CONVIVIO – Dante Alighieri

IL CONVIVIO

È nome metaforico, indicante il convito, o banchetto di scienza e di sapienza, che Dante offre ai suoi lettori. A tale fine si sarebbe prestato il commento di quattordici canzoni del poeta, già diffuse nel pubblico, e “si d’amore, come di vertù materiate”; un commento, come usava nelle scuole: che, partendo dal testo, e dai vocaboli del testo presi per sé ed in sé, divagasse per tutti i campi dello scibile; dove ne sarebbe venuta una specie di caotica enciclopedia, una esposizione di dottrine senza organismo. In realtà, Dante non riuscì che a commentare tre delle canzoni: due d’amore: le due, già ricordate, per la donna gentile della Vita Nuova: e una canzone morale, quella sulla Nobiltà. Sono dunque tre i trattati che costituiscono il corpo del Convivio; ai quali aggiungendone uno d’introduzione, avremo che tutta l’opera risulta di quattro trattati, anziché di quindici come era nella intenzione dell’autore.

Per le allusioni a fatti e a condizioni politiche che appartengono agli anni giovanili di Dante, si deve ammettere che il trattato composto per primo sia stato il quarto: forse quando l’autore era tuttavia in patria. Nel trattato invece di introduzione l’autore afferma che, peregrino e mendico, egli ha visitato quasi tutta l’Italia; e mostra uno stanco desiderio di ritornare in Firenze; potrebbe perciò quel trattato essere stato scritto dopo la morte di Arrigo VII. Nell’intervallo tra il quarto e il primo furono composti gli altri due trattati.

Forse perché si diede tutto alla Commedia, l’autore abbandonò l’opera, che ben poco del resto avrebbe aggiunto, non dico alla sua grandezza, ma alla sua fisonomia. I trattati del Convivio sono l’espressione non di Dante, ma della cultura delle scuole. Il più bello è il primo, dove l’autore sente il bisogno di riabilitarsi agli occhi dei troppi che l’hanno veduto, nella miseria dell’esilio, minore della sua fama, o che l’hanno creduto instabile amatore. Egli mostrerà che molte delle sue rime d’amore andavano intese allegoricamente: come veste di una dottrina, di cui egli ora farà partecipi non tanto le moltitudini, quanto più cavalieri, e le donne gentili: quella classe sociale, insomma, che non poteva essere ammaestrata nel latino che ignorava, e verso la quale movevano le simpatie del “ghibellin fuggiasco”. Ma l’autore sa che per la prima volta il volgare era adoperato in una prosa propriamente scientifica o scolastica: ardimento, che non si era finora consentito che al francese. Contro i denigratori del volgare proprio, ed esaltatori dell’altrui, Dante ha parole piene di collera; e dimostra poi, con un procedimento per verità troppo pedantesco, che a un testo volgare non può accompagnarsi che un commento parimente volgare; con piena coscienza; del valore di quella lingua, che a lui appariva come la lingua gloriosa del domani. .

Nel secondo trattato si premette che le scritture tutte vanno intese in quattro sensi: il letterale, che é quello che la parola dice per se stessa; l’allegorico, che è la verità concettuale rappresentata sensibilmente dal senso letterale: cosi Orfeo che muove le pietre significa il saggio che commuove i cuori crudeli; il morale, che è un ammaestramento per la vita, che si può ricavare dal racconto, come accade per vari passi evangelici; l’analogico (parola greca che significa volto all’insù), che consiste nel riferire a significazione della vita eterna le cose della vita terrena: come il passaggio di Israele dall’Egitto nella Terra promessa, al passaggio dell’anima dalla terra al cielo. Dante lascia poi da parte il senso morale e l’anagogico, che non fanno per le sue canzoni; ed espone, prima letteralmente poi allegoricamente, la canzone Voi che intendendo il terzo ciel movete. L’esposizione letterale gli offre occasione a diffondersi nei campi della dottrina, come usava allora. Il solo primo verso porge all’autore modo di parlare dei cieli, secondo il sistema Tolemaico, e della corrispondenza fra i sette cieli e le scienze del trivio e del quadrivio.
Nel senso allegorico la donna gentile è, o, più probabilmente, é divenuta per il Dante del Convivio, la filosofia: e tutto ciò che ha riferimento alla donna va riferito alla filosofia: gli occhi di lei sono le dimostrazioni, le tribolazioni dell’amatore sono i dubbi, e cosi via. Le lodi alla filosofia suonano non meno generiche che copiose; ed è inutile dire che per Dante la filosofia non e affatto – come fu poi e come é oggi – nuova interpretazione della vita, e libertà di indagine. La filosofia è per lui semplicemente l’amore fervido del sapere, e la guida alla teologia.

Nel trattato terzo – che commenta, prima nel senso letterale e poi nell’allegorico, la canzone Amor, che nella mente mi ragiona – continuano le lodi generiche della filosofia o della sapienza, e forse non ha importanza che la teoria. dell’amore, che ritroviamo non molto differente nella Commedia; il quale è la volontà, consapevole o inconsapevole, dell’anima di unirsi alla sua fonte prima, Dio.

Il quarto trattato – assai più ampio – non ha con i precedenti nessun legame. Commenta la canzone morale Le dolci rime d’amor, ch’ i’ solia, sulla Nobiltà: e non essendo la canzone allegorica, qui non ha luogo che il commento letterale. Quel Dante che, nell’alto dei cieli, si vanterà della nobiltà del sangue, qui, nel definire la nobiltà, o, come egli dice, la “gentilezza”, non dà nessuna importanza alla antichità della stirpe, né alla ricchezza; ma tutta la riduce a esercizio di virtù. Combatte così una definizione dell’imperatore Federico II; e la qualità di imperatore gli dà occasione a parlare dell’origine divina dell’Impero, e della natura di esso, senza perciò accennare alla sua indipendenza dalla Chiesa, come farà, dove ritornerà sullo stesso argomento, nel De Monarchia. La teoria sull’origine del peccato, derivante da un errore dell’anima, che cerca la felicita, e crede di trovarla nelle cose terrene, e in esse si riposa (teoria, che sarà poi espressa in un canto del Purgatorio), forma una delle pagine più notevoli di questo trattato.

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