L’ISTRUTTORIA. ORATORIO IN UNDICI CANTI – Peter Weiss

L’ISTRUTTORIA. ORATORIO IN UNDICI CANTI

Peter Weiss

L’istruttoria. Oratorio in undici canti è un’opera teatrale del drammaturgo tedesco Peter Weiss che descrive i Processi di Francoforte del 1963-1965, dei quali l’autore fu osservatore. Utilizzando alla lettera i verbali del processo di Francoforte, il drammaturgo tedesco ha create uno spettacolo di forza drammatica che pone la coscienza di ogni uomo di fronte alle responsabilità. Un ammonimento per il presente. 

Il termine spettacolo non e propriamente il più adatto ad indicare le caratteristiche de L’istruttoria, la tragedia di Peter Weiss giunta intorno al 1967 a Roma ma dopo un proficuo rodaggio in numerosi altri centri della penisola. Bisognerà adoperarlo quel termine ma unicamente per capirsi, per adattarsi alla forma esterna della rappresentazione e suggerirne d’acchito l’idea. Io credo che, con maggiore pertinenza, si dovrebbe parlare di festa religiosa, di celebrazione, di cerimonia, perché al di là di quelle che sono le necessità e le apparenze formali dell’opera di teatro si dà luogo in questo caso alla consumazione di un rito al centro del quale, come in una Messa laica, si trova collocata la rievocazione del sacrificio consumato sul corpo vivo del genere umano, in particolare su quello del popolo ebraico. Serve la rievocazione a ripercorrere certi drammatici avvenimenti di un passato ancora vicino, a riesaminare con lo scrupolo e l’attenzione che i fatti richiedono le responsabilità del nazismo, non soltanto quelle ma anche le altre non meno gravi del mondo economico, culturale, sociale della Germania degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, dei partiti politici, di quei partiti politici incapaci di leggere correttamente nella situazione che si andava verificando nel loro paese, degli individui i quali, in nome di assurdità ideologiche e di spaventosi determinismi accettarono di essere il braccio inconsapevole delle più inconcepibili atrocità. Perché la celebrazione di tanta tragedia, avvenuta nella forma più didattica e documentaria possibile, costituisca uno dei motivi atti a scongiurare il ripetersi, sia pure sotto vesti diverse, degli stessi fenomeni. Non c’è bisogno di aggiungere come la nostra preoccupazione, il timore di nuove allucinanti catastrofi abbia oggi immagini e nomi ben precisi, cui altri se ne aggiungono ad un tiro di schioppo dal nostro paese e sembrano torvamente anticipate soluzioni ancora più spettrali e angoscianti. Assistendo allo svolgimento del rito così come esso é previsto da Peter Weiss e nella maniera secondo la quale lo ha realizzato il Piccolo Teatro di Milano, abbiamo lo sconvolgente dovere di legare il passato al presente per ricordare al mondo che non pare abbia molta voglia di saperlo dove possono condurre le rinunce, gli abbandoni, le deleghe incondizionate di potere di cui il popolo tedesco si é reso durante il nazismo responsabile. E perché lo scetticismo, il sorriso di chi tutto conosce che sono tipici di certa indisponente italica incredulità, crolli di fronte all’evidenza della realtà, noi assistiamo a testa scoperta a questa celebrazione con il rispetto dovuto alla tragicità delle vicende descritte e nello stesso tempo assumiamo l’impegno di impedire che esse abbiano a verificarsi di nuovo. Assistiamo ma principalmente partecipiamo alla sacra rappresentazione che Weiss ci propone, entriamo nel centro del racconto, sentiamo gli avvenimenti, le persone, le vittime come i loro carnefici, serrarcisi intorno in un abbraccio drammatico, in un invito alla coralità sulla misura di quella della tragedia greca ma dove l’immagine della verità non conosce veli che ne appannino e sbiadiscano i lineamenti.

