DE VULGARI ELOQUENTIA – Dante Alighieri

DE VULGARI ELOQUENTIA

Si potrebbe riconnettere con quel primo trattato del Convivio, dove si fanno le lodi del volgare, ed dove già si accenna, come a libro meditato da Dante, a questo trattato, la cui composizione si pone nei primi anni dell’esilio. È scritto in latino, perché doveva arrivare a tutti i dotti, anche a quelli che non capivano il volgare, o non avrebbero letto per disdegno un libro scritto in volgare. L’opera doveva consistere di quattro libri; ma non si hanno che il primo libro, in diciannove capitoli, e quattordici capitoli del secondo.
La parte principale dello scritto mira a determinare i limiti o i caratteri del volgare, e più precisamente del volgare illustre, in cui dovevano essere scritte le rime e le prose di più alto stile; e la parola eloquentia è probabile che significhi semplicemente linguaggio. L’autore, secondo la maniera della scuola, divaga in premesse che per noi non hanno più nessun valore. Dalla confusione degli idiomi intorno alla torre di Babele sorsero tre gruppi di lingue: quelle degli abitanti meridionali di Europa (il francese, lo spagnolo, l’italiano); quelle degli abitanti del Nord (che corrisponderebbero alle lingue di origine germanica); quelle degli orientali, che, secondo Dante, sarebbero rappresentate dal greco.
Ma perché, per varie cause, i linguaggi si vanno corrompendo, ecco la necessita di un linguaggio condotto secondo norme e principii immutabili, di un linguaggio di arte, che l’autore chiama grammatico. E tale fu, per le lingue del mezzogiorno di Europa, il latino. Il quale, dunque, nella mente di Dante, non precede le lingue che, appunto perché noi ammettiamo quella precedenza, chiamiamo neo-latine: come l’italiana; ma viene dopo di esse; e in sempre lingua letteraria, che si apprende nelle scuole, e non dalla madre. Dante, limitandosi poi ai volgari dell’Europa meridionale, fa la triplice distinzione di lingua d’oil (o francese), di oc (o provenzale e spagnola) e di (o italiana); e si ferma a discorrere della lingua del : specialmente del volgare illustre  che si dovrebbe scrivere – anche più che parlare – dagli Italiani, almeno nelle pin alte forme di componimenti.

Quale sia l’origine del volgare illustre italiano Dante non dice: lo dà come già esistente. È probabile, che egli riconosca uno stato di cose, rispetto alla lingua, non molto diverso dal presente: cioé la coesistenza dei singoli dialetti e di una lingua universale per le classi colte. Egli chiama i dialetti col nome di volgari municipali e con vari appellativi quel volgare superiore: illustre, cardinale, perché dovrebbe dar legge – come lingua grammaticale che esso è – a tutti i volgari municipali; aulico o curiale, perchè dovrebbe essere parlato nella corte, se l’Italia avesse una corte. Dante lo trova adoperato nei due centri maggiori della cultura italiana: della cultura cavalleresca e della scolastica, dai poeti della scuola siciliana e dai poeti bolognesi, o almeno dal suo “massimo” Guido. Di quel volgare illustre, comunque, si avverte la presenza in ogni città italiana, ma esso non risiede in nessuna. Tutti i dialetti Dante giudica sfavorevolmente. Quello dei Romani è il turpissimo di tutti i volgari italiani; non molto migliore quello degli Anconitani e degli Spoletani, dei Milanesi e dei Bergamaschi. I Sardi non hanno neppure il volgare; sono scimmie che imitano il latino. Che dire poi dei Genovesi, il cui dialetto non esisterebbe più, se si togliesse la zeta: e dei Romagnoli, molli ed effeminati? Dei dialetti toscani si fa strazio: del volgare dei Fiorentini, dei Pisani, dei Lucchesi, dei Senesi, degli Aretini; quello dei Toscani é non un volgare, ma un “turpiloquio”; e i loro rimatori, con alla testa Guittone, sono detestabili; benché non siano mancati di quelli che hanno saputo usare il volgare illustre, come Cino da Pistoia.

Il secondo libro incomincia con la enunciazione di un solenne principio estetico: non tutti quelli che scrivono in volgare devono attenersi al volgare illustre; perché ci deve essere proporzione e convenienza tra materia e forma. Nel volgare illustre si hanno a cantare le cose più importanti all’uomo: l’amore, le armi, la rettitudine; dove il poeta osserva che in Italia si cantò in volgare illustre l’amore (come fece Cino); la rettitudine (come l’amico di lui, cioè egli stesso; con allusione alle canzoni allegoriche e morali); ma non é sorto ancora chi abbia cantato le armi. Viene quindi l’autore a distinguere, come una volta usava, le varie specie di stili: il tragico, o superiore, il comico, o inferiore, l’elegiaco, o stile degli infelici. Allo stile tragico si conviene il volgare illustre, al comico si può convenire anche il volgare mediocre e l’umile; il volgare umile vuole essere adoperato nello stile elegiaco. L’autore parlerà di tutti gli stili, e dei componimenti che si convengono a ciascuno; e prima dell’altissimo di essi, della canzone: a tentar la quale non basta l’inspirazione, ma ci vuole grande dottrina ed arte; e qui una botta contro i presuntuosi che, privi dell’una e dell’altra e fidando nella sola natura, si danno a cantare in alto stile le pin alte cose: oche, che vogliono imitate l’aquila. Tutto il resto poi del libro è uno studio sulla costituzione metrica della stanza della canzone.
L’autore discorre anche lungamente della natura e bellezza dei vocaboli: irsuti o pettinati, campestri o urbani, maschili o femminili; rilevando quanta nascosta arte o artificio era nella canzone provenzale, della quale principalmente egli desume le sue norme.

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