COLA DI RIENZO

Ritratto di Cola di Rienzo, tribuno del popolo romano

COLA DI RIENZO

Cola di Rienzo (Roma, 1313 – Roma 8 ottobre 1354) è stato un politico e tribuno romano. È rimasto nella storia perché, nel tardo medioevo, tentò di instaurare nella città di Roma straziata dai conflitti tra il popolo e i baroni una forma di comune. Cola di Rienzo è ancora oggi una figura controversa: per alcuni è un umanista e protagonista dell’umanesimo rinascimentale, per altri è un tiranno megalomane.

“La figura del tribuno romano Cola di Rienzo, dalla cui comparsa il Petrarca attendeva il ritorno dei tempi gloriosi dell’antichità romana e l’inizio di un riordinamento politico del mondo; il destino personale e i progetti politici di questo notaio romano, che, diventato per forza propria capo di Roma e della provincia romana, soppresse i privilegi della nobiltà e il potere feudale ed esortò a mezzo di inviati e di lettere tutta l’Italia ad unirsi in nazione e citò imperatori ed elettori tedeschi davanti al tribunale del popolo romano, acciò vi dimostrassero i loro pretesi diritti all’impero romano, e che, dopo una serie di successi iniziali senza pari e d’onori, naufragava a causa di errori propri, della mancanza di comprensione politica dei suoi compatrioti e della aperta ostilità del papato, per essere chiamato ancora una volta – e questa volta dal papato stesso – dopo sette anni di umiliazione e prigionia a capo di Roma, dove avrebbe trovato, poco dipoi, una fine atroce in un’insurrezione popolare: tutto questo – siccome predisse il poeta – ha effettivamente occupato la fantasia dei contemporanei più che non l’occupassero le figure dei legittimi sovrani del secolo XIV”.

Così uno dei maggiori biografi contemporanei di questa straordinaria figura di uomo politico che ebbe la capacità nel giro di tre anni di suscitare interesse e timore in tutto il mondo allora conosciuto (se è vero, come ci attesta un cronista del tempo, che persino il Soldano di Babilonia, saputo che nella città di Roma “si era levato uno horno de granne iustitia, homo de puopolo”, raccomandasse il proprio regno alla protezione di Maometto), di raccogliere l’adesione di decine e decine di città italiane, di mettere a freno le più potenti famiglie romane, di sfidare il papa e l’imperatore, di suscitare l’entusiasmo e l’incondizionata approvazione di un uomo come Petrarca, così controllato e calcolatore, legato per interesse e per ambizione proprio ai suoi avversari, di dieci anni più vecchio di lui e già poeta laureato in Campidoglio e riconosciuto in tutta Europa.”Homo de puopolo” è definito dal cronista: e, in effetti, al popolo egli appartenne per nascita, dall’interesse del popolo è ispirata la sua azione politica nel momento più vitale, dall’appoggio del popolo egli trasse la forza per imporre il suo programma e per proclamare le linee di un generale rinnovamento.

Cola di Rienzo giura di ottenere giustizia per la morte del giovane fratello, ucciso in uno scontro tra le fazioni dei Colonna e degli Orsini (1848-1849)
William Holman Hunt (1827-1910)
Collezione privata, Pavia

Infanzia e giovinezza di Cola

Nicola di Lorenzo (Cola di Rienzo) nacque da un oste e da una lavandaia nell’aprile o nel maggio del 1313. Non visse, però, nella casa paterna, nel rione della Regola sulle rive del Tevere, ma, dopo la morte della madre, venne inviato presso un parente che abitava in Anagni e qui rimase “come un contadino tra i contadini” fino alla morte del padre, avvenuta fra il 1332 e il 1333. In Anagni non aveva potuto, evidentemente, approfondire gli studi, anche se sembra certo che frequentasse una scuola di latino. Ma tornato a Roma, sotto la suggestione della vita cittadina e delle nuove relazioni procurategli dalla giovane e bella moglie, figlia di un notaio, decise d’intraprendere anch’egli la carriera notarile e si dedicò agli studi necessari di diritto e di storia, allargando i suoi interessi alla letteratura classica e soprattutto agli antichi monumenti e alle numerose epigrafi che si trovavano in Roma. Così nel giovane Cola – in consonanza con gli spiriti più aperti e avanzati del tempo – sorge quell’ammirazione per l’antichità, quell’orgoglio per la forza, la gloria e gli ordinamenti dell’antica Roma, quel culto del popolo romano che costituiranno la spina dorsale del suo sogno di liberazione, di rinnovamento e di grandezza. Il decennio fra il 1333 e il 1343 è, appunto, dedicato agli studi, all’esercizio della professione di notaio, alla meditazione sulle piaghe che affliggevano la sua città, all’aiuto dei poveri e degli oppressi.
Lesse Livio, Sallustio, Seneca, Cicerone, Valerio Massimo, Boezio, Simmaco, si esercitò nella difficile arte della retorica, divenne un oratore affascinante e potente, capace di commuovere e di entusiasmare: “ogni giorno meditava sulle iscrizioni di marmo che giacciono intorno a Roma. Non c’era altri che lui che sapesse leggere gli antichi epitaffi. Traduceva in volgare tutte le scritture antiche e, interpretava giustamente queste figure di marmo”. Ma accanto a questi studi umanistici egli leggeva testi della storia medievale, s’appassionava alle dispute sull’origine del potere imperiale e, soprattutto, assorbiva dai movimenti pauperistici dell’epoca (di cui ebbe un’esperienza diretta nell’invasione di Roma da parte dell’esercito dei penitenti del domenicano fra Vittorino) i motivi della polemica contro la “chiesa carnale”, cioè contro la corruzione del clero e le pretese mondane della chiesa, e le esigenze di una maggiore giustizia sociale. Così egli, prima d’intraprendere alcuna azione politica, quando si presentava ancora come un semplice notaio, poteva proclamarsi “console degli orfani, delle vedove e dei poveri, unico rappresentante del popolo presso nostro signore il Pontefice di Roma”.
Questi due filoni – gli studi dell’antichità classica e l’ispirazione sociale – confluivano nel rendere intollerabile ai suoi occhi la situazione di Roma nella sua età. Roma si trovava allora nel più completo disordine: “Governanti non ne aveva – ci dice il cronista -; ogni giorno si combatteva; da ogni parte si rubava; si stupravano e prostituivano le fanciulle; la moglie era tolta al marito nel proprio letto; i lavoratori quando andavano fuori a lavorare erano derubati, dove? alle porte di Roma; i pellegrini non erano difesi, ma erano scannati e rapinati; i preti si davano alle cattive azioni. Ogni lascivia, ogni male, nessuna giustizia, nessun freno; non c’era più rimedio; ogni persona periva; aveva più ragione chi era più forte con la spada. Non c’era altra salvezza che difendersi con parenti ed amici; ogni giorno si reclutavano armati”. Nessuna legge, quindi; solo quella del più forte. E di conseguenza la prepotenza dei potenti sulla povera gente umile e indifesa.