Questa Istruttoria, come ho accennato, rende lo spettatore attore, secondo una concezione del teatro che va ben oltre gli schemi estetici brechtiani e chiama in causa, in un certo senso risolve, alcuni fondamentali problemi di ideologia teatrale. È lavoro che pertiene in parti almeno eguali all’autore del testo e ai realizzatori dello spettacolo: all’autore in quanto immette nel teatro persone e avvenimenti di una realtà vera quanto la storia da cui son presi e senza ricorso ad alcun elemento della fantasia, neanche nel linguaggio; ai realizzatori perché, facendo ricorso a tutti i mezzi che lo spettacolo moderno offre, dal teatro alla televisione al cinema alla musica bellissima (è di Luigi Nono) hanno fornito una esemplare manifestazione di quello che davvero può essere chiamato uno spettacolo popolare. Ecco l’impressione più netta che ho ricevuto ascoltando l’agghiacciante serie degli undici canti dell’oratorio di Peter Weiss, che forse per la prima volta si sono conseguiti i termini di quella popolarità che é, deve essere alla base di uno spettacolo moderno. In questo senso, la specificazione dei mestieri teatrali perde le caratteristiche distintive che le pertengono: regista, tecnico delle luci, direttore di scena diventano facce disuguali di uno stesso sistema che, nel suo insieme, produce una forma di spettacolo del tutto inusitata. Almeno in Italia. L’uso della televisione a circuito chiuso, soprattutto, crea degli effetti straordinari, l’immagine ingrandita in misura inverosimile attrae completamente l’attenzione, e gli occhi dello spettatore vi indulgono sopra volentieri, attratti da essa, abbagliati. I risultati, commisurabili sulla base della esaltazione della parola proprio attraverso elementi che sembrerebbero negarla, conducono ai ritrovati estetici che i cecoslovacchi, ad esempio, hanno sperimentato nel teatro d’avanguardia fino ai limiti dell’impossibile.

Tutto concorre alla demistificazione degli elementi della convenzionalità teatrale: dal luogo, l’anonimo, spettrale, fantascientifico salone dei Congressi nell’omonimo palazzo; ai modi della recitazione, estraniata molto più che non nella rappresentazione pavese di due mesi prima con gli attori che leggono direttamente dal copione o lo tengono ben in mostra fra le mani; alla imprecisabilità fisionomica ed onomastica di parte. dei personaggi, opposti anonimamente alle belve naziste di Auschwitz, queste si ben identificate; al concorso attivo del mezzo televisivo che ingrandisce, come ho detto, in misura allucinante le immagini dei protagonisti fino a renderle tragicamente irreali; alle visioni veloci, mulinanti quasi intorno ad un motivo musicale, delle riprese filmate effettuate nel lager di Auschwitz; alla elementarità burocratica del linguaggio, che è difatti preso di peso dagli atti del processo di Francoforte cui l’autore assistette e che gli suggerì l’idea del lavoro. Tutto questo sollecita un interesse nuovo verso il teatro, verso le capacità formali che quello odierno presenta, e lo sollecita nella misura in cui gli avvenimenti descritti diventano oggettivo patrimonio di una umanità intera, chiamata a protagonista della immane vicenda e, ad un certo punto, indicata, nelle strutture sociali e politiche che si dette, come responsabile in solido dei fatti intervenuti durante una sua parte di storia. Dice un testimonio nel quarto canto:

“Molti di quelli destinati/ a figurare come Hãftlinge / erano cresciuti sotto gli stessi principi / di quelli / che assunsero la parte di guardie / Si erano dedicati alla stessa nazione / impegnandosi per uno sforzo per un guadagno comuni / e se non fossero finiti Hãftlinge / sarebbero potuti riuscire guardie / Smettiamola di affermare con superiorità / che il mondo del Lager ci e incomprensibile / Conoscevamo tutti la società / da cui usci il regime / capace di fabbricare quei Lager / L’ordine che vi regnava / ne conoscevamo il nocciolo / per questo riuscimmo a seguirlo / nei suoi ultimi sviluppi / quando lo sfruttatore potè / esercitare i suo potere / fino a un grado inaudito / e lo sfruttato / dovette arrivare a fornire / la cenere delle sue ossa”.

