IL BRIGANTE MUSOLINO, PAPÀ DELLA ‘NDRANGHETA

Giuseppe Musolino, conosciuto come U re dell’Asprumunti (il Re dell’Aspromonte), o meglio ancora come il brigante Musolino (Santo Stefano in Aspromonte, 24 settembre 1874 – Reggio Calabria, 22 gennaio 1956).
Gli storici lo considerano il papà della ‘ndrangheta, la mafia calabrese, e dicono che è stato il primo a imboccare quella via, lastricata di sequestri, taglieggiamenti e omicidi, che adesso è diventata l’autostrada del crimine dei più temuti boss della piana di Gioia Tauro.

Ma la gente dell’Aspromonte rifiuta di credere a queste storie, e lo definisce semplicemente “un uomo d’onore”.
“Giuseppe Musolino?”…. brontolano i compaesani. “Ha ammazzato sette persone e ne ha ferite altrettante, ma non era cattivo. Ha dovuto imbracciare la lupara per non perdere la faccia che, da noi, è un bene prezioso quanto la vita. Gli avevano fatto uno sgarbo…”
C’è chi lo venera come si venerano i santi, e chi si preoccupa di non far mai mancare fiori freschi sulla sua tomba.
“Sono soprattutto le donne a portarglieli , dice il custode del cimitero dov’è sepolto, alimentando la sua fama di bandito rubacuori. ” Vengono da tutti i paesi del circondario e sono le nipoti di quelle ragazze che, quando lui era latitante, cantavano:
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“Si Musolino sopra la montagna 
pi sorta qualche volta ‘ncuntraria 
sento sarria più bella la campagna 
e ci vurria donà l’anima mia…”.
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Sulle montagne dai mille segreti

Benché siano passati circa sessant’anni dalla sua morte, il mito di Giuseppe Musolino continua a resistere inalterato su queste montagne dai mille segreti, da sempre prigione di sequestrati e rifugio di sequestratori. Non c’è picciotto che non si sia sentito raccontare le sue gesta decine di volte, o che non abbia ascoltato le ballate che gli hanno dedicato i più famosi cantastorie, da Orazio Strano a Otello Profazio.
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Alto, magro, con l’aria sofferta da intellettuale impegnato (da vecchio gli trovarono perfino una vaga somiglianza con Pirandello, per via del pizzetto candido e delle folte sopracciglia bianche), Musolino si vantava di discendere da una famiglia di nobile lignaggio francese. In realtà (a parte la “o” tronca del cognome della madre, che si chiamava Filastò), era calabrese puro sangue e si guadagnava da vivere facendo il “segantino”, cioè maneggiando la scure nei boschi.
Suo padre gestiva l’unica osteria di Santo Stefano d’Aspromonte, il paese in cui lui era nato nel 1874. Fu proprio in quel luogo che, nel 1897, cominciarono le sue disavventure.
Era una afosa serata di fine agosto e Giuseppe, che stava tornando dai campi, venne invitato a giocare a carte da alcuni conoscenti. Benché la posta fosse fissata in dieci lire, Musolino iniziò distrattamente. Perse la prima mano, poi la seconda. Dopo 10 minuti era già “sotto” di cento lire, una fortuna per quell’epoca.
Allora prestò più attenzione al gioco e, quando scoprì che i compagni stavano barando, si alzò gettando le carte sul tavolo.
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“Non vorrai mica accusarci di averti truffato” gli urlo minaccioso un certo Vincenzo Zoccali, facendo seguire alle parole un tremendo ceffone. Toccandosi la guancia arrossata, Musolino indietreggiò:
“Sei un ladro” disse e mise mano al coltello, che portava sempre con sé, costringendo l’avversario ad andarsene precipitosamente.
“D’ora in avanti guardati le spalle, perché quella carogna tornerà a cercarti” sentenziò un vecchio che aveva assistito alla scena.
Due mesi dopo la previsione si avverò. Giuseppe fu aggredito dal rivale e venne ferito gravemente alle mani a colpi di “perciabarba”, il micidiale pugnale adoperato dai briganti.
“Se non muoio saprò vendicarmi” si limitò a commentare.
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Tradito dalla nostalgia di casa