Tesoro di San Pietro. La cosiddetta dalmatica di Carlo Magno, di cui si vestì Cola di Rienzo cavalcando a san Pietro

Inizio della vita politica

L’occasione per entrare attivamente nella vita politica si presentò a Cola nel 1342, quando, in seguito alla morte del papa Benedetto XII, si era creata la necessità di rinnovare non solo gli ultimi senatori nominati dal papa defunto, ma persino l’elezione stessa del papa a supremo reggitore della città. Giacché, “secondo l’opinione dei Romani d’allora, il nuovo papa non poteva considerarsi costituzionalmente loro sovrano, prima che il potere cittadino gli fosse affidato dal popolo, con un atto speciale. Così voleva il ricordo della loro indipendenza municipale, ch’essi avevano estorta circa duecento anni prima ai papi, con la reintegrazione del senato (1144) e sotto la guida di Arnaldo da Brescia (1147-1155), e riaffermata e completata cent’anni più tardi sotto il dominio del capitano del popolo Brancaleone degli Andalò (dal 1252 al 1258). E così erano state conferite la dignità senatoria e le altre principali cariche cittadine, a vita e con libera disponibilità, a Giovanni XXII nel 1332 e a Benedetto XII nel 1337; così doveva accadere anche dopo l’ascesa al trono di Clemente VI, eletto il 7 maggio”. Una missione, dunque, del vecchio governo, con a capo Stefano Colonna e Bertoldo Orsini (vale a dire i rappresentanti di due delle famiglie più potenti della nobiltà romana), si recò ad Avignone, in Francia (dove allora risiedeva il papa), per conferire al nuovo pontefice, il potere di capo riconosciuto della città, perchè quindi a sua volta nominasse o confermasse i nuovi governanti effettivi di Roma e per esprimere due desideri della cittadinanza romana: che Clemente VI si decidesse a visitare Roma e che volesse proclamare un giubileo straordinario nel 1350, contrariamente alla decisione presa da Bonifazio VIII di festeggiare l’anno santo solo una volta ogni cento anni (e il primo giubileo, infatti, si era avuto nel 1300). È inutile dire che dalla delegazione erano stati esclusi tutti i rappresentanti dei ceti popolari, mentre accanto all’alta nobiltà erano rappresentati l’aristocrazia minore, la borghesia e il clero.

Della assenza da Roma dei vecchi governanti profittò il partito popolare il quale si era rivelato particolarmente attivo negli ultimi anni (probabilmente sotto la suggestione, sia pure non palese, di Cola di Rienzo). Tale partito nonostante il rifiuto del papa a riconoscergli autorità di governo, manteneva un suo organismo, il cosiddetto consiglio, nel quale erano riuniti i capi delle associazioni dei vari mestieri e dei tredici rioni della città. Il consiglio nominava nel suo seno una vera e propria giunta di governo, che poteva, nei momenti difficili e in quelli in cui si creava un vuoto del governo ufficiale, prendere la direzione della cosa pubblica. Proprio questo avvenne negli ultimi mesi del 1342 e al governo popolare Cola di Rienzo propose di mandare un suo messo al papa per esporre la reale situazione della città, per proporre una modifica della costituzione e per caldeggiare il nuovo giubileo.

Cola di Rienzo si autoproclama tribuno di Roma in Campidoglio (1347)

La missione in Avignone

Su quest’ultimo punto, come si vede, si trovavano d’accordo tutti gli strati della popolazione romana, perchè l’anno santo, con l’afflusso di migliaia di pellegrini i quali, per ottenere l’indulgenza, dovevano fermarsi a Roma un certo numero di giorni, significava un incremento straordinario all’economia dell’intera città. Cola di Rienzo si offrì anche di assolvere personalmente una simile missione non priva di difficoltà e di pericoli. Venne ascoltato e partì, solo e sconosciuto, alla volta di Avignone e vi giunse in tempo per poter comunicare a Roma, primo fra tutti, che il giubileo era stato concesso. Tuttavia la vera azione politica del nostro notaio doveva svolgersi sugli altri due punti, che avrebbero garantito alla città una vita ordinata e democratica e avrebbero anche permesso che il giubileo avesse un largo successo.
E Cola s’impegnò in quest’azione con tutto il suo entusiasmo e con tutte le sue non comuni capacità. Riuscì a farsi ricevere dal papa, l’incantò con la sua oratoria, ottenne di poter esporre le lagnanze del popolo romano in un pubblico concistoro. “Il suo discorso, – dice sempre il cronista – fu così efficace e bello che subito conquistò papa Clemente. Molto ammirò papa Clemente il bello stile della lingua di Cola e ogni giorno lo voleva vedere. Allora Cola parla più diffusamente e dice che i baroni di Roma sono rapinatori di strada: essi consentono gli omicidi, le ruberie, gli adulteri e ogni delitto; essi vogliono che la città giaccia desolata”. A questo punto la delegazione ufficiale, formata da nobili e da ricchi, si spaventa. Mette in movimento tutte le sue aderenze, i parenti che hanno posizioni di primo piano presso la Curia, tutti i cardinali francesi che non hanno interesse al rifiorire di Roma per poter mantenere più facilmente la curia papale ad Avignone. Cola cade in disgrazia. Viene abbandonato da Clemente VI. Non può tornare a Roma dove i nobili gli hanno promessa la morte e si apprestano a confiscargli i beni. Ha finito i denari. È malato: “Venne in tanta disgrazia, in tanta povertà e in tanta infermità che poco mancò dovesse andare all’ospedale dei poveri. Col suo giubbetto addosso stava al sole come una biscia”.

