TAOISMO – Tao-te-ching

 

TAOISMO

Che cos’è il taoismo? Questo interrogativo era posto alcuni decenni fa da Herlee G. Creel, uno studioso americano di filosofia cinese che, in un suo mirabile saggio così intitolato, arrivava a concludere che con tale generico termine non si poteva definire tanto una singola scuola di pensiero quanto, invece, un complesso sistema di dottrine fiorite nell’antica Cina.
Generalmente gli specialisti distinguono un primitivo taoismo filosofico (tao-chia) da un successivo taoismo religioso (tao-chiao), quest’ultimo definito da Creel come taoismo hsien o taoismo dell’immortalità. Il primo, a detta della tradizione cinese, risalirebbe al VI-V secolo a.C., mentre il secondo sarebbe apparso qualche secolo più tardi.
Il taoismo prende il nome dal carattere cinese tao.
Ma se Creel si chiedeva che cosa fosse il taoismo, che cos’è prima di tutto il tao? Tao è un carattere cinese, composto graficamente dall’unione di due segni, uno dei quali significa “andare” e l’altro “testa”; è un carattere antico, ma non così antico come molti altri che risalgono al secondo millennio avanti l’era volgare; con valore di nome proprio è attestato per la prima volta su vasi sacrali di bronzo dell’inizio della terza dinastia cinese, i Chou (XI-III secolo a.C.).
Successivamente, in testi filosofico-letterari pre-taoisti, esso assume i significati di “via”, “strada”, “metodo”, “principio”, “mostrare la via”, “guidare”, “spiegare”, “parlare”.
Nei testi taoisti si parla ovviamente di tao; è il primo principio, il creatore dei diecimila esseri (wan-wu), uno solo dei quali è l’essere umano. Ma il tao, come avverte Lao-tzu nel Il libro della virtù e della via, non può essere definito. Se è vero che tao significa anche “spiegare” o “parlare”, è altrettanto vero che esso non può essere spiegato; la sua dottrina va insegnata e trasmessa “senza parole”, va intuita, pensata, meditata.
Molti secoli più tardi, quando nasce in Cina una scuola buddhista detta ch’an (o meditazione), che, successivamente, in Giappone sarà detta zen, il maestro, invece di spiegare cosa sia il Buddha ai discepoli, fa raggiungere loro l’illuminazione (wu, in giapponese satori) con una randellata o con un paradosso; si è parlato di influenza taoista sul buddhismo ch’an e, certamente, le due dottrine hanno in comune il fatto che entrambe rifiutavano alcune definizioni o spiegazioni ritenute non necessarie se non addirittura impossibili.

 

