà vuole fuggire prima che avvenga l’irreparabile), la donna gli si presenta con gli occhi rossi come se avesse pianto per il dispiacere; poi finge uno svenimento e il Cavaliere si dispera, la chiama con dolci nomi; è ormai innamorato di lei, è perduto.
Il povero Fabrizio assiste a tutte queste manovre e poiché non ne capisce la ragione impazzisce per la gelosia; ma Mirandolina, pur essendo innamorata di Fabrizio, non vuole rinunciare a nessuno dei suoi corteggiatori.
Finalmente il Cavaliere crolla; egli è ormai innamorato e in una scena concitata invoca la donna amata.

MIRANDOLINA (voltandosi con alterezza): “Che cosa vuol da me?”.

CAVALIERE: “Amore, compassione, pietà”.

MIRANDOLINA: “Un uomo che stamattina non poteva veder le donne, oggi chiede amore e pietà?… “.

Mirandolina ha trionfato. Il Cavaliere sconfitto, furente, parte senza salutare; il Conte e il Marchese sono invitati con bel garbo a cercarsi un’altra locanda, e Mirandolina finalmente si decide a rivelare il suo amore a Fabrizio. Il poveraccio, dopo tanti alti e bassi, quasi non può crederci, e parla di fare prima i patti; Mirandolina gli ribatte:
“Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano o vattene al tuo paese”.  Anche questa, per quanto strana, è pur sempre una dichiarazione d’amore.

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UNA PAGINA MIRANDOLINA (sola):

Uh! che mai ha detto! L’eccellentissimo, signor marchese Arsura mi sposerebbe! Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposato tutti quelli che hanno detto di volermi, oh! avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me si innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi addirittura!. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti, d’un salto, s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È un nemico delle donne?… Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste nel vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non mi innamora mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricatura di amanti spasimati; e voglio usar tutta 1’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

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COMMENTO

Questo è il celebre monologo di Mirandolina, che nello stesso tempo è presentazione della giovane e piano di guerra contro il Cavaliere. Mirandolina, sotto l’apparenza di ragazza volubile e vanerella, è in realtà una donna forte che domina perfettamente la situazione, sa lucidamente ciò che vuole e conduce gli avvenimenti con mano ferma. Arriva quasi a ispirarci una sfumatura di antipatia, con quella sua. ironica sicurezza; ma sa sempre riprendersi in tempo (e qui sta la miracolosa abilità di Goldoni), quando rinuncia ad agire freddamente col cervello, per abbandonarsi al sentimento e divenire una donna che ama, come qualsiasi altra donna. Mirandolina è squisitamente donna, e sente tutta l’importanza e il valore di ciò; è una femminista, insomma, un’adorabile e seducente femminista.
Lo dice chiaramente: “noi (donne), che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura”.
Attraverso le parole di questa splendida civetta, traspare molto bene lo stile di Goldoni; il suo è un ‘modo di scrivere semplice, qualche volta persino sciatto e senza nerbo, eppure cosi attraente: osserviamo quei salti, quelle inversioni, quei rapidi «passaggi da un ragionamento all’altro, quelle apostrofi rabbiosette, quei sospiri, quei puntigli cosi veri! A una esclamazione di collera fa da contrappunto un sospiro di languore, a una frase cattivella seguono subito parole tenere e dolci.
Questo è l’inconfondibile stile di Goldoni, che nessuno in teatro ha mai saputo imitare, pur avendolo alcuni tentato.