Cola di Rienzo contempla le rovine di Roma (1865)
Faruffini Federico (1831-1869)
Collezione privata, Pavia

Cola conquista l’ammirazione del Petrarca

Ma nelle settimane precedenti Cola non aveva riempito di ammirazione solo Clemente VI: aveva infiammato d’entusiasmo un grande intellettuale che viveva ad Avignone, il maggiore intellettuale europeo del tempo, Francesco Petrarca. Cola e Petrarca si erano incontrati all’uscita di una chiesa e il futuro tribuno del popolo romano non si era fatta sfuggire l’occasione di esporre le sue idee e, possibilmente, di conquistare al suo programma una persona di tanto rilievo. Ci era riuscito pienamente. In una sua lettera il Petrarca ci dà esatta la misura della impressione enorme che aveva ricevuto da quell’incontro: “Se fra me stesso pensando, alla memoria io richiamo le sante cose e gravissime onde ieri l’altro sulla porta di quel devoto antico tempio, teco mi avvenne di ragionare, tutto infiammare io mi sento, e quasi dai reconditi penetrali uscito fosse un oracolo, meglio di un Dio che di un uomo mi credo aver ascoltato la voce”. Conciossiaché lo stato presente, o a dir più vero, la presente decadenza e rovina della Repubblica tu lamentando si fattamente mi dipingesti, e colla penetrante eloquenza delle tue parole le piaghe nostre toccasti così sul vivo, che se di quella alla mente mi torna il suono, sento nell’animo rinnovarsi l’affanno, tornarmi il pianto sul ciglio; ed il cuore, che mentre tu parlavi divampava nel fondo, or rammentando, pensando e prevedendo, sento stemprarmisi in lacrime, non imbelli però, ma virili, ma forti, ma capaci, se vengano il destro, di alcuna opra pietosa e pronta a scorrere per la parte loro in difesa della giustizia. Se spesso dunque per lo innanzi, più spesso assai dopo quel giorno ti sono allato, ed ora spero, ora dispero, ora fra l’uno e l’altro effetto ondeggiando infra me stesso vo ripetendo: oh! se mai fosse! oh! se me vivo potesse accadere… oh! se mi desse il cielo di tanta impresa, di tanta gloria esser partecipe”. D’altra parte la propaganda di Cola cadeva su un terreno ben disposto ad accoglierla, perchè Petrarca già da tempo aveva l’occhio rivolto all’Italia (e a una soluzione italiana dei nostri problemi), perchè egli mostrava chiaramente di considerare gli imperatori stranieri degli usurpatori, perchè, come cultore degli studi classici, era tornato ad avere un alto concetto della civiltà romana e della missione di Roma nel mondo. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che Petrarca sposasse in pieno il programma di Cola e che, vistolo in disgrazia, si adoperasse presso i suoi potenti amici perchè gli restituissero la fiducia. Così il messo del popolo romano risalì la china, si fermò per un anno e mezzo circa presso la curia avignonese, ebbe modo di conoscere uomini politici d’ogni nazione e di rendersi conto dei problemi della politica europea. Lasciò Avignone solo quando venne investito direttamente di un titolo papale e venne nominato notaio della Camera municipale di Roma. Egli apertamente e senza sotterfugi sollecitò questa carica “per la difesa del popolo che il supplicante, sotto la protezione di Sua Santità, è pronto a condurre energicamente in avvenire”. E quando ebbe l’approvazione del papa ripartì per Roma “molto allegro e fra i denti proferiva minacce”.

