SHOAH DEI BAMBINI – Hurbinek, figlio della morte – OLOCAUSTO

SHOAH DEI BAMBINI

Nella Tregua, Primo Levi dà una descrizione lenta e stupita del ritorno alla vita dopo l’atroce esperienza nei campi della morte. Nei suoi ricordi vivissima è l’immagine di Hurbinek, un bambino nato e morto ad Auschwitz.

Hurbinek, figlio della morte

Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l’ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano più deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni.

Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva a eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo e inerme fra noi, del più innocente, di un bambino, di Hurbinek.
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz.
Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, e aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano a un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.  Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni.
Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare […].
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945,libero ma non redento.
Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. Henek era un buon compagno, e una perpetua fonte di sorpresa.
Anche il suo nome, come quello di Hurbinek, era convenzionale […].
Era stato catturato, e deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia.
Gli altri erano stati uccisi subito: lui aveva dichiarato alle SS di avere diciotto anni e di essere muratore, mentre ne aveva quattordici ed era studente. Così era entrato a Birkenau: ma a Birkenau aveva invece insistito sulla sua età vera, era stato assegnato al Block dei bambini, ed essendo il più anziano e il più robusto era divenuto il loro Kapo.
I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas. Henek aveva subito capito la situazione, e da buon Kapo si era “organizzato”, aveva stabilito solide relazioni con un influente Häftling ungherese, ed era rimasto fino alla liberazione.
Quando c’erano selezioni al Block dei bambini, era lui che sceglieva. Non provava rimorso?
No: perché avrebbe dovuto? esisteva forse un altro modo per sopravvivere? […]
Non era Hurbinek il solo bambino. Ce n’erano altri, in condizioni di salute relativamente buone: avevano costituito un loro piccolo ” club”, molto chiuso e riservato, in cui l’intrusione degli adulti era visibilmente sgradita. Erano animaletti selvaggi e giudiziosi […].