LA PITTURA AMERICANA

Ben Shahn, The Burial Society

LA PITTURA AMERICANA

Già nei primi decenni del secolo scorso, la pittura e la cultura americana, in generale, avevano mostrato, parallelamente con l’affermarsi degli USA quale grande potenza industriale, un progressivo allontanamento dalle fonti culturali europee, e avevano dato vita a una ricerca di modi e di linguaggio originali. Artisti come John Marin (Rutherford, New Jersey, 23 dicembre 1870 – Addison, Maine, 2 ottobre 1953), Edward Hopper (Nyack, 22 luglio 1882 – Manhattan, 15 maggio 1967) e, soprattutto, il grande Ben Shan (Kovno, 12 settembre 1898 – New York, 14 marzo 1969), forniscono, con la loro opera, la misura di questo avvenuto distacco. Il periodo che precede la Seconda guerra mondiale e gli anni stessi del conflitto, vedono l’afflusso in America d’intellettuali d’ogni parte d’Europa che vengono accolti e integrati nel “modo di vita americano”. È una ospitalità compensata dall’apporto di elementi culturali diversi, che concorrono però a formare un linguaggio culturale del tutto nuovo, che non ha quasi nulla più in comune con la matrice europea.

Mentre l‘arte non figurativa é nel vecchio continente ancora un fatto di ”avanguardia”, negli Stati Uniti, paese dal rapido sviluppo tecnologico, é già acquisizione comune. Artisti di grande rilievo sono, in questa fase, Arshile Gorkx  (Van, Armenia, 15 aprile 1904 – Sherman, 21 luglio 1948) e Willem de Kooning (Rotterdam, 24 aprile 1904 – New York, 19 marzo 1997): due immigrati, l’uno armeno l’altro olandese, che hanno praticamente ”tradotto” in americano la pittura europea; e ancora Mark Tobey (Centerville, 11 dicembre 1890 – Basilea, 24 aprile 1976), Franz Jozef Kline (Wilkes-Barre, 23 maggio 1910 – New York, 13 maggio 1962), Mark Rothko (Daugavpils, 25 settembre 1903 – New York, 25 febbraio 1970), nei quali il segno delle grandi correnti europee é reinventato e adeguato a un mondo sostanzialmente diverso. Caratteristica di questi pittori e la “non-figuratività”, il dato che sembra accomunarli e il senso di una profonda angoscia. Ma il pittore più rappresentativo, colui che porta all’estremo limite un modo di dipingere che riflette la crisi culturale di quel tempo, è Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 – Long Island, 11 agosto 1956). egli è il massimo esponente, se non l’inventore, della cosiddetta ”action painting”, la ”pittura d’azione”.

“Prima dell’azione non c’é nulla: non un soggetto ed un oggetto, non uno spazio in cui muoversi, un tempo in cui durare; Pollock parte veramente da zero, dalla goccia di colore che lascia cadere sulla tela. La sua tecnica del “dripping” (sgocciolature e spruzzi di colore sulla tela distesa a terra) lascia un certo margine al caso: senza caso non c’é esistenza. Il caso è libertà rispetto alle leggi della logica, ma é anche la condizione di necessità, per cui, vivendo, si affrontano a ogni istante situazioni impreviste.
La salvezza non é nella ragione che fa progetti, ma nella capacità di vivere, nella lucidiate, la casualità degli eventi… Alla società americana fiera del proprio ordine e della propria produttività, Pollock pone il dilemma: appagarsi della bella forma delle sue automobili e dei suoi elettrodomestici o, se vuole l’arte, andarsela a cercare nel turbamento dell’inconscio, nella oscurità del proprio incancellabile senso di colpa”. (*)
(*) Giulio Carlo Argan (1909-1992 – critico d’arte, politico e docente italiano).

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Immagine di copertina: Jackson Pollock, Numero 21

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