Papa Clemente VI

Abilità politica e diplomatica – La presa del potere

La linea seguita da Cola fra il luglio del 1344 (data in cui rientrò a Roma) e il 20 maggio 1347 (data in cui mise le carte in tavola) è un miracolo di abilità politica e diplomatica. Il primo punto del suo programma era quello di battere, umiliare e rendere inoffensivi i baroni romani e di ripristinare nella città l’ordine e un governo efficiente fondato sulle forze popolari.
Egli sapeva che se tale azione fosse stata condotta senza mettere in discussione l’autorità e i diritti del papa, avrebbe potuto contare, almeno inizialmente, sulla neutralità di Clemente VI e, quindi, avrebbe potuto isolare i baroni.
La sua azione si svolge su vari piani; quello della propaganda con affreschi e cartoni murali nei quali vengono descritte in modo simbolico le sofferenze di Roma, la sua attuale degradazione e vengono fatti raffronti con l’antica sua grandezza e potenza (queste specie di manifesti, a detta del cronista, fecero una grande impressione sul popolo, tanto che ognuno li guardava stupito). Quello dell’appello agli interessi economici dei vari strati di cittadini, minacciati dal disordine esistente a Roma che rischiava di far fallire il giubileo e far svanire una grande occasione per la ripresa dell’economia cittadina. A tal proposito egli approfittò della scoperta di un’antica tavola che descriveva come il Senato Romano concedeva l’autorità imperiale a Vespasiano, per organizzare una grande assemblea durante la quale, dopo aver ricordato i fasti dell’antica Roma, egli rappresentò con vigore oratorio la situazione a lui contemporanea: “Signori – egli disse – tanta era l’autorità del popolo romano che dava autorità all’imperatore. Ora l’abbiamo perduta con nostro danno e vergogna”. E aggiunse: “Romani, voi non avete pace, le vostre terre non si arano nè si coltivano. Quando i popoli del mondo verranno a Roma per l’anno del giubileo e non troveranno nulla da mangiare, cominceranno a saccheggiare e a portar via con loro le vostre pietre, invece del pane che manca”. Il successo fu enorme, i consensi quasi unanimi. Ma la condotta di Cola fu abile anche nei rapporti con i nobili. Egli, grazie alla carica ottenuta dal pontefice, poteva partecipare al consiglio segreto dei senatori e rendersi conto, direttamente, del malgoverno finanziario perpetrato dalle classi dominanti. Inizialmente, affrontò senza sotterfugi il consiglio denunziando gli abusi: ma fu picchiato in piena assemblea da uno dei tesorieri, parente dei Colonna, Andreozzo di Normanno. Allora Cola divenne più cauto: mentre portava avanti la sua azione fra il popolo, si finse innocuo e intrecciò rapporti amichevoli con i ricchi. Era considerato da questi come un individuo strambo, un po’ pazzo e pure divertente per l’eleganza della sua oratoria e per la sua cultura. Lo invitavano, così, ai loro banchetti e gli chiedevano di prodursi in uno dei suoi numeri: un discorso, una invettiva, una profezia e così via. Egli si prestava volentieri e profittava di essere considerato un mezzo buffone per dire crude verità. In un convito in casa di Giovanni Colonna egli, fra le risate generali dei presenti, indicandoli uno per uno disse: “Io diventerò signore e perseguiterò tutti questi baroni: quello lo impiccherò, quell’altro lo decapiterò”. Preparato, quindi, e insieme inaspettato riuscì il colpo di stato della domenica di Pentecoste del 1347.
Cola riunì il popolo davanti alla chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, dove aveva passato la notte, e armato di tutto punto ma col capo scoperto, preceduto da quattro bandiere simboleggianti la libertà, la giustizia, la pace e la quarta raffigurante San Giorgio, si recò in Campidoglio per promulgare la nuova costituzione del popolo romano. Precedentemente, armati al servizio di Cola si erano impadroniti del Campidoglio e ne avevano scacciato le guardie del senato e i funzionari del vecchio governo. La presa del potere avvenne senza spargimento di sangue. Ma il dado era tratto: di lì cominciava l’azione rivoluzionaria di Cola. Egli l’annunziò subito al popolo accorso nella piazza del Campidoglio, al popolo che fremeva esaltato e piangente sotto i colpi dell‘oratoria del notaio. Fu un comizio, a quanto sembra, indimenticabile. Fustigò il passato governo del partito dei nobili, che aveva fatto della città “santa” degli. apostoli e martiri una “ spelonca di masnadieri ”; dipinse agli ascoltatori le molteplici oppressioni e sofferenze della popolazione cittadina e rurale, i quotidiani saccheggi, incendi e delitti contro la proprietà, il declinar dell’industria e del commerciò, l’assenza dei pellegrinaggi, la generale mancanza di sicurezza in seguito alle inimicizie continue dei baroni e alle divisioni della cittadinanza che ne derivavano; accennò al felice inizio dell’opera di liberazione e si dichiarò disposto ad esporre la sua persona a qualsiasi pericolo per l’amore del papa e per la salvezza del popolo.

Il Tribuno del popolo – I poveri si rallegrano, esultano i deboli

Poi fece dare lettura da suo nipote, Conte Mancini, del nuovo progetto di costituzione, che affidava il governo della città e dell’intero ”distretto “ romano alle mani del popolo, e che conteneva, in una serie di paragrafi speciali, le leggi che dovevano assicurare per l’avvenire la sicurezza e l’ordine della comunità. Alla domanda se essi approvavano il progetto, tutti alzarono unanimemente le mani; e all’altra domanda, a chi volessero affidare l’autorità di governo sulla base democratica indicata, essi lo salutarono con giubilo come loro liberatore.
La preoccupazione di non spaventare la curia papale dominò l’azione di Cola nei suoi primi passi. Abbiamo visto che egli aveva dichiarato di assumere il potere “per l’amore del papa e per la salvezza del popolo romano”. E inizialmente egli associò al suo governo il vicario papale, prendendo con lui il titolo di “rettore della città”. Ma ben presto la figura del vicario divenne sempre meno importante, sino ad avere un valore del tutto formale. Cola non si faceva illusioni e sapeva di dover bruciare le tappe della sua riforma perchè lo scontro con il pontefice, prima o poi, era inevitabile. Così in una seconda assemblea di popolo si fece nominare “tribuno del popolo” e si fece dare i pieni poteri di punire, uccidere, graziare, di insediare e destituire funzionari, di ristabilire i limiti della giurisdizione e dell’amministmzione romana, di concludere trattati con altri comuni”. Agì, allora, con una rapidità e una energia incredibili. Come prima cosa, si preoccupò di organizzare una forza armata municipale: ogni rione fornì cento fanti e venticinque cavalieri che vennero armati e pagati dal comune.

