ROCK ANNI ’60

The Who

ROCK ANNI ’60

Da terra di conquista a centro mondiale di produzione di musica: si potrebbe sintetizzare in questi termini lo straordinario sviluppo artistico e industriale verificatosi in Gran Bretagna nel corso degli anni Sessanta, di tale portata da riuscire non soltanto a capovolgere i tradizionali equilibri internazionali della musica leggera (usiamo il termine in senso lato) ma anche a portare a immensa notorietà una serie di protagonisti la cui risonanza, vent’anni dopo, resiste all’usura del tempo. Il terremoto musicale registrato tra il 1963 e il ’65 (ascesa e riconoscimento internazionale del beat inglese) e le scosse sismiche succedutesi fino alla fine del decennio (affermazione delle varie correnti del rock britannico) riscontravano per di più un’incidenza su fenomeni di costume, se non addirittura culturali e politici (e anche, da un altro punto di vista, assimilandoli e riflettendoli) tanto rilevante da creare all’epoca in molti – anche insospettabili – osservatori l’impressione di assistere a una svolta irreversibile. Una parziale smentita sarebbe giunta negli anni Settanta, che avrebbe gettato acqua sul fuoco di questi entusiasmi, contribuendo a un ridimensionamento e a una più sobria maturazione, ma anche facendo spazio a tendenze restauratrici, almeno fino alla repentina esplosione delle correnti punk e new wave. D’altro canto, la sopravvivenza di alcuni miti di quel fervido decennio mostra quale influenza esso abbia avuto sulla mentalità di più generazioni.
Nasce ad esempio in quel periodo – almeno in Europa, poiché dagli USA ne erano già giunte le avvisaglie – la concezione che pone la musica al centro della vita sociale dei giovani, con funzione aggregativa e ricreativa ma anche come punto di riferimento alla loro problematica esistenziale e come preciso segnale di separazione dal mondo degli adulti. Tale musica, nelle sue varie espressioni, viene assunta dalle nuove generazioni come di propria esclusiva appartenenza, nell’illusione che non si tratti di un prodotto di consumo finalizzato alle esigenze del profitto. Parallelamente, essa viene intesa come linguaggio istintivo e disinibito, sicché nell’interpretazione critica si utilizzano parametri quali la capacità comunicativa e l’immediatezza, in contrasto con quelli tecnici e strutturali impiegati nei riguardi di forme musicali fondate su un complesso intreccio di tradizioni culturali. Da ciò consegue l’impressione d’una piena disponibilità della “musica giovane ” non soltanto alla fruizione meramente intuitiva, ma anche alla possibilità d’impossessarsene con assoluta facilità per diventarne interpreti e creatori.

Il boom del rock negli anni Sessanta, attraverso tutto l’Occidente, con la Gran Bretagna quale principale produttore (superando persino gli Stati Uniti, dove si trovano le origini di questa musica), ha alla base alcune cause obiettive. Fondamentale, particolarmente nei paesi europei duramente provati dall’immane tragedia della seconda guerra mondiale, l’aspetto demografico: il forte incremento delle nascite verificatosi nell’immediato dopoguerra porta alla ribalta, sconvolgendo l’abituale distribuzione delle classi d’età, una generazione di giovani numericamente consistente, proporzionalmente più acculturata e dotata globalmente d’un forte potere d’acquisto. Il benessere diffuso dallo sviluppo industriale e tecnologico stimola i consumi e facilita l’espansione degli investimenti nel tempo libero (sport, spettacolo, cultura), favorita altresì dalla relativa serenità ingenerata dall’aifievolirsi delle tensioni internazionali con la conclusione del periodo della guerra fredda. Se queste considerazioni sono valide per la maggior parte delle nazioni occidentali nella prima metà dei Sessanta, l’emergenza della Gran Bretagna come “potenza musicale” va collegata a condizioni particolari. In una situazione in cui la musica americana, nelle sue varie correnti, dalla canzone al jazz, esercita und vasta influenza commerciale, l’omogeneità linguistica consente da una parte un’incontrastabile penetrazione oltre Manica, ma, dall’altra, una diretta accessibilità alle fonti da parte degli operatori britannici.