Ecco la ragione del nazismo, fase più drammatica del capitalismo, ecco il motivo per cui tante brutture poterono essere concepite ed effettuate, smettiamo di nasconderci .dietro la cortina dell’orrore, mostriamo le nostre mani lorde di sangue e fango, denudiamo la nostra coscienza macchiata. Il senso dell’opera di Weiss è anche se non soprattutto in questa indicazione di responsabilità, che coinvolge nel processo di Francoforte, a fianco degli effettivi aguzzini, le nazioni, i capi di stato, i singoli individui i quali, non ignorando gli avvenimenti, preferirono la strada di un comodo ma colpevolissimo agnosticismo, che per proprio tornaconto misero la sordina ad orrore e riserve morali, credendo di aver assolto con il gesto di Ponzio Pilato il massimo delle singolari responsabilità. Noi che assistiamo alla meravigliosa esecuzione di un rito che ha come capro espiatorio un corpo immenso di sei milioni di individui, ci sentiamo travolti da questa accusa che ci rende tutti eguali e ci liberiamo da essa con l’applauso che rompe psicologicamente una tensione e riporta le cose al dato attuale, lontano da quei fatti la distanza di una umanità che crediamo nuova. Noi quanti siamo.
È la stessa cattiva coscienza che ci spinge a rifiutare gli avvenimenti del Vietnam come distanti almeno i chilometri che ci separano da quella fetta di mondo. Ma non e cosi, il Vietnam confina con le nostre anime come i lager nazisti confinavano con quelle dei nostri padri che non volevano saperlo: attenti a non dover celebrare in un prossimo futuro una nuova festa dell’orrore. Ecco il senso che io scopro in questi undici canti degni dell’inferno dantesco, ecco la parola, le parole di cui si sostanziano gli aneliti. dell’uomo, e che non uso perché troppo sfruttate e spesso proprio da chi toglie loro valore e senso, in attesa magari di abolirne nuovamente il suono.

Con L’istruttoria di Peter Weiss si ritorna alle scaturigini del teatro, al rito eseguito sulla timéle (ara sacrificale) davanti a turbe di partecipanti, partecipanti si e non spettatori, come è in questo caso e sempre dovrebbe essere in teatro. Questo monumento di una drammaturgia concepita nel significato più nuovo del termine riporta alla luce il valore della parola libera da ogni forma di sovrastruttura. L’allusività pur apprezzabile che si ritrova nel miglior Brecht e qui superata da un discorso diretto che non ha intermediari se non nella voce dell’attore, per il tramite della quale para in confessione l’umanità intera. Significante e significato qui si danno la mano e fanno opera di poesia, come opera di poesia sono le tragedie eschilee e più ancora gli immortali poemi di Omero.

Al Piccolo Teatro di Milano, che ha avuto il coraggio morale e civile oltre che organizzativo di affrontare un impegno vistoso sotto tutti gli aspetti, alla RAI-TV una volta tanto (1967), al regista Virginio Puecher che ha servito con umiltà e fede un testo di cosi grande responsabilità, agli attori che ne sono stati i fedeli e capacissimi esecutori, va il ringraziamento per averci offerto finalmente la dimensione esatta di quello che può diventare il teatro nella nostra epoca. Qualcosa che lo apparenta al dramma greco, con in più la consapevolezza di una funzione etica che ai greci faceva qualche volta difetto. A questo punto, non so come si potrà più prestare attenzione ai fantocci di cartapesta che sono i protagonisti del teatro cosiddetto normale.

1 – Il canto della banchina descrive l’arrivo ad Auschwitz dei treni piombati e la successiva selezione dei prigionieri tra coloro che furono destinati alla morte immediata e quelli destinati al lager.
2 – Il canto del lager è la panoramica del campo, descritto tecnicamente nelle sue installazioni e dimensioni, con freddezza documentaristica.
3 – Il canto dell’altalena descrive alcune delle innumerevoli torture, tra cui quella del titolo, particolarmente crudele.
4 – Il canto della possibilità di sopravvivere descrive i meccanismi con cui ad alcuni era data possibilità di rimandare la propria morte, in cambio di un certo grado di collaborazione con i carnefici.
5 – Il canto della fine di Lili Tofler, unica tra le vittime a mantenere nel testo la propria identità, acquistando una valenza simbolica.
6 – Il canto del sottufficiale Stark descrive i crimini di questo militare, che partecipò alle selezioni, gassificazioni e fucilazioni, e il suo atteggiamento durante il processo, in cui rifiutò ogni critica al suo operato.
7 – Il canto della parete nera si riferisce al muro utilizzato per le fucilazioni.
8 – Il canto del fenolo descrive le sperimentazioni dolorosissime effettuate sui prigionieri e le iniezioni mortali di fenolo.
9 – Il canto del Bunkerblok descrive i canili utilizzati come celle di punizione, in cui i detenuti venivano rinchiusi fino alla morte.
10 – Il canto del Zyklon B descrive le camere a gas.
11 – Il canto dei forni descrive la cremazione dei cadaveri.

Chiunque pretenda di essere considerato uomo nel senso più completo della parola. ed essere civile non può rifiutarsi al dovere di assistere a questa forse tremenda ma del tutto esemplare celebrazione.

Peter Weiss

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