DANTE ALIGHIERI – Vita e opere

Dante Alighieri (1495)
Sandro Botticelli (1445 – 1510)
Collezione privata
Tempera su tela

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Dante Alighieri è giustamente considerato uno dei maggiori poeti della letteratura italiana. Egli nacque a Firenze nel 1265, da un’antica famiglia nobile, ormai decaduta. Una certa agiatezza economica gli permise di studiare e di acquisire una cultura vastissima, approfondendo in modo particolare la teologia e la filosofia.
Non rimase estraneo agli eventi culturali e politici del suo tempo, poiché iniziò ben presto a coltivare la poesia e insieme a Guido Cavalcanti e a Lapo Gianni fondò la scuola del “dolce stil novo”; nel 1289 prese parte alla battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo. Dopo il matrimonio con Gemma Donati, nel 1295 cominciò a prendere parte attiva alla vita politica cittadina e, per poter essere eletto nelle cariche pubbliche del Comune, si iscrisse alla Corporazione dei medici e degli speziali. In questo periodo Firenze era profondamente lacerata dalle lotte tra due fazioni opposte del partito dei Guelfi: i Bianchi, favorevoli all’autorità imperiale, e i Neri, che appoggiavano la politica del papa. Dante si schierò con i primi, poiché egli sognava una Chiesa estranea agli interessi terreni, che si occupasse solo del potere spirituale. Ciò lo fece entrare in urto con il pontefice Bonifacio VIII, che non nascondeva le sue mire temporali. Quando il partito dei Neri prese il sopravvento, per i Bianchi fu la rovina: furono banditi dalla città e i loro beni furono confiscati. Dante subì la stessa sorte, fu costretto ad abbandonare Firenze (1302) e ad andare in esilio, chiedendo ospitalità ai vari Signori della penisola.

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Dante in un ritratto del XV sec. Il sommo poeta fu essenzialmente un autodidatta; si sa che seguì un corso di legge a Bologna, ma senza conseguirvi la laurea.

 

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Conobbe così l’umiliazione della povertà e della dipendenza dalle decisioni altrui. Nel 1306 fu ospite dei marchesi Malaspina in Lunigiana; in seguito, nel 1315, soggiornò a Verona presso Cangrande della Scala; lasciata la città nel 1320, fu accolto da Guido Novello da Polenta, Signore di Ravenna. Qui morì nel 1321, dopo essere riuscito a portare a termine la sua opera maggiore, la Divina Commedia.
Prima dell’esilio, Dante aveva scritto un discreto numero di componimenti poetici in lingua volgare, soprattutto d’argomento amoroso e dottrinale. Al centro della sua riflessione vi ë la figura di Beatrice, donna amata segretamente dal poeta, esaltata e cantata secondo la maniera stilnovistica. Dopo la morte prematura della giovane (1290), Dante rielaborò e raccolse le poesie a lei dedicate, aggiungendo una parte di prosa, di raccordo tra una e l’altra lirica, dando all’opera il titolo di Vita Nuova (1294). Ma la produzione più ricca e l’attività intellettuale più fervida coincisero con il periodo dell’esilio.
Alcune opere rivolte al pubblico dei dotti e degli intellettuali furono scritte in latino. Si tratta del De vulgan eloquentia (La lingua i volgare, 1303-5) e del De Monarchia (La Monarchia, 1313-18). Nella prima Dante affronta il problema della lingua e si chiede quale dei dialetti italiani possa essere degno di divenire il “volgare illustre”, in grado dì sostituire il latino. Dopo un’attenta analisi, conclude che occorre selezionare con cura i vari dialetti. Tuttavia nella pratica Dante farà uso del fiorentino, lingua già utilizzata e resa famosa dagli stilnovisti. Nel De Monarchia, redatto quando discese in Italia l’imperatore Arrigo VII, il poeta espone la propria visione politica, criticando aspramente i desideri egemonici di Bonifacio VIII.
In lingua volgare furono redatti il Convivio (1304-7) e la Divina Commedia (1306-21). Nel Convivio (che significa “banchetto”, “convito”) vuole invitare al banchetto della conoscenza uomini e donne che sanno poco di filosofia e di teologia, dottrine da sempre esposte in latino, e desidera perciò dar loro modo di apprendere questi complessi argomenti attraverso il volgare. Quest’ultimo è ritenuto da Dante ormai una lingua matura e in grado di trattare temi complessi e a carattere intellettuale.