Ebbe così a disposizione 1300 fanti e 300 cavalieri che gli permisero di perseguire spietatamente i criminali (giudicati con processo sommario e impiccati ogni volta che si erano macchiati di assassinio) e gli consentirono di esiliare i nobili fuori della città, di esigere un loro giuramento di fedeltà, di smantellare le loro fortezze nella cerchia delle mura, di togliere loro il controllo dei ponti, di imporre loro la responsabilità della sicurezza della strada e dell’approvvigionamento della città, di sottrarre ad essi il potere su ogni località del distretto romano. Crollava in tal modo anche a Roma il regime feudale: e ne è conferma un ulteriore decreto di Cola nel qùale si proibiva ai cittadini di prestare giuramento di vassallaggio ai nobili e di dare loro il titolo di “signore”. Nel giro di poche settimane il volto della città era mutato: dove prima regnava il caos, ora vigeva un ordine perfetto.
Con non minore energia il tribuno affrontò il problema del riordinamento delle finanze municipali. Egli ripristinò la proprietà del Comune sulle saline di Ostia, pretese che venisse pagata al governo e non ai vari nobili la tassa di famiglia, rivendicò ed ottenne tutti i territori demaniali che erano stati occupati dai signori, estese la giurisdizione di Roma a tutto il suo distretto. Il gettito delle imposte divenne subito così alto che i funzionari del Comune facevano fatica a registrare le entrate quotidiane: e questo permise a Cola di diminuire le tasse che gravavano su tutta la popolazione o sul commercio, come i pedaggi e i dazi sulle merci (anzi egli proibì ai baroni di imporre pedaggi o tasse per il transito nelle loro terre), e di affrontare un ampio programma di provvedimenti sociali, per l’assistenza dei poveri, delle vedove, degli orfani, dei conventi e degli ospedali. Egli poté anche provvedere la città di riserve di grano e di altre merci, per evitare le ricorrenti carestie, e per far trovare pronta Roma ad accogliere le masse dei pellegrini. Ma particolarmente inflessibile e spietata fu l’azione del nostro per garantire la sicurezza dei cittadini. Si è già visto quale fosse la situazione caotica esistente a Roma. Il tribuno comprese che, per riportare l’ordine, era necessaria una giustizia rapida, spietata ed imparziale: comprese, anzi, che alcune punizioni esemplari avrebbero scoraggiato in poco tempo i rapinatori e saccheggiatori che infestavano la città e le sue campagne. Fece cosi impiccare Martino Stefaneschi, signore di Porto, era senatore e nipote di due cardinali, per aver saccheggiata una nave arenata alla foce del Tevere, fece girare incatenato per la città Pietro Agapito Colonna, anch’egli ex senatore, condannò a trenta fiorini d’oro per risarcimento di danni e a quattrocento fiorini di multa il conte Bertoldo dell’Anguillara, perchè, nel suo dominio, era stato rapinato un mulattiere con il suo carico, mandò alla forca, nonostante la tonaca, un certo frate Loctus: “Allora le serve si cominciarono a rallegrare perchè fra esse non si trovavano ladre. Allora i buoni cominciarono ad arare, i Pellegrini cominciarono a fare la questua nei santuari, i mercanti cominciarono a frequentare le strade… In questo tempo paura e timore assaliva i tiranni; la buona gente come liberata da schiavitù si rallegrava”. E non diversamente dal cronista si esprimeva lo stesso Cola nella sua relazione al papa: “I poveri si rallegrano, esultano i deboli che sinora l’infuriare ingordo di tirannica ferocia metteva in angoscia. Si rallegrano i buoni, giubilano i pacifici, esultano in Dio insieme con loro i clementi, che il predamento è alla fine e che d’or innanzi ciascuno deve vivere del suo lavoro e del suo guadagno”.

Le maggiori ambizioni – Il decreto del 1° agosto

Tuttavia la liberazione di Roma dalla tirannia dei baroni, la restaurazione delle libertà costituzionali e dell’ordine interno, il rifiorire dei commerci costituivano solo la prima tappa del programma di Cola, la premessa necessaria a un disegno politico di gran lunga più ambizioso. Giustamente l’Ercole può indicare in un triplice ordine d’idee i motivi ispiratori della politica rivoluzionaria del tribuno romano: “L’idea di una alleanza tra Romani e gli stati italiani; l’idea di un parlamento nazionale da radunarsi a Roma, e quindi sotto la direzione di Roma, che avrebbe dovuto decidere sulla salvezza di tutta l’Italia, in base a pareri da esporsi da giuristi deputati ad esporli dalla intera nazione; l’idea che, per la nuova sistemazione giuridica di Roma e dell’Italia, non si dovesse tenere alcun conto della condizione creatasi, per iniziativa soprattutto della Chiesa, con la Traslatio Imperii ad Teutonicos e si dovesse invece rifarsi alla Roma imperiale di Augusto, di Vespasiano, di Giustiniano. La novità ed audacia del quale triplice ordine di idee giustifica la gradualità del processo, attraverso il quale il Tribuno venne, tra luglio e settembre, svelando i suoi piani: attraverso anche l’eloquenza di messi inviati a fiancheggiare le trattative per l’aiuto militare… Alla fine di luglio, convenivano a Roma, con cento cavalieri fiorentini, contingenti ausiliari di Siena, Perugia, Todi e Narni. E quasi quotidianamente arrivavano dal luglio Delegazioni ai preordinati festeggiamenti del 1 e 2 agosto per la consacrazione a cavaliere e la incoronazione del Tribuno, a cui parteciparono i rappresentanti di circa 25 comuni, sovrattutto toscani e umbri. Senonchè, anche prima che le Delegazioni arrivassero, il Tribuno aveva mutato in parte programma, non perchè gli Stati italici non avessero risposto in misura sufficiente all’appello, o perchè egli lasciasse cadere il progetto dell’Assemblea Nazionale, ma perchè egli si era nel frattempo deciso a porre egli da sè, prima e senza l’Assemblea, le basi giuridiche per la unificazione d’Italia, attraverso un atto preliminare da lui stesso compiuto, su parere di una giunta di giuristi, a cui prese parte una dozzina di delegati giuridici inviati dai Comuni toscani e lombardi, e, fra essi, forse, anche Bartolo da Sassoferrato. Su parere di questa giunta di giuristi, Cola convocò, il 22 luglio, a parlamento il Popolo Romano, e gli chiese se intendesse, come quei giuristi proponevano, annullare tutte le concessioni, donazioni, e conferimenti di dignità in qualunque momento accordate, e riprendere tutti i diritti di sovranità già da lui posseduti nei tempi antichi, e poi nel corso dei secoli liberamente o forzatamente abbandonati. A tale domanda, che l’assemblea interpretò, con un equivoco, che non sarà l’ultimo motivo del fallimento della rivoluzione, come un colpo diretto non tanto contro il potere temporale del Papa (cosa in se stessa, malgrado ogni subita o voluta ambiguità o ogni insincero silenzio, inevitabile), quanto contro le pretese degli Imperatori e Elettori Germanici, la risposta fu naturalmente affermativa. Di qui, dieci giorni dopo, il 1 agosto, subito dopo la fine della cerimonia della consacrazione a cavaliere, la proclamazione, dalla loggia del Palazzo Laterano, di quel decreto del 1 agosto 1347, in cui realmente culmina la rivoluzione di Cola di Rienzo”.