Il 1956 è un anno chiave per la com-prensione di ciò che avverrà a partire dalla fine del 1962. Sull’onda dell’affermazione del classico Rock Around The Clock di Bill Haley, s’imponeva su larga scala il rock’n’roll con Haley, Elvis Presley, Little Richard, Freddie Bell, e a questa imprevista novità americana l’industria discografica inglese reagiva prontamente, seppur debolmente, lanciando analoghi artisti locali come Gene Vincent e Tommy Steele. Ma, ancor più importante, sempre nel ’56, risulta il forte impatto commerciale con cui si presenta Lonnie Donegan, un cantante-chitarrista britannico proveniente dalle fila del “trad jazz”, il quale propone al pubblico insulare, con ingenuo entusiasmo, un repertorio di folk e blues statunitense dando origine – insieme al meno conosciuto Ken Colyer – allo stile “skiffle”, basato sulla rielaborazione di canzoni popolari (non solo americane, ma anche britanniche) con strumentazioni semplici e colorite: chitarre acustiche, contrabbasso, percussioni improvvisate.

Non a caso, mentre ai più o meno convincenti cantanti rock inglesi cui le case discografiche offrono spazio per adeguarsi alla nuova tendenza (Cliff Richard, Terry Dene, Johnny Kidd, Adam Faith, Billy Fury ecc.) non arride alcun successo internazionale, sarò Donegan a conseguire, con un paio di hits, una posizione di prestigio negli USA, anche se va riconosciuta l’ampia risonanza ottenuta, soprattutto sul continente europeo, dagli Shadows, il gruppo strumentale abituale accompagnatore di Cliff Richard.

Beatles

All’inizio degli anni Sessanta, di fronte al calo d’interesse per lo “skiffle” non sembra poter emergere alcuna corrente locale in grado di competere con la produzione d’oltre Oceano che, affiancando (o sostituendo) al rock’n’roll altre danze, come il twist, e un fortunato repertorio di pop songs, attira quasi in esclusiva l’attenzione dei giovani britannici. Né risulta che l’industria discografica, paga d’una rassicurante routine, se ne desse troppo pensiero, come testimoniano gli esiti negativi di diversi provini cui vennero sottoposti nel corso del 1962 da alcune importanti case, su pressione del loro manager Brian Epstein, i Beatles. Ma finalmente approvati da George Martin della Parlophone, i quattro di Liverpool entravano in classifica nel dicembre di quell’anno con il primo 45 giri da loro realizzato in Inghilterra, Love Me Do. Il disco non fece grande sensazione, raggiungendo soltanto il 17° posto, ma significò l’inizio d’una nuova era.

La svolta si materializzava già nel febbraio del ’63, con il primo grande hit dei Beatles, Please Please Me: la nuova moda musicale veniva battezzata “Mersey Sound”, o “Mersey Beat”, dal nome del fiume che attraversa Liverpool, città da cui le etichette Columbia e Parlophone (entrambe legate alla EMI) attingevano altri artisti di grande successo, quali Gerry & The Pacemakers, Billy J. Kramer & The Dakotas, Cilla Black, mentre altri gruppi di diversa provenienza (Freddie & The Dreamers, Brian Poole & The Tremeloes, Searchers) si inserivano nella corrente. La quale, in sé, non aveva grande valore: interpretazioni fresche, strumentazioni spigliate, gusto melodico non banale e l’aspetto giovanile, un po’ anticonformista seppur provinciale, degli artisti. Tanto bastava però a farne la tendenza di punta del mercato discografico britannico del 1963; ma verso la fine dell’anno già si capiva cosa bolliva in pentola. La personalità, le doti musicali, l’abbigliamento curato, i capelli lunghi (per l’epoca) dei Beatles li staccavano nettamente dagli altri gruppi: le folle di ragazzine osannanti che li seguivano dovunque attiravano l’attenzione della stampa quotidiana. Esplodeva la Beatlemania. Intanto, nel dicembre del ’63, si segnalava, presentando su 45 giri con buon esito un brano firmato da John Lennon e Paul McCartney, I Wanna Be Your Man, un gruppo nato nei sobborghi di Londra, dall’immagine opposta a quella dei Beatles, scostante e beffarda, i Rolling Stones.

