NICCOLÒ MACHIAVELLI
IL PRINCIPE
Capitolo XXIV: “Per qual cagione li principi di Italia hanno perso li stati loro”
In questo brano sono presenti alcuni dei concetti più importanti del pensiero del Machiavelli: l’esaltazione della virtù, la critica della vigliaccheria, la spietata sincerità dell’analisi della realtà umana, la necessità di risolvere i problemi non quando la situazione è diventata disperata, ma quando ancora tutto scorre normalmente.
Le parole dello scrittore mettono duramente a fuoco i difetti dei signori italiani che, come Ludovico il Moro o Federico d’Aragona, hanno pensato di poter migliorare la loro situazione con l’aiuto di sovrani ed eserciti stranieri, pronti ad approfittare degli errori commessi per incapacità ed ignoranza.
“…È se si considererà quelli signori che in Italia hanno perduto lo stato a’ nostri tempi, come il re di Napoli (Federigo d’Aragona. Perse il regno ad opera di Ferdinando il Cattolico e Luigi XII, nel 1503), duca di Milano (Ludovico il Moro, perse il ducato ad opera di Luigi XII nel 1499) et altri, si troverà in loro prima uno Comune difetto quanto alle arme, per le cagioni che di sopra si sono discorse (1); di poi si vedrà alcuno di loro, o che arà avuto inimici e’ populi, o, se arà avuto el populo amico, non si sarà saputo assicurare de’ grandi (2): perché, sanza questi defetti, non si perdono li stati che abbino tanto nervo, che possino trarre uno esercito alla campagna (3). Filippo Macedone, non il padre di Alessandro, ma quello che fu vinto da Tito Quinto (4), aveva non molto stato (stato piccolo), respetto alla grandezza de’ Romani e di Grecia che lo assaltò: non di manco, per essere uomo militare e che sapeva intrattenere el populo et assicurarsi de’ grandi, sostenne più anni la guerra contro a quelli; e, se alla fine perdé el dominio di qualche città, li rimase non di manco el regno.
Pertanto questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo di poi perso non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non avendo mai, ne’ tempi quieti, pensato che possono mutarsi (il che è comune defetto delli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta), quando poi vennono e’ tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a defendersi; e sperorono ch’e’ populi, infastiditi dalla insolenzia de’ vincitori, li richiamassino. Il quale partito, quando mancano li altri, è buono; ma è bene male avere lasciatili altri remedi per quello (5): perché non si vorrebbe mai cadere per credere di trovare chi ti ricolga (6); il che o non avviene, o, s’elli avviene, non è con tua sicurtà, per essere quella difesa suta vile e non dipendere da te (7). E quelle difese solamente sono buone, sono certe, sono durabili, che dipendono da te proprio e dalla virtù tua.
(1) nei capitoli dedicati alle caratteristiche negative delle truppe mercenarie, e alla pazzia di un principe che chiami sul proprio territorio eserciti di un vicino potente, come alleati.
(2) assicurarsi l’appoggio dei potenti
(3) che abbiano tanto nerbo da poter mettere in campo un esercito.
(4) è Filippo V di Macedonia, battuto nel 197 a. C. da Quinzio Flaminio.
(5) ma è certamente un male aver trascurato le altre possibilità, facendo affidamento su quella.
(6) non si dovrebbe mai cadere fidando, sul fatto di trovare qualcuno che ti raccolga e aiuti.
(7) per essere quella “difesa” (quell’aiuto) stata originata dalla viltà, e per non essere in tuo potere averla o no (suta = stata)
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