F. Manara ricostruì così l’arresto del brigante Musolino,
avvenuto il 9 ottobre del 1901
Di solito la vendetta è un piatto che si consuma freddo, ma stavolta passarono solo due giorni e Vincenzo Zoccali cadde in un’imboscata. Qualcuno gli sparò a tradimento senza colpirlo e la colpa venne attribuita a Musolino. I carabinieri cominciarono a dargli la caccia, ma lui era troppo pratico di quelle montagne e riuscì a filarsela. La nostalgia di casa, però, non gli dava tregua e una sera commise l’imprudenza di scendere a valle per fare visita alla vecchia zia che adorava. Cosi fu catturato.
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Al processo protestò la propria innocenza e si scagliò contro i testimoni dell’accusa, ma non fu creduto e, alla fine, venne condannato a 21 anni di reclusione.
“Ventun anni ho avuto” tuonò da dietro le sbarre rivolgendosi al rivale” ma ricordati, o Zoccali, che quando uscirò ti mangerò il cuore. E se sposerai, e se avrai dei figli, mi mangerò anche la carne dei tuoi figli”.
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Le autorità lo mandarono al carcere di Gerace, ma lui aveva già un piano per evadere. Per 8 giorni scavò un foro nel muro della cella e, all’alba del 9 gennaio 1899, si calò attraverso l’apertura con le lenzuola annodate. Cinque ore dopo, quando la fuga venne scoperta, aveva già riguadagnato l’Aspromonte. Lì diede subito inizio alle proprie vendette.
Poiché Vincenzo Zoccali, terrorizzato, era sparito dalla circolazione, prese di mira tutti coloro che lo avevano aiutato. Ferì Stefano Crea (che aveva tenuto bordone allo Zoccali testimoniando contro di lui) e ammazzò la sua donna, Francesca Sibari. Poi sparò a Stefano Zerilli, Nicola Romeo, Pasquale Saraceno e Carmine D’Agostino.
Il 7 agosto, uccise Stefano Zoccali, poi ”giustiziò” Pasquale Marte, infine, andò a cercare Alessio Chirigò, la guardia giurata che lo aveva arrestato. Lo sorprese mentre passeggiava col figlioletto.
“Preparati a morire” gli disse e premette il grilletto. Nel giro di poche settimane le sue vittime salirono a sei e, di conseguenza, sali anche la taglia.
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Brigante rubacuori

Il brigante Musolino – Amedeo Nazzari 
I giornalisti iniziarono a narrare le sue gesta. Quando un avventuroso reporter del Secolo lo intervistò nel suo rifugio segreto, attribuendogli la frase:
“Sono nato per uccidere i malvagi e ”amare le donne”, l’ufficio postale di Santo Stefano d’Aspromonte fu sommerso da una valanga dl lettere profumate. Nacque cosi la sua fama di brigante rubacuori e qualcuno gli attribuì perfino un flirt con la principessa Luisa di Sassonia.
In realtà, Musolino aveva amori molto più proletari. Fedele a quel proverbio che dice “Donne e buoi dei paesi tuoi”, si divideva equamente fra tre contadine della zona.
Seguendo la sorella Ippolita, che andava a portargli i rifornimenti, gli investigatori individuarono il suo rifugio.
Per evitare uno scontro a fuoco, il delegato di polizia Umberto Wenzel provò a tendergli una trappola. Convinse uno dei suoi gregari, tale Antonio Princi, a mettergli una manciata di oppio nei maccheroni per prenderlo nel sonno.
Ma qualcosa nel piano non funzionò, qualcuno, forse, sbagliò, e Musolino – che era sveglissimo – fuggì guadando a nuoto un torrente, dopo aver assassinato il carabiniere Pietro Ritrovato.
Da quel giorno, sequestri ed estorsioni si infittirono, tanto che il governo fu costretto a mandare un contingente di 1.000 uomini per dargli la caccia.
Quando si rese conto che l’aria stava facendosi irrespirabile, Musolino prese la decisione che doveva essergli fatale.
Partì per Urbino e da li spedì una lettera al fratello Antonio invitandolo ad accendere, a suo nome, un cero alla Madonna. Ma ormai neanche un miracolo avrebbe potuto salvarlo.
Il 9 ottobre del 1901, infatti, incappò in un posto di blocco dei carabinieri dalle parti di Acqualagna. La notizia della sua cattura destò ovunque notevole scalpore.
Una ragazza di Reggio Calabria, Caterina Arrigò, impazzì di dolore. Nel delirio, diceva che Giuseppe era suo marito, e giurava che sarebbe andata a liberarlo con un manipolo di picciotti.
Il processo fu celebrato a Lucca per “legittima suspicione” e durò due mesi, dal 15 aprile al 15 giugno 1902.
Musolino, che Cesare Lombroso aveva definito “delinquente nato e folle di eccezionale intelligenza”, non disilluse le proprie ammiratrici. Destò sensazione rifiutando di presentarsi in aula con la casacca a strisce (“Non sono un brigante” disse, “ma un buono che si è fatto giustizia da solo”) e contestò apertamente i giudici e quegli “spergiuri” che lo avevano fatto condannare la prima volta.
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Il carcere-manicomio e la morte

Giuseppe Musolino, negli ultimi anni della sua vita
Malgrado la sua appassionata autodifesa, venne condannato all’ergastolo, da scontare a Portolongone. Qui imparò a leggere e a scrivere (aveva frequentato solo la seconda elementare), ma, col passare del tempo, le sue condizioni mentali si aggravarono e cominciò a proclamarsi “Signore dell’universo”.
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“Credi in Dio?” gli chiese un giornalista.
“Ci mancherebbe altro” rispose. “E io chi sono?”.
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Passava le giornate riempiendo quadernetti di appunti incomprensibili e parlava di strane costruzioni che chiamava “le mie navi alate”, con le quali si proponeva di bombardare i nemici, una volta fuori da lì.