Per meglio comprendere l’ormai rapido susseguirsi degli avvenimenti, occorrono alcune considerazioni sul costume e la musica. Ai fanatici hard-core del rock’n’roll, i “rockers”, giacche di pelle e motociclette di grossa cilindrata, si contrappongono ora i “mods”, nuova generazione di fans in scooter e abiti di taglio europeo, che prediligono il rhythm & blues e adottano un proprio slang. Le differenze tra le due mode sono tali che gli schieramenti rivali si confrontano persino in scontri violenti. Musicalmente, i rockers appaiono perdenti: alla loro idolatria per i grandi esponenti del rock’n’roll americano, i musicisti britannici emergenti preferiscono un approccio più approfondito. Tutti attingono ancora ispirazione dalla musica degli USA, ma l’attenzione – fermo restando il rispetto per protagonisti – quali Buddy Holly ed Eddie Cochran – va principalmente alle radici nero-americane, il rhythm & blues degli Stati del Sud e della California, il nuovo pop di Detroit (Tamla—Motown), il blues urbano di Chicago. È una massa di espressioni musicali del tutto ignote al grande pubblico d’oltre Manica, che resta affascinato dalla loro riproposizione da parte dei nuovi gruppi.
Il 1964 vede la predominanza di due complessi di respiro storico (oggi lo si può affermare): i Beatles e i Rolling Stones. Senza nulla voler sottrarre alle loro intrinseche doti di creatività e originalità, va ricordato che inizialmente i rispettivi stili derivavano da modelli d’oltre Atlantico: ad esempio Everly Brothers e Miracles, per i primi, e Muddy Waters e i Drifters, per i secondi; in comune, la passione per artisti come Chuck Berry e Buddy Holly. Sulle loro orme, sia pur con distinte personalità, si affermano nuove formazioni – Animals, Manfred Mann, Pretty Things, Zombies, Kinks – che per aggressività e inventiva hanno buon gioco a eclissare gli ultimi residui dello sdolcinato “Mersey Sound”. Ma, di primaria importanza nello stesso anno, è il successo trionfale che i Beatles – ancora una spanna sopra tutti gli altri gruppi per la capacità di proporre proprie indovinatissime composizioni (I Want To Hold Your Hand, Can’t Buy Me Love, A Hard Day’s Night, I Feel Fine) – riscuotono in America. Ad approfittare dell’occasione sono dapprima complessi destinati all’oscuritò, come Dave Clark Five e Herman’s Hermits: poi si aprono le porte a una vera e propria invasione di musica pop inglese, dagli Stones a Petula Clark.

Sempre in quell’eccitante ’64, in marzo, comincia le sue emissioni la prima radio pirata d’Europa, Radio Caroline, da una nave ormeggiata presso l’estuario del Tamigi: ad essa si affiancano poi varie concorrenti (Radio London, Radio England ecc.): fino al ’67, anno della definitiva messa fuori legge, avrebbero dato enorme impulso alla diffusione della musica pop/rock nelle sue varie forme, rimediando alla miopia della BBC nei confronti delle nuove esigenze del pubblico. Un pubblico che è ormai quello della leggendaria Swinging London, dove, tra minigonne, stivaletti, Carnaby Street e King’s Road, una gioventù bizzarra, anticonformista, assetata di novità, fa della capitale inglese non soltanto il centro della produzione musicale del mondo ma anche la sorgente delle nuove mode, consumistiche o intellettuali.

Nel 1965 debuttano altri complessi di grande rilievo: Yardbirds, Moody Blues, Them, e soprattutto i giovanissimi Who, eroi dei mods, che negli anni Settanta contenderanno agli Stones il titolo di massima rock band del mondo. Gli USA hanno peraltro dato il via a una reazione nei confronti dell’invadenza britannica, e il folk revival di Joan Baez e Bob Dylan trova vasto seguito in Europa: prontamente, l’ormai scaltra industria discografica britannica controbatte lanciando Donovan, lirico folk-singer scozzese.

Donovan

I successi discografici del 1966 mostrano che il pop inglese ha ancora molte carte da giocare: viene confermata la popolarità dei principali gruppi emersi negli anni precedenti – salvo per quelli scioltisi prematuramente, come Animals e Them – ai quali si affiancano esordienti come gli Small Faces, nuovi beniamini dei mods, i Troggs, lontani precursori del punk, e lo Spencer Davis Group, saldamente radicato alla tradizione rhythm.& blues. Ma il 1966 è an- che l’anno in cui i Beatles, firmando Revolver, rivelano che l’espressione rock può trovare più consistente e ragionata collocazione nel formato del disco LP: superando i limiti del 45 giri da classifica, nell’album danno spazio a ricerche musicali e a riferimenti culturali (dal sitar indiano alla musica classica, dall’elettronica al blues, da Timothy Leary alla fantascienza). Da questo momento i Beatles assumono il ruolo di divulgatori della cultura underground, scatenando, grazie alla loro enorme notorietà, una reazione a catena tra il pubblico e i produttori di musica. All’impegno politico, antirazzista e pacifista proposto negli States dalla Baez e da Dylan (la cui produzione discografica s’impernia sugli LP), si aggiunge oltre Manica la scoperta della pop art, dell’Oriente, delle droghe allucinogene: un bagaglio di conoscenze che, anche per mezzo della musica, viene trasformato in consumo di massa.
Nel 1967 furoreggia la moda del flower power e hippies, veri o presunti, spuntano d’ogni dove su entrambe le sponde dell’Atlantico: il rock s’adegua prontamente, secondo le indicazioni di Beatles e Rolling Stones, adottando testi surreali ed effetti sonori inauditi per diventare “psichedelico”. Escono alla ribalta formazioni nuove, destinate a passare alla storia: Jimi Hendrix Experience, Pink Floyd, Cream, Move, Procol Harum, Traffic, Bee Gees, tutte, sia pur con approcci molto differenti, sull’onda di quella che appare come una rivoluzione della vita sociale.