Il tao è anche una summa oppositorum, il punto o il momento in cui tutti i contrari si incontrano e si completano nella loro diversità; è l’insieme dell’essere e del non-essere, del principio maschile e di quello femminile, di luce e di ombra, di forza e di debolezza, di caldo e di freddo; è l’armonia di tutti i contrasti, di tutto ciò che si alterna, della vita e della morte, che anch’esse naturalmente si alternano. Guai a opporsi o a contrastare il tao. Guai a cercare di raggiungerlo con il ragionamento, con lo studio, con l’azione. La forza dell’acqua è nel suo scorrere passivo e inarrestabile; tale passività è, al tempo stesso, la debolezza e la forza dell’acqua. Occorre che ogni cosa segua il suo corso; ne deriva la necessità per l’uomo di non agire, non fare (wei wu wei) o, per meglio dire, agire senza agire, distaccandosi dal mondo contingente, di rinunziare a qualsiasi ambizione sia essa culturale o politica.
I maestri taoisti insegnavano a isolarsi dal mondo, a praticare l’ascetismo, a vivere come eremiti nei boschi o sulle montagne. Nella pratica questo ideale taoista di vita appartata rimaneva un sogno, tranne in pochi casi come quello del letterato poeta Tao Yuanming (365?-427) che si ritirò dalla vita pubblica per coltivare crisantemi e comporre poesie. Uno dei capiscuola taoisti, Chuang-tzu, aveva avvertito in uno dei suoi paradossi che il miglior modo per isolarsi era quello di “seppellirsi in mezzo al popolo”, e uno scrittore taoisteggiante del II secolo a.C., Tung-fang Shuo, altrettanto paradossalmente aveva affermato che il modo migliore per ritrovarsi soli era quello di confondersi alla folla di una corte. Il paradosso diventerà una maniera usuale di esprimersi dei taoisti; così Chuang-tzu poteva dire che “non c’è né la morte né la vita e, quindi, non muore colui il quale perde la vita e non vive chi preserva la vita”.
Il mitico fondatore del taoismo era ritenuto Lao-tzu, che si voleva essere vissuto fra il VI ed il V secolo a.C. Scarsi sono i dati biografici, che sconfinano spesso nell’agiografia e nel simbolismo, come, ad esempio, con la leggenda della lunga gestazione della madre, che lo avrebbe portato nel ventre per 81 anni, perché altrettanti sono i capitoli dell’opera a lui attribuita. I taoisti raccontavano anche di un suo incontro con il giovane Confucio, il quale, al cospetto del Vecchio Maestro, avrebbe fatto autocritica. Ma la leggenda più nota è quella riguardante Lao-tzu che, a cavallo di un bufalo, abbandona la Cina e si dirige verso occidente; a un passo di frontiera, su richiesta di un doganiere, avrebbe consegnato come retaggio il testo del suo libro.
Il libro, che intorno all’era volgare era noto in Cina con il nome del suo presunto autore, Lao-tzu, in età successiva prese il titolo di Tao-te-ching (o “Classico della Via e della Virtù”). Considerato come il primo testo classico taoista, esso forma, assieme ad altre due opere che parimenti traggono il titolo dai loro veri o presunti autori Chuang-tzu e Lieh-tzu, la triade dei libri del taoismo filosofico. La tradizione li voleva composti in questo ordine cronologico, ma un esame filologico linguistico colloca come opera più antica quella di Chuang-tzu e come opera seconda il Tao-te-ching. Mentre i Chuang-tzu e il Lieh-tzu, analogamente a opere filosofiche di altra scuola, sono raccolte di aneddoti, apologhi, discussioni, l’opera attribuita a Lao-tzu ha un carattere più unitario. È un testo abbastanza breve, composto da poco più di cinquemila caratteri, redatto in forma spesso allusiva e, per certi aspetti, di non immediata comprensione.
Le edizioni sinora note di tale opera erano state più volte commentate dal III secolo a.C. sino all’età moderna; si conoscono addirittura oltre 200 commenti, il che ci dimostra la difficoltà di interpretare un testo spesso fin troppo oscuro. AI tempo stesso è sicuramente l’opera cinese più tradotta in quasi tutte le lingue occidentali. Gli 81 capitoli in cui si articolava erano distribuiti in due sezioni, quella appunto che si riferiva alla Via (Tao) e quella della Virtù (Te).
Tutte le edizioni cinesi e tutte le traduzioni seguivano tale ordine dei capitoli. Nel 1973, in occasione di scavi archeologici che portarono alla luce alcune tombe della dinastia Han nei pressi della località di Ma-wang-tui (vicino a Ch’angsha, nella provincia dello Hunan), furono ritrovati manoscritti taoisti vergati a inchiostro su seta. Fra essi c’erano due versioni del testo ancora intitolato Lao-tzu. Altri manoscritti, tutti racchiusi in una cassa di legno laccato, comprendevano testi astrologici, geografici, storici, medici, filosofici. In un documento ritrovato nella tomba n. 3 era scritto che la tomba era stata scavata nel 12° anno dell’era Chien-yuan corrispondente al nostro 168 a.C., durante il regno dell’imperatore Wen della dinastia degli Han Anteriori. Le due versioni sono redatte in diverso stile calligrafico: la prima è scritta in “piccoli caratteri” (hsiao-chuan) su seta molto rovinata, copiata, a detta degli specialisti cinesi, poco prima del 206 a.C., l’anno di inizio della dinastia; la seconda è scritta nella “grafia degli scribi” (li-shu); è meglio conservata e comprende 5.467 caratteri, ovvero 467 parole in più del testo tradizionale; sarebbe stata copiata all’inizio della dinastia Han, durante il regno dell’imperatore Kao-tsu (206-195 a.C.).