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Fonte video: YouTube – Luigi Gaudio

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UN MAGICO MONDO TEATRALE

“Il mondo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge cosi al naturale che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose e istruttive commedie”. Così Goldoni stesso spiega qual è l’origine della sua arte; egli voleva narrare, rappresentare “la copia di quanto accade nel mondo”.
Si dice che il teatro di Goldoni è realista, cioè mette sulla scena, fa parlare e agire personaggi tratti dal vero, rappresenta situazioni reali, come possono accadere ogni giorno. Questo è vero, ma fino a un certo punto. Goldoni, in effetti, studiava i suoi personaggi e il loro linguaggio dal vero, passeggiando per i campielli di Venezia, entrando nei negozi, nelle case di gondolieri e di nobili. Ma poi non trasportava direttamente i personaggi e- le situazioni sul palcoscenico: prima li accomodava, li atteggiava con grazia, li rendeva più gentili, attenuando gli eccessi, le crudezze, i contrasti troppo aspri.
Anche quando vediamo nobili e popolani, servette e dame gridare, commuoversi, battibeccare, ingannare, sentiamo in loro dei personaggi teatrali che non
escono mai di misura. Goldoni è lo scrittore della grazia, dell’armonia, della misura: non si pone problemi morali né sociali né religiosi. Non si indigna, non tuona contro i vizi: li rappresenta e ne sorride con ironia. Goldoni è uno splendido creatore: con la sua mano leggera, prende semplici fatti, battibecchi, piccoli amori, intrighi da quattro soldi, quasi nulla, insomma, e con essi crea un magico, intramontabile teatro.

 

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IL VENEZIANO TRANQUILLO

“Non detti pianto vedendo la luce per la prima volta… questa quiete pareva manifestare fin da allora il mio carattere pacifico che non si è mai in seguito smentito…”.
Così cominciano le Memorie che Goldoni stesso scrisse durante la sua vecchiaia. Memorie di un uomo tranquillo dalla vita lunga, movimentata e operosa: una ‘vita tutta dedicata al teatro. Carlo Goldoni, figlio di un medico, nacque a Venezia, nel 1707. Fin da piccolissimo, le marionette, primo segno della sua straordinaria vocazione teatrale, erano il suo gioco preferito. Infatti, trascorreva ore e ore in loro compagnia, recitando intere commediole che inventava con incredibile facilità. A tredici anni era studente di filosofia a Rimini: strano studente, a dire il vero, dato che trascorreva tutte le sue sere frequentando una compagnia teatrale che recitava in quella città; finché un giorno piantò improvvisamente scuola, professori e compagni e s’imbarcò con gli attori per Chioggia. Ma la sua carriera teatrale non durò a lungo e, quando la compagnia si sciolse, egli fece ritorno in famiglia. Rimase a casa un paio d’anni, poi entrò nel celebre collegio Ghislieri di Pavia, da cui fu espulso in seguito a una sua satira contro le fanciulle della città.
Per qualche anno allora fece l’impiegato e lo studente, l’uno e l’altro senza voglia.
Nel 1731 si laureò in giurisprudenza a Padova e si mise a fare l’avvocato; ma continuava a occuparsi soprattutto di teatro, assistendo con passione a tutti gli spettacoli e scrivendo egli stesso melodrammi e rifacimenti di opere.
La donna di garbo, scritta nel 1743, fu la sua prima commedia di carattere stesa per intero; cinque anni dopo, Girolamo Madebac, un capocomico che recitava con la sua compagnia a Livorno, gli propose di diventare il poeta stipendiato della compagnia.
Goldoni non se lo fece ripetere e accettò. Da allora diventò un altro uomo. Scrisse numerose commedie iniziando la sua famosa riforma del teatro: non più opere convenzionali e accademiche, ma vive, con figure e fatti presi dalla vita reale. Il periodo dal 1749 al 1762 fu il più lieto e fecondo della sua vita: scrisse più di trenta commedie, fra cui quasi tutti i suoi capolavori.
Nel ’62, fu invitato a dirigere gli spettacoli della “Comedie Italienne” a Parigi. Accettò, anche perché era stanco della lotta che in Italia gli muovevano certi critici e certi autori. Un pubblico nuovo e una lingua straniera lo attendevano, ma, soprattutto con il Burbero benefico, scritto in francese, egli riuscì a trionfare anche a Parigi. I suoi ultimi anni non furono lieti. In seguito allo scoppio della rivoluzione francese perse la pensione che gli era stata fissata dal re e si ridusse in miseria.
Povero e semicieco, mori a Parigi il 6 febbraio 1793, lontano dalla sua Venezia.

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