Celebre edizione dei Bluesbreakers di John Mayall con Eric Clapton, John McVie e Hughie Flint

Ma ha quest’epoca si consolidano tre principali correnti del rock inglese che vedono nell’LP il mezzo d‘espressione preferito, se non esclusivo. Quella di più antica origine è il “blues revival”. Grazie ad intraprendenti pionieri, primi fra tutti Alexis Korner e Cyril Davies, già dalla fine degli anni Cinquanta si erano propagate varie formazioni ispirate al blues, e specialmente alla scuola di Chicago. Da questo ambiente provenivano i Rolling Stones, e vi fecero la gavetta musicisti destinati a fama internazionale quali Jack Bruce, Ginger Baker, Paul Jones, Georgie Fame, Nicky Hopkins, Eric Clapton, John McLaughlin, Chris Farlowe. Verso la metà degli anni Sessanta, principalmente per merito del vasto seguito con-seguito, attraverso la loro attività live, dai Bluesbreakers di John Mayall, si comincia a parlare di una corrente blues britannica anche sotto un profilo di riscontro commerciale. Gli album dei Bluesbreakers vanno in classifica e di colpo le case discografiche offrono spazio a esperimenti analoghi: se ne avvantaggiano soprattutto gruppi giovani ed agguerriti come Fleetwood Mac, Chicken Shack, Ten Years After, Savoy Brown, a scapito di sottovalutati protagonisti della tendenza quali Graham Bond e lo stesso Korner. Negli anni ’70, dissoltosi il richiamo discografico del blues revival, la maggior parte di questi musicisti rientrerà nell’ambito del rock.
Molto solida l’affermazione del “folk-rock”, singolare mescolanza di strumentazioni elettriche e repertorio popolare tradizionale che dà esiti molto diversi rispetto all’analoga corrente statunitense. Il folk-rock britannico e molto culturalizzato, talora eccentrico, capace di fondere  ricerca ed originalità espressiva, a differenza di quello americano, più proteso verso soluzioni di consumo (senza nulla voler togliere alla validità di proposte come quelle dei Byrds, Lovin’ Spoonful o Buffalo Springfield). Risultò anche più longevo, giacché durava ancora negli anni Settanta la risonanza ottenuta da gruppi storici della corrente, soprattutto i popolarissimi Fairport Convention e Steeleye Sport e i nobili Pentangle, gruppo d’eccezionale livello che resta, nonostante il suo prematuro scioglimento nel ’72; dopo meno di cinque anni d’attività, una delle pietre miliari della storia ventennale della musica pop/rock britannica.
Molto legato agli avvenimenti dell‘epoca, il rock psichedelico ebbe vita breve seppur pirotecnica. Trampolino di lancio ne fu, nel ’67, la Roundhouse U.F.O. a Londra, che si affiancò al Marquee Club di Wardour Street, più incline a ospitare gruppi rock-blues, come locale per i conoscitori. In pochi mesi di attività, l’U.F.O., centro del “flower power” (gli stessi Beatles comparivano tra il pubblico), portò in primo piano i Pink Floyd (la cui carriera, dopo la separazione da Syd Barrett, avrebbe conosciuto un’impressionante ascesa, attraverso i flirt con la musica elettronica e sinfonica fino al riavvicinamento al rock) e i Soft Machine (indirizzati in seguito verso il jazz-rock) oltre a vari altri complessi d’effimera popolarità, Crazy World Of Arthur Brown, Tomorrow, John’s Children. La fugace stagione del rock psichedelico lasciava tracce indelebili poiché da essa sortivano i connotati dello spettacolo rock degli anni a venire, attraverso l’impiego di luci stroboscopiche, proiezioni di filmati e diapositive, sonorità distorte e filtrate, strumenti elettronici.

