DE MONARCHIA – Dante Alighieri

DE MONARCHIA

L’Impero è necessario al buon governo del mondo? È esclusivo appannaggio di Roma? Infine: la sua autorità deriva da Dio o dal papa? È Dante stesso a porre le questioni dottrinali che intende affrontare nel suo trattato. Forme e lingua – il latino – sono quelle tradizionali della trattatistica del suo tempo; rivoluzionarie invece le tesi sostenute, quelle intemptate veritates che fanno della Monarchia l’espressione dell’eterna tensione tra due poli, lo spirituale e il temporale, e l’innovativa, originalissima rielaborazione di un ampio retaggio d’idee e di dottrine.

Il De Monarchia è l’espressione delle idee di Dante intorno al perfetto governo della società umana; opera diretta a filosofi e giuristi, e scritta anch’essa in latino. Forse fu composta negli anni della discesa di Arrigo VII; per quanto manchino allusione ad uomini e fatti del tempo: ed abbia valore, per sé ed in sé; per cui alcuni pensarono che fosse opera non di polemica, ma di meditazione, scritta nell’età più matura.

La Monarchia é l’impero; e lo scopo dell’opera è di mostrare la necessità di esso e la sua autonomia o indipendenza dall’autorità ecclesiastica. Per impero Dante non intende affatto un’autorità tirannica, che sopprima la libertà e distrugga la fisonomia dei singoli popoli; pure sotto un solo impero, é lecito ai popoli governarsi, internamente, secondo le proprie leggi e le tradizioni.
Esso è voluto per la pace universale. L’importanza, poi, del trattato consiste massimamente nell’avere l’autore data alla politica una base tutta razionale, e separato lo Stato dalla teocrazia, e combattuto con chiara coscienza il dominio civile della Chiesa; alla quale Dante consentirà anche di possedere beni, ma non ghia come proprietaria,  bensì come amministratrice e dispensatrice di essi, a favore dei poveri. Ma se le idee fondamentali del trattato precorrono i tempi, le argomentazioni non escono dai tempi, e non tutte hanno per sé valore, o grande valore.

Il trattato è diviso in tre libri: nel primo si sostiene la necessità di un solo imperatore; e sull’esempio dell’unità, che è nell’ordine del mondo, e alla quale Dante aspira per tutte le vie, e per la necessità che nel mondo ci sia la pace, grazie alla quale soltanto l’uomo può sviluppare la vita superiore dello spirito, la vita contemplativa.

Il secondo libro dimostra che Dio ha conferito il diritto dell’impero al popolo romano: che l’autore considera un popolo eletto, da quanto il popolo d’Israele.
La storia del popolo romano è storia di miracoli: che tali sono per Dante i fatti eroici di quel popolo. Dio fu con lui, sempre; né egli abusò del favore divino; poiché mirò non alla conquista, ma a diffondere nel mondo la giustizia. C’è di più: nascendo sotto Ottaviano, e facendosi giudicare da Ponzio Pilato, rappresentante di Tiberio, Gesù Cristo stesso riconobbe e sancì l’autorità imperiale. Il popolo romano è, dunque, in astratto, l’elettore dell’imperatore.  Che allora l’imperatore fosse tedesco, non importa. Per Dante il fatto non menoma mai il diritto. Nei grandi elettori di Germania erano passati i diritti del popolo romano. Certo però Dante pensava – come nella Commedia – che l’imperatore dovesse risiedere a Roma; voleva che l’Italia fosse chiamata a reggere essa il mondo.

Il terzo libro è il più audace, è quello che oppugna più direttamente l’autorità della Chiesa, o meglio i decretalisti, o interpreti del diritto canonico, i quali sostenevano che l’imperatore é subordinato al papa. Dante combatte vittoriosamente i sofismi dei decretalisti, che in gran parte mettevano capo a interpretazioni allegoriche dei libri sacri, le quali noi ci meravigliamo che potessero mai valere per prove. Così, per esempio, il sole e la luna significarono – già in un famoso documento di Gregorio VII, il pin autocratico dei pontefici – il papato e l’impero; e come la luna riceve la luce dal sole, cosi l’impero doveva trovare nel papato la sua ragion d’essere.
Parimente Pietro, in un luogo dei Vangeli, è detto avere due spade; ma il papa successore di Pietro anch’egli doveva avere quelle due spade, che rappresentavano, naturalmente, il potere spirituale e il civile. Più forti erano gli argomenti storici: Costantino (cosi allora si credeva) aveva egli stesso ceduto Roma al pontefice; ma Dante osserva che Costantino fece semplicemente ciò che non doveva: l’impero, per sua natura, essendo uno e indivisibile. Che se il papa aveva incoronato Carlo Magno, il primo dei nuovi imperatori d’occidente, non aveva che riconosciuto un’autorità già esistente. E contro tutti i sofismi, Dante ripete chiari i luoghi del vecchio Testamento, che vietavano al sacerdozio di possedere beni terreni: e i passi del Vangelo, che condannano le ricchezze, e la risposta, che non ammette equivoci, di Gesù a Pilate: Il mio regno non è di questo mondo.

Verso la fine del trattato, Dante afferma eloquentemente i suoi principi politici. L’uomo è cittadino e cristiano: vive in questa vita e vibra in un’altra. L’Impero, storicamente più antico della Chiesa, e, nell’idea divina, eterno come essa, è la guida dell’uomo civile, in questa vita, come la Chiesa è la guida dell’uomo spirituale, per l’altra. Se la Chiesa poggia su insegnamenti teologici, l’Impero poggia su insegnamenti filosofici, che emanano egualmente da Dio. Impero e Chiesa sono non subordinati l’uno all’altra, ma ambedue coordinati a Dio.

Per le sue audaci idee, il De Monarchia, sette anni dopo la morte di Dante, fu fatto bruciare dal cardinale Bertrando Del Poggetto, legato del papa nelle parti di Lombardia, e rimase per molto tempo nell’Indice dei libri proibiti.

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