L’azione dl Cola in rapporto alle condizioni d’Italia nel secolo XIV

Questo piano di Cola di Rienzo, se pure audacissimo, s’iscrive pienamente nella situazione italiana del secolo XIV. Perchè in quel secolo l’Italia partecipa in prima fila, al travaglio che scuote tutta l’Europa e che, dopo il risorgere delle città e l’affermarsi della borghesia mercantile nei comuni, porta alla liquidazione definitiva del regime feudale. È un travaglio che vede, innanzitutto, il tramonto definitivo delle due grandi istituzioni medievali, il Papato e l’Impero, avvilito l’uno dalla residenza in Avignone che gli toglieva autonomia e prestigio, dal primo sorgere delle Chiese nazionali, dall’estenuante Scisma d’occidente, reso impotente l’altro dal sorgere delle monarchie nazionali, dagli sviluppi dello stesso pensiero politico, dalla conquistata autonomia dei vari principati italiani. È un travaglio che vede il crollo definitivo non solo della feudale economia fondiaria, ma anche, in buona parte, della economia artigianale che era stata alla base dell’affermazione del comune nel secolo precedente. Nel Trecento lo sviluppo del commercio e quindi l’allargarsi dei mercati, l’accrescersi della domanda e dei bisogni in relazione alle esigenze più elevate della vita determinano l’affermarsi di una economia .che giustamente è stata denominata precapitalistica. Alle Arti o Corporazioni, formate da innumerevoli piccole aziende, protette dai loro ordinamenti e dai loro organi di controllo, si sostituiscono potenti gruppi finanziari che utilizzano a loro vantaggio le aziende artigiane – trasformandole in aziende dipendenti – e cominciano a far sorgere loro opifici che raggruppano un numero notevole di operai salariati. Di qui, per un verso un grande sviluppo economico e per un altro senso di incertezza e di precarietà, il preannuncio minaccioso di torbidi sociali provocati proprio dalle nuove classi che si venivano formando nel corso di quella trasformazione (si pensi al tumulto dei Ciompi in Firenze e ai moti analoghi nelle altre nazioni europee e si pensi alla conseguente feroce e sanguinosa reazione borghese), il travolgimento di fortune, di abitudini, di valori (si pensi solo al fenomeno delle banche e del capitale finanziario che portava al centro della nuova società un sistema economico condannato fino al secondo prima dalla Chiesa e dalla pubblica opinione, quello del prestito con interesse). È un travaglio che vede il declino sia degli eserciti di cavalieri feudali, sia degli eserciti cittadini e l’affermarsi, invece, delle truppe mercenarie e dei loro avventurosi, ambiziosi e irrequieti condottieri. È un travaglio, infine, che vede il crollo delle istituzioni comunali per un processo inevitabile ed anche salutare nel resto dell’Europa; reso in Italia assai più complicato, contradditorio e negativo per la nostra particolare situazione. Voglio dire che lo sviluppo stesso e il rafforzarsi della borghesia cittadina, limitando il potere dell’aristocrazia feudale, aveva favorito nelle altre nazioni l’affermarsi di un principe e la costituzione di uno Stato nazionale, che garantisse l’ordine interno, sottoponesse tutti gli strati sociali all’unica legge dello stato e del sovrano, amministrasse attraverso una burocrazia indipendente dai nobili, assicurasse la creazione di un mercato unico nazionale. Sorgevano così le monarchie assolute, in Francia, in Spagna, in Inghilterra che rappresentavano un progresso non solo rispetto al sistema feudale, ma anche rispetto al frantumamento corporativo della vita e dell’organizzazione comunale. In Italia questo processo si fermò a mezzo: la necessità di ordine interno, di liquidazione delle fazioni, di controllo delle tendenze dei nobili alla rissa e delle turbolente esigenze del popolo minuto e del nascente proletariato, la necessità, di una guida energica e accentrata che potesse permettere l’espansione all’esterno a danno degli altri comuni, porta anche le città italiane ad organizzarsi in signorie, ad affidare il loro governo a un principe.
Ma la divisione fra nord e sud e, nel nord, la forza stessa e gl’interessi contrastanti di alcune grandi città come Firenze, Milano e Venezia impedisce che questo processo di accentramento giunga fino alla creazione di uno Stato nazionale. Con le conseguenze che tutti conoscono. Certo, nel Trecento nulla è più stabile e sicuro. L’entusiasmo intellettuale che nel secolo precedente sorreggeva la conquista, sia pure acritica della cultura da parte di nuovi strati di intellettuali, si va lentamente spegnendo e la cultura si perde in mille rivoli diversi, si dibatte in cento contraddizioni. La crisi della Chiesa alimenta per un verso il sorriso scettico del nuovo intellettuale, assai più scaltrito e critico, ma pure lascia un vuoto che spaventa, che nessuno ha ancora il coraggio di colmare in modo diverso e, di conseguenza, apre la strada a esplosioni mistiche (vedi Santa Caterina), a rappresentazioni terrificanti della morte e dell’aldilà (vedi Jacopo Passavanti), all’ingenua ripresa del mito francescano. L’Impero è screditato, ma la mancanza di un grande processo unitario di carattere nazionale, le guerre fra comuni, i moti popolari, la sensazione di una crescente anarchia, alimentano un grande desiderio di pace, di ordine, di stabilità. La ricchezza è cresciuta enormemente, ma con essa anche un sentimento di provvisorietà e di ingiustizia: di qui l’orgogliosa descrizione di una vita fastosa e raffinata, ma anche la consapevolezza di uno stravolgimento dei valori, la cui misura diventa essenzialmente il denaro. La crisi delle istituzioni comunali, il loro approdare nel dominio assoluto di un signore, spegne la dinamica democratica del secolo precedente e provoca il distacco della maggioranza dei cittadini dalla vita pubblica, anche se non mancheranno coloro che continueranno a condannare le nuove tirannidi e a vagheggiare le superate istituzioni democratiche. La crisi delle strutture militari provoca il distacco dei cittadini dalle attività militari e il declino dei valori di coraggio, di forza, di abilità, di onore ad esse collegati, che erano passati intatti nel secolo precedente dal mondo feudale a quello comunale. Non è difficile, quindi, rendersi conto di come fossero in crisi tutti gli orientamenti ideali e prevalesse un diffuso sentimento di incertezza, di provvisorietà, di contraddizione, di assenza dei punti fermi fondamentali che permettessero la costruzione di un solido edificio. In questa situazione Cola si rende conto delle possibilità di successo che può avere una iniziativa presa nel nome di Roma, che si richiamasse ai diritti giuridici del popolo romano, che puntasse su una federazione dei comuni e delle signorie italiane e, in tal modo, assicurasse la nostra penisola dagli interventi stranieri e prospettasse a tutti un’epoca di ordine, di tranquillità e di pace. E infatti la sua iniziativa ebbe successo. Molte città mandarono le loro delegazioni per le celebrazioni del 1° agosto, risposero alle lettere di Cola la regina Giovanna di Napoli, la repubblica di Venezia, Luchino Visconti signore di Milano. Tutta l’Italia rivolse di nuovo i suoi sguardi verso Roma. E il 1° agosto del 1347 Cola proclamò apertamente davanti alla chiesa del Laterano quel decreto che riempie ancora oggi di stupore. Il manifesto che richiama alla memoria di tutto l’orbe la posizione di Roma quale “capo del mondo e fondamento della religione cristiana”, dichiara la volontà unanime del popolo romano di volersi riprendere i suoi antichi diritti di sovranità in tutta la loro estensione. In conformità della decisione del parlamento del 22 luglio, il decreto annulla tutte le rinunzie di diritti ad essa contrarie, spontanee o forzate, a qualsiasi titolo od in qualsiasi momento siano avvenute. Ma nel mentre dichiara liberi tutti i comuni italiani e tutti gli italiani cittadini romani, al concetto di populus Romanus, i cui limiti subivano nel medioevo le oscillazioni più forti, il decreto dà un’ampiezza e una precisione, che permettono all’intera nazione di partecipare alla restaurazione di Ro.ma e alle sue conquiste politiche.