Tra il 1967 e il 1968 si verifica una prima stratificazione del pubblico: da una parte quello più giovane che insegue i futili divismi (Had, Amen Corner, Love Affair), dall‘altra quello più maturo che si butta sul repertorio cosiddetto “ progressive”, il rock impegnato, che può basarsi anche sulla voce squisita di Julie Driscoll (con Brian Auger & The Trinity) o su quella roca e sofferta di Joe Cocker. Se a questi tocca anche il successo a 45 giri, vi sono artisti che ormai lavorano quasi soltanto per il mercato degli LP: gli splendidi Traffic di Steve Winwood (ex Spencer Davis Group), i Jethro Tull di Ian Anderson, passati dai riferimenti blues e jazz delle origini a un taglio decisamente personale, i geniali Family guidati dalla voce tagliente di Roger Chapman, gli eccentrici King Crimson di Robert Fripp, i Nice che si cimentano con il rock “sinfonico” (effettivamente adattando pezzi di musica classica) e che influenzano le prime prove degli Yes, e ancora i Genesis, gli Humble Pie, a metà strada tra vaghezze acustiche e rock grintoso (poi prevarrà la seconda direzione), i Moody Blues che rinascono all’insegna di arrangiamenti elaborati con utilizzo di tastiere elettroniche.

Una strada del tutto particolare è quella seguita dall’lncredible String Band di Robin Williamson e Mike Heron, che, tra folk e psichedelia, dal ’67 ai primi anni Settanta proposero una singolare fusione di strumentazioni esotiche e sperimentazioni sonore, per poi cadere in stanche divagazioni.

Mentre, il “progressive rock” sembrava affermarsi come la musica degli anni Settanta (ma le cose non sarebbero andate così, anche se la new wave dovrà poi fare qualche conto con questa eredità), altri gruppi di minori ambizioni preparavano il terreno a una reazione all’intellettualismo musicale. Veramente, precursori come il Jeff Beck Group e, ancora più chiaramente, i Deep Purple e i Led Zeppelin, avevano amoreggiato con le tendenze “progressive”, traendo proficua esperienza da un apprendistato imperniato sulla versatilità, almeno su disco. Ma dal vivo, gradualmente, è lo stesso contatto con il pubblico a scatenare l’aggressività e l’emotività più epidermica. Formati dal chitarrista Jimmy Page, un veterano del blues-rock nonché quotato session-man ed ex componente degli Yardbirds, i Led Zeppelin, dopo pochi mesi di rodaggio, sfondarono sul mercato americano alla fine del ’68: a loro si rifà idealmente tutta la corrente – ancora molto seguita – detta “hard rock” o “heavy metal“. I Deep Purple, reduci da pretenziosi accostamenti alla musica sinfonica, seguono a ruota conquistando larga e duratura fama con un rock violento ma cronometrico. E subito dopo arrivano i più morbidi Free e gli angosciosi Black Sabbath, che portano nel rock i brividi fasulli dei film dell’orrore.
La fine degli anni Sessanta segna così, per la prima volta, una netta dicotomia all’interno del pubblica del rock. Le varie correnti, in precedenza, avevano potuto convivere e addirittura alimentarsi a vicenda, poiché si rivolgevano fondamentalmente agli stessi ascoltatori. Figure carismatiche come Bob Dylan, Beatles e Rolling Stones funzionavano da catalizzatori e unificatori delle varie tendenze. È soprattutto lo scioglimento dei Beatles, nel 1970 (mentre Dylan si è autoesiliato e i Rolling Stones si riprendono dai drammi della morte di Brian Jones e del sanguinoso epilogo del Concerto di Altamont), a indicare, e in parte a provocare, il mutamento. Il “ progressive “. dopo le glorie iniziali, dovrà ricorrere per sopravvivere, alla teatralità, al virtuosismo, al culto dell’immagine, allontanandosi così sempre più da un pubblico che alla lunga sa scoprire i trucchi; lo “hard” sarà condannato a copiare se stesso, senza poter accogliere spunti innovativi. Cosi nella seconda metà degli anni Settanta avranno gioco facile prima la vacuità della disco music, poi l’iconoclastia del punk; ma qualche vecchio leone, lo constatiamo ogni giorno, si dimostrerà sempre in grado di allungare potenti zampata.

Led Zeppelin

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