IL FRONTONE DI TALAMONE

IL FRONTONE DI TALAMONE

Il frontone di Talamone è un elemento architettonico triangolare con rilievi mitologici, che coronava il centro della facciata di un tempio della civiltà etrusca.

Il ritrovamento e la ricostruzione de frontone di Talamone costituiscono uno dei capitoli più avvincenti dell’archeologia etrusca. Gli esempi di scultura fittile in nostro possesso sono molto frammentari e non ci consentono di ricostruire con sufficiente precisione il contesto da cui provengono. Si sa, ad esempio, che l’Apollo di Veio, attribuito al grande artista Vulca, decorava il frontone di un tempio; ma dagli altri materiali scoperti in situ possiamo tutt’al più supporre che il santuario fosse dedicato a Minerva.

Nel caso del frontone di Talamone, invece, i reperti furono di tale entità da permettere una ricostruzione attendibile del frontone. Seguiamo dunque per sommi capi la storia affascinante del suo ritrovamento e del restauro che ne è seguito.

A Talamone – pochi chilometri a nord del promontorio dell’Argentario – esisteva una vecchia fortezza. Qui, come racconta Giuseppe Bandi nei suoi Mille, Garibaldi, in viaggio per la Sicilia, sosto con le sue navi, ricevendo dalla guarnigione una certa provvista di armi. Nel 1892, però, il governo italiano decise di costruire un nuovo forte sul colle del Talamonaccio e, nel corso degli scavi, vennero alla luce i resti di un tempio etrusco distrutto evidentemente da un incendio. Purtroppo, quando il professor Luigi Adriano Milani – lo studioso fondatore del Museo archeologico di Firenze – si occupò del fatto, era troppo tardi per poter rilevare la planimetria del santuario e per individuare il sito esatto in cui erano stati ritrovati i resti: i lavori erano andati avanti e l’area di scavo colmata. Dovette dunque accontentarsi di far trasportare i reperti a Firenze, nell’intento di ricostruire la composizione originale.

E qui il grande studioso cadde in un errore piuttosto comune in un’epoca, come la sua, in cui le testimonianze storiografiche e letterarie venivano assunte meno come termine di confronto e di verifica che come punto di partenza per l’indagine archeologica. Si sapeva che nel 225 a.C. due re galli, alla testa di un numeroso esercito, erano stati sconfitti dai romani a Talamone, e che quella battaglia aveva determinato la definitiva rinuncia dei galli a invadere il suolo italico (all’epoca limitato a nord al Rubicone). Milani pensò dunque che il frontone alludesse a quell’episodio, perché molti frammenti sembravano scene di guerra: ricostruì allora il puzzle in questo senso. Restava un ”ma”: l’unica figura chiaramente riconoscibile raffigurava il cieco Edipo, nell’atto di levare le braccia in segno di disperazione. Probabilmente, si disse lo studioso, la scultura si trovava all’interno del tempio: e procedette a montare il frontone secondo la sua teoria. Per figura centrale – che, come nei frontoni dei templi greci, serve a unire le due ali della composizione – scelse un genio alato.

Ma quale significato attribuire a Edipo? Qui Milani si arrampicò davvero sugli specchi: l’eroe greco, noto per il suo tragico destino, avrebbe avuto la funzione di ammonire i due partiti – i democratici di Mario e gli aristocratici di Silla – che sconvolgevano allora la penisola in una sanguinosa guerra civile. Datò quindi il fregio al decennio 90-80 a.C.

Il frontone rimase nel Museo archeologico fiorentino così come era stato montato da Milani nel 1921. Nel 1956, però, una missione archeologica tedesca, guidata dal professor Otto Wilhelm von Vacano (Erstein, 5 maggio 1910 – Tubinga, 20 aprile 1997), riportò alla luce le fondamenta del tempio. Gli studiosi notarono che la facciata era più larga del frontone del Museo Archeologico (metri 7 x 2): di conseguenza le statue esistenti andavano risistemate in modo da riempire il grande triangolo (metri 12 X 4 di altezza massima).

Dagli scavi emersero inoltre altri frammenti.

Il 4 novembre 1966 la piena dell’Arno, irrompendo nelle sale del museo, sommerse il frontone. Il restauro che ne seguì rappresentò l’occasione ideale di un definitivo rimontaggio, che avvenne sotto la guida dello stesso von Vacano e della studiosa tedesca Bettina von Feytag. I lavori, terminati nel 1981, hanno restituito l’opera all’ammirata curiosità dei visitatori (1982).

La datazione è riferita oggi, con poche possibilità di errore, a circa la meta del II secolo a.C. Le lastre di terracotta, originariamente dipinte, erano state modellate, cotte e montate una per una sulla sommità del santuario.

E il tema rappresentato? Si tratta dell’atto finale della vicenda dei Sette contro Tebe, il celeberrimo mito della mitologia greca che dette origine alle tragedie I Sette contro Tebe di Eschilo e alle Fenicie di Euripide. Al centro, il cieco Edipo assiste inorridito alla lotta fratricida che vede opposti i suoi due figli, Eteocle e Polinice, il primo in qualità di difensore di Tebe, il secondo alla guida degli eroi giunti da Argo per conquistare la città (Adrasto, Tideo, Ippomedonte, Partenopeo, Capaneo e Anfiarao). Il massacro con cui si conclude il mito (l’ultimo esito del fato di Edipo stesso) rappresenta sul piano simbolico un richiamo contro la hybris, termine con cui i Greci definivano il tentativo da parte dell’uomo di trascendere, nel bene o nel male, i propri limiti.

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