FILOSOFIA DI PLATONE

Insufficienza della teoria socratica del concetto 
L’idea platonica

PLATONE

Immaginiamoci questo ateniese, giovane, ricco, lontano discendente di Codro e di Solone, educato con tutta la raffinatezza e la compiutezza di cultura proprie d’una famiglia come la sua, in una città come Atene e in un tempo come la fine del secolo d’oro, e favorito dalla fortuna d’aver incontrato, seguito, amato un uomo come Socrate, immaginiamolo, dico, sul momento di lasciare, colpito e pensoso, la città all’indomani della tragedia di Socrate, che egli aveva tentato invano di salvare. Nato nel 428 a. C. aveva allora 29 anni ed era forte di corpo e di spirito. Viaggiò per dodici anni, passando dall’Asia Minore all’Egitto, da qui a Cirene, poi nella Magna Grecia e infine in Sicilia, raccogliendo ovunque larga messe di conoscenze ed elaborandole nel suo spirito profondo.
Naturalmente fece anche una ricca esperienza della vita sociale e politica, che risvegliò in lui l’amore alle questioni politiche, comune agli Ateniesi e in lui particolarmente vivo anche per eredità di famiglia.

Fu appunto quest’amore che gli fece tentare, presso Dionigi di Siracusa, le sue esperienze politiche. Pare non riuscisse troppo brillantemente; a ogni modo, cadde in disgrazia del tiranno; potè con difficoltà sottrarsi alla sua ira e tornare in patria. Quivi aprì una scuola filosofica presso il ginnasio dell’Accademia.
L’indole aristocratica di Platone e anche certe ovvie precauzioni gli consigliarono di tenere una scuola chiusa, riservata agli iscritti regolarmente: fu la celebre Accademia, frequentata a lungo da Aristotele.
Morì nel 348 a. C.

Platone insegnava, studiava, scriveva. Aveva avuto non pochi maestri e amici anche illustri, come l’eracliteo Cratilo e il pitagorico Archita, ma i suoi numi tutelari erano due: la propria divina ragione e Socrate immortale. Mai, nel campo della cultura, monumento più grande fu elevato alla memoria del proprio maestro da un filosofo artista. Nei Dialoghi di Platone, Socrate è vivo e parlante, materialmente e spiritualmente. Anche in quelli, in cui la dottrina dell’autore è nettamente personale, Socrate non manca.

Sembra che nell’insegnare Platone preferisse il metodo dialogico, da lui usato generalmente anche nello scrivere. Il dialogo rende la trattazione più viva e drammatica. Platone era filosofo e poeta. Passano sotto il suo nome 36 scritti; ma pare non siano tutti genuini. Vennero ordinati in gruppi di quattro, detti tetralogie, dal neopitagorico Trasillo. Ecco il nome dei principali Dialoghi, con l’indicazione dell’argomento:

a) di accentuata inspirazione socratica: Apologia (autodifesa di Socrate), Critone (o dell’ubbidienza alle leggi), Eutifrone (o della santità), Protagora (o della sofistica);  .
b) di sviluppo della dottrina platonica: Gorgia (o della retorica), Menone (o della virtù), Fedone (o dell’immortalità dell’anima), Convito (o dell’amore), Fedone (o della bellezza), Repubblica (o dello Stato);
c) di rielaborazione critica: Teeteto (o della conoscenza), Parmenide (o delle Idee);
d) di sistemazione: Filebo (o del piacere), Timeo (o della Natura), Le Leggi (o dello Stato). Questi ultimi Dialoghi risentono di neopitagorismo.

FILOSOFIA DI PLATONE

1) DIALETTICA E TEORIA DELLE IDEE –  Platone tende a una sintesi completa della filosofia. Ritorna alla speculazione unitaria presofistica, attraverso il perfezionamento portato dal motivo umanistico dei sofisti, dalla loro critica e dall’intento e metodo di Socrate. Sono presenti in lui le esigenze delle più alte concezioni filosofiche del passato, che vengono da lui sottoposte a nuova elaborazione e risolte alla luce e col criterio d’una intuizione e valutazione personali della realtà, dando luogo a un sistema filosofico, che ha sempre formato l’ammirazione dei dotti e ha improntato di sè molta parte della cultura che si è svolta dalla Grecia antica a noi.