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Qui sopra, lo schema della Terra secondo Dante in una miniatura del XV secolo

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La Divina Commedia fu iniziata intorno al 1306-07. Il suo titolo originale era Comedia o Commedia e ciò è giustificato dal fatto che il poema si apre con una visione cupa per terminare con un lieto fine e dal fatto che lo stile usato non è duello – secondo i canoni medievali – di un’opera dotta. Fu lo scrittore Giovanni Boccaccio ad attribuirgli l’appellativo di Divina, dato il contenuto a carattere religioso dell’argomento trattato.
La Divina Commedia consta di 14.233 versi endecasillabi (cioè formati da undici sillabe), suddivisi in terzine a rima incatenata. È formata da tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso; la prima comprende 34 canti, mentre le altre due raccolgono ognuna 33 canti, per un totale di 100 canti complessivi. L’argomento dell’opera è un viaggio immaginario compiuto dal poeta stesso nell’aldilà: egli, partendo dalla Terra, si inabisserà prima nell’Inferno, per poi risalire al Purgatorio e infine ascendere al Paradiso. Nello svolgimento di quest’itinerario fantastico il protagonista rappresenta simbolicamente la sua progressiva liberazione dal peccato, fino a giungere alla redenzione e alla purificazione dell’anima. Durante questo viaggio nell’oltretomba Dante è accompagnato da tre guide: l’ombra di Virgilio lo conduce attraverso l’Inferno e parte del Purgatorio, fino all’Eden; Beatrice, la donna amata dal poeta in gioventù e che l’ha indotto a seguire la via del bene, lo guida fino all’Empireo, e infine San Bernardo conclude la missione fino a mostrare a Dante la gloria di Dio.

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Le ombre di Francesca da Rimini e di Paolo Malatesta appaiono a Dante e Virgilio, titolo completo della tela, si ispira al V canto dell`Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri.

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Il poema, pur avendo al centro la figura dell’autore in prima persona e il suo cammino interiore (perdizione, pentimento e salvazione), è ricco di elementi umani e di personaggi, ognuno dei quali ha una sua vicenda da raccontare o da ricordare. La fantasia di Dante fa parlare le anime perse di Paolo e Francesca, di Ulisse, di Farinata degli Uberti, del conte Ugolino e di molti altri nell’Inferno; ci mostra il dolore misto a speranza di Casella, Manfredi, Belacqua e Sordello nel Purgatorio; delinea con estrema raffinatezza di toni gli stati d’animo di San Francesco, San Domenico e Cacciaguida nel Paradiso. La natura umana è dipinta in tutte le sue sfumature, intrecciando con sapienza i due piani dell’umano e dell’eterno. L’autore, mosso dalla fede cristiana, affresca cosi un sogno grandioso, un mondo nuovo in cui Chiesa e Impero non si urtino, ma si integrino a vicenda, dove la violenza distruttrice, che divide gli uomini all’interno del Comune, venga meno, Nel dipingere questo gigantesco quadro ricco di vizi e di virtù fa uso di simboli e di allegorie (rappresentazioni di idee o concetti mediante figure o simboli) e padroneggia sapientemente il volgare fiorentino, fondendolo con latinismi, forme dialettali e neologismi. Mostra inoltre quanto ampia sia la sua cultura di intellettuale medievale, spaziando dalla teologia alla filosofia, dalla fisica all’astronomia, in un gioco di soluzioni poetiche sempre diverse.
Se, dunque, l’idea di un viaggio ultraterreno non era nuova nella letteratura classica e medievale (dall’Odissea all’Eneide virgiliana, dalle Metamorfosi di Ovidio agli autori medievali), tuttavia Dante con la sua potente fantasia riesce a elaborare un poema del tutto nuovo nella forma e nei contenuti, sintesi perfetta della sua epoca, ove il mondo umano e terreno del cittadino comunale si fonde con la fede e la speranza del cristiano.

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Dante e Virgilio di fronte alla lingua di fuoco in cui è imprigionata l’anima di Guido da Montefeltro (Inferno, canto XXVI)

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