A 69 anni, vecchio e malato, venne graziato dall’allora ministro della giustizia Palmiro Togliatti e fu “spedito” al manicomio di Reggio Calabria. Qui fu raggiunto dalla notizia che Amedeo Nazzari avrebbe interpretato un film sulla sua vita. Ma ormai più nulla poteva scuoterlo e, nel 1956, morì senza poter rivedere il suo paese.

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ADALGISA MIA!

Ovvero
Gli amori del bandito Musolino
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Non più l’imprese mie voglio narrare
solo rammenterò, il mio primo amore.
Dal dì che io la venni abbandonare
resto colpito il misero mio cuore.
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Passò le notti e i giorni alla foresta
fra la pianura, il monte e la collina
per te Adalgisa il mio pensier si desta,
al canto degli augelli la mattina.
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Canta la capinera e il rosignolo,
e nel silenzio del lieto mattino,
su te posa la mia mente e mi consolo,
mi sembra di vederti a me vicino”!
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Mi trovo in queste valli abbandonato
prendo coraggio: pensando al tuo nome
Adalgisa quante volte t’ho chiamato
piangendo stò baciando le tue chiome.
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Ricordo il primo bacio che t’ho dato,
ricompensato fu dai tuoi capelli,
l’ultimo bacio che tu mi hai donato,
chi mi strappò dagli occhi tuoi sì belli.
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Il tuo ritratto tengo per memoria.
Conforto mi sarà fino alla morte,
sarai sempre mia fida, per mia gloria
in questa sventurata e triste sorte.
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Ricordati che io fui il tuo Beppino,
il primo amator della tua vita,
così lo volle il mio fatal destino,
doverti abbandonar, ma no tradita.
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Potessi rivederti un sol momento,
sfidar vorrei  il cielo e la natura,
per dirti: oh mia Adalgisa son contento
ti cedo l’arme con la mia cintura.
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Mi sento in cuore le pungenti pene,
che tormentando vanno la mia vita,
perchè non vidi più il mio amato bene,
mi sembra che dal mondo sia rapita.
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Sopra di questa pietra, il piede poso
sto contemplando l’infinito cielo,
entra la notte, prendo qui riposo,
ti sognerò Adalgisa in bianco velo.
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Presso di me sta un masso memoriale
il nome inciderò della mia bella,
dirò che al par di te non v’è l’eguale,
tu sei la guida mia, la mia stella.
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Lo foste il sogno della mia vittoria
ed io lo fui per te su tante imprese
portandoti Adalgidsa; alla mia gloria 
come bandito qui ne fò palese.
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Se un giorno ti diranno sarò morto,
non so la morte mia dove si espetta,
se per perirò lontano in altro porto,
una visione avrai o mia diletta.
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L’aria si oscura e la nascente luna,
si và inalzando al misterioso cielo,
saluto solitario in notte bruna
lontano amor che sempre io me rilevò.
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Adalgisa, una delle contadine che Musolino amò

* Quando Musolino fu arrestato, Giovanni Pascoli gli dedica un’ode incompiuta dal titolo: Musolino, edita da S. Bottari e ripubblicata da G. Villaroel Musolino.
Lirica inedita di Giovanni Pascoli

MUSOLINO

Giovanni Pascoli
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Nel monastero ove coi morti frati
dormono gravi salmodie sepolte,
curvo passò tra uno squillar d’armati.
Intorno ai lombi le catene avvolte,
come serpi di ferro: era per quelle
tratto a mano: le mani erano molte.
Eran perete agli occhi del ribelle
umane terga. Era decreto umano
che ormai la notte fosse senza stelle
per lui, che azzurro fosse il cielo invano
per lui, che a lui di tutto ciò che luce
sol giungesse il baglior dell’uragano.
Quando tra tutti i neri omeri truce
vide levando gli occhi e non la fronte
ciò che vietato gli era ormai: la luce.
E vide i monti: non i suoi: te, monte
Nerone, te, gibbo del Catria. O torre
d’Asdrubale! o lontano Ermo di fonte
Avellana! o fragor d’acqua che scorre
buia, e che gemeva ai piedi d’un errante
piccolo e solo, mentre per forre
silenziose, sotto rupi infrante,
lungo gli abissi
saliva ai monti, a dare pace o….