Il nucleo centrale, che segue al preambolo, predispone il riordinamento della questione dell’Imperium Romanum, “che compete di diritto alla città di Roma, al popolo romano e a tutta la santa Italia e che per varie ragioni che comunicheremo al momento e al luogo opportuno, è ritornato al popolo romano”. Invita tutte le persone e corporazioni che abbiano a muovere obiezioni contro questa tesi, a trovarsi in Roma prima della festa di Pentecoste dello anno prossimo (1348), per motivare, personalmente o a mezzo di rappresentanti, le loro obiezioni nella chiesa del Laterano, davanti al foro del tribuno e al popolo romano. “Nel caso di una loro assenza si procederà secondo tutto ciò che è di diritto e che la grazia dello Spirito Santo vorrà ispirare”. Dopo questa intimazione generale, sono invitati personalmente, per far valere le loro pretese, Ludovico il Bavaro e Carlo IV, “che si chiamano imperatori romani o eletti allo impero” e i singoli elettori germanici. Da quel momento gli atti di Cola si susseguono rapidamente: si tiene in collegamento con le città italiane e anche con le potenze straniere, batte i Caetani e ottiene l’omaggio delle città della Sabina, invia il 19 settembre 1347 due suoi messi per tutta l’Italia centrale e settentrionale dichiarando che egli si proponeva di “innalzare all’impero un italiano, che l’uguaglianza di razza e di nazionalità avrebbero indotto a zelo per l’Italia” e che, a questo fine, voleva indire una assemblea di tutte le città italiane nel giorno di Pentecoste del 1348. “Infine deve abbastanza ferire il vostro e il nostro animo, che uomini indegni e stranieri occupino l’Impero Romano, divenuto grande per tante fatiche comuni e tanto sangue versato da Romani e Italiani, e che essi portino via, dopo avercela strappata, l’antica dignità, nostra e vostra… Vi esortiamo pertanto, col puro e sincero affetto nostro, a tener nella debita considerazione l’onore, il vantaggio e l’accrescimento comune, di voi e dell’Italia, a prendere per ciò gli opportuni provvedimenti, a non permettere che i vostri propri onori siano tenuti da altri, con tanto disdoro e obbrobrio quant’è l’esser privati del proprio dominio, e a non sottoporre indebitamente il collo al giogo di altri, di coloro cioè che bramano saziarsi, come son soliti fare, di sangue italiano”.

La reazione dei baroni e della Curia pontificia
Il crollo di Cola e la fuga
La prigionia

Scongiura un complotto dei baroni e il 14 settembre fa arrestare tutti i rappresentanti della nobiltà che hanno accettato un suo invito, ma il giorno dopo li libera (e questo fatto gli venne rimproverato come un errore anche dal Petrarca), illudendosi che la lezione sarebbe servita. L’atto generoso, invece, si ritorce contro di lui: i baroni si coalizzano e iniziano in ottobre un’azione armata contro Roma. È vero che Cola è abbastanza forte per battere i Colonna e le loro truppe il 20 novembre nei pressi di San Lorenzo, ma è anche vero che, nel frattempo, è entrato in campo anche il papa che, attraverso il suo legato, Bertrando di Deux, ha sciolto comuni e singoli cittadini dall’obbedienza agli editti di Cola. Insomma l’azione del tribuno romano aveva spaventato troppi potenti perchè questi non prendessero energiche contromisure. Ce lo testimonia lo stesso Petrarca che, in una lettera, ci dice: “Io ero allora in Francia e so quel che ho sentito, quel che ho visto, quel che ho letto nelle parole e nei volti di coloro che passavano per i più eminenti (cardinali). Forse ora lo potranno negare, perchè è facile mentire quando non vi è più la tortura; ma in quel tempo tutti erano stati colti da spavento e terrore”.

Nobili romani e curia pontificia attaccano Cola senza esclusione di colpi. Il 3 dicembre Clemente VI invia al popolo romano una lettera contro Rienzo, nella quale lo si accusa, fra le altre cose, di aver promulgato “leggi sciocche e dissolute alla maniera dei Cesari, con dispregio delle usanze cristiane e imitando gli antichi riti dei pagani”. Nel frattempo Cola appare stranamente incerto e torpido: tutta la sua energia sembra sparita. La spiegazione semplicistica dei biografi è che egli si era troppo esaltato ed ora si cullava sugli allori (e a tal proposito ricordano le scenografie pompose delle manifestazioni da lui organizzate, la vanità dimostrata nelle vesti e nei titoli che si attribuiva, la regia minuziosa con la quale cercava di alimentare il culto della sua personalità); altri parlano di esaurimento nervoso e di temperamento morboso ed isterico: ma la realtà è che, probabilmente, proprio in quelle settimane Cola perde la fiducia nel suo programma per il fallimento della missione dei suoi delegati che proponevano un incontro di tutte le città italiane e per lo scatenarsi dell’ostilità del papa.
Basta così una piccola sommossa, contro la quale egli accenna appena una azione di repressione, per persuadere il tribuno a deporre il potere e a fuggire da Roma. Siamo al 15 dicembre del 1347. Qui finisce l’impresa liberatrice e rivoluzionaria di Cola di Rienzo. Fuggiasco in Italia egli riparò alla fine presso l’imperatore Carlo IV, il quale lo fece arrestare e tradurre ad Avignone. Del suo arrivo in questa città ci parla ancora una volta il Petrarca: “‘Venne poco fa alla curia, o piuttosto non venne ma fu condotto prigioniero, Nicola di Lorenzo un tempo temuto tribuno di Roma, ora il più misero degli uomini e – cosa sopra ogni altra gravissima – se pur così misero non altrettanto degno di misericordia; il quale, potendo morire gloriosamente sul Campidoglio, si adattò con ludibrio suo e della repubblica e del nome di Roma a subire il carcere nella Boemia e poi nel Limosino. Quanto questa mia penna si sia adoprata a lodarlo, e ammonirlo, è forse più noto ch’io non vorrei. Amavo la sua virtù, lodavo i suoi propositi, ammiravo il suo coraggio; mi congratulavo con l’Italia, auspicavo l’impero dell’alma Roma; prevedevo la pace a tutto il mondo; non potevo dissimulare una gioia che nasceva da tante radici, e mi sembrava esser partecipe di tutta la sua gloria con l’aggiungere alla sua impresa stimoli che egli, me lo dimostravano i suoi messi e le sue lettere, sentiva fortissimi nelle mie parole. Tanto più dunque io m’entusiasmavo e mettevo a prova il mio ingegno per trovar modo d’infiammare quell’animo fervido; e poichè ben sapevo che un cuore generoso divampa davanti alla gloria e alle lodi, aggiungevo grandi e a giudizio di alcuni eccessive, ma a mio parere giustissime lodi, e approvando il passato l’esortavo al futuro. Vi sono alcune mie lettere a lui dirette, delle quali ora non del tutto mi pento; non sono un profeta, e così non fosse stato profeta egli stesso a ogni modo, ciò che mentre io scrivevo egli faceva e pareva stesse per fare, era degnissimo non soltanto della mia, ma dell’ammirazione di tutti. Non so se quelle lettere meritino di essere cancellate dal ricordo degli uomini, perchè egli preferì vivere vilmente piuttosto che onoratamente morire; ma su cose impossibili è inutile deliberare; anche se volessi distruggerle, non potrei; una volta venute in pubblico, non mi appartennero più. E seguitiamo il racconto. Entrò nella curia umile e spregevole colui che i malvagi di tutto il mondo riempì di tremore e di spavento, e i buoni di lieta speranza e aspettazione; l’infelice che un tempo procedeva accompagnato da tutto il popolo romano e dai primi cittadini delle città d’Italia, camminava ora avendo ai fianchi due sgherri, tra la plebaglia avida di veder la faccia di quegli il cui nome era stato poco fa così illustre. Era egli mandato dal re di Roma al pontefice di Roma. “O mirabile commercio!”. Non oso citare il resto e anche queste tre parole avrei voluto risparmiarmi, e rimanere nell’argomento. Appena dunque fu giunto, subito il Sommo Pontefice affidò la sua causa a tre cardinali, ai quali fu imposto: – Vedano di qual genere di supplizio sia degno colui che volle far libera la repubblica. – “ O tempi, o costumi!” non mi stancherò mai di ripetere. Egli è senza dubbio degno di ogni supplizio, perchè quel che volle non lo volle con tutte le sue forze, come avrebbe dovuto e come richiedevano le circostanze; e invece, dopo essersi impegnato a difendere la libertà, si lasciò sfuggire armati i nemici della libertà proprio quando avrebbe potuto tutti insieme soggiogarli; magnifica occasione che la fortuna non aveva mai concesso ad alcun signore”‘.

Il ritorno a Roma e la fine

Naturalmente le ragioni per le quali la Curia condannava Cola erano completamente opposte a quelle del Petrarca. Tuttavia non si ebbe il coraggio e la possibilità di condannarlo al rogo, anzi il nuovo papa Innocenzo VI nel 1353 lo scarcerò affidandogli la missione di tornare a Roma per riportare di nuovo ordine nella città caduta nella più completa anarchia. Ma egli non era più l’uomo di prima e la fiducia popolare in lui era definitivamente scossa. Rientrò in Roma come senatore nominato dal papa il 1° agosto 1353. Ma l’8 ottobre in una congiura promossa dai Colonna e dai Savelli, che riuscì abilmente ad ottenere il favore di una parte del popolo, l’ex tribuno veniva orribilmente trucidato. Il suoi compromessi finali e la morte stessa ingloriosa non possono, però, far dimenticare l’opera da lui compiuta per gl’ideali di libertà, di giustizia e di rinnovamento dell’Italia intera.

Cota di Rienzo, travestito, cerca di fuggire; ma è riconosciuto ed ucciso (disegno di Schiavocampo)

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