Anche per Platone il mondo sensibile non è che realtà apparente e quindi imperfetta e transitoria, che ci rinvia, a una realtà vera, perfetta, eterna. Come uomini legati all’imboccatura d’una caverna, con le spalle volte all’esterno, i quali vedono proiettarsi sul fondo soltanto l’ombra di quanto c’è e avviene di fuori tra essi e il sole, così noi, coi sensi, non vediamo che ombre. Le cose sensibili sono l’ombra della vera realtà, sono immagini, imitazioni. Se ci affidiamo al solo senso, prendiamo naturalmente quelle ombre per realtà e su di esse e i loro movimenti costruiamo una scienza, che sarà sempre scienza di apparenze. La filosofia ci libera, ci fa riconoscere che quelle sono ombre, ci volge verso la luce, perchè vediamo la realtà com’è. È la riflessione, opera della ragione, che ce lo permette; è il pensiero che vince il senso, ma a fatica, perchè, prigionieri del corpo, siamo abituati a credere le sensazioni più reali dei pensieri. Ma la via da percorrere è quella tracciata dalla filosofia, e si chiama dialettica. Per essa, dalle opinioni, legate ai dati sensibili, che sono particolari e formanti la realtà apparente, si passa, ragionando, ai concetti, che hanno per oggetto enti di natura intelligibile ed universale, formanti la realtà vera. Dall’ombra del sensibile si entra nella luce dell’intelligibile. Pertanto si ha una duplice forma di realtà.

L’integrazione, che Platone fece della dottrina socratica del concetto, consiste nell’aver attribuito al contenuto di esso un valore di realtà (ontologico), oltre al valore di razionalità (logico), Chiamò questo contenuto col nome di Idea. Altra integrazione apportata alla dottrina del Maestro fu di aver superato l’ambito dell’etica, in cui quello si teneva di preferenza. Duplice integrazione, che elimina l’insufficienza del concetto socratico e insieme restaura la perduta coscienza dell’esigenza unitaria universale.

Ma è legittimo questo passaggio dagli oggetti particolari del senso ad oggetti di carattere universale, proprii della ragione, ai quali si attribuisce inoltre un’esistenza reale? Chi ben guardi, vede che è lo stesso problema del molteplice e dell’uno, del divenire e dell’essere, dell’apparente e del reale, che aveva tormentato tutti i filosofi. Platone lo affronta di nuovo in pieno.

Tra i fenomeni particolari e variabili, la mente nostra scopre, come avevano già notato i pitagorici, dei rapporti, che sono le leggi generali e costanti della natura; queste leggi non implicano solo differenze quantitative, ma anche qualitative, e fondano le specie degli esseri. Questi passano, ma le specie restano, realizzando sempre gli stessi tipi. I tipi, dunque, sono immutabili, eterni, essi costituiscono la realtà vera, l’essere. La dialettica, applicata a questa classe di realtà eterne o Idee, esemplari delle cose apparenti nello spazio e nel tempo (mentre esse trascendono spazio e tempo), ci spinge a riconoscervi un Principio unico, Idea-Essere suprema, Ragione di tutto. Questo è Dio, che Platone chiama volontieri Idea-Bene.

Platone risolve, così, la molteplicità nell’unità e implica l’unità nella molteplicità, mediante un doppio passaggio di grado, che è anche passaggio di natura: dalla molteplicità sensibile degli individui di ciascuna specie all’unità intelligibile di questa; dalla molteplicità ideale delle specie reali (d’una realtà, dunque, intelligibile) all’unità reale di esse, Dio. Partendo da Dio e seguendo il processo inverso, si riconosce la derivazione di ogni cosa da Lui. Così, nella filosofia di Platone, la doppia necessità di spiegare l’uno e il molteplice viene appagata in un modo nuovo. Ciò è possibile mediante i passaggi di grado. In ogni Idea c’è un annodamento dell’uno col molteplice, dell’essere col divenire.
Dio, dunque, è per Platone il termine supremo al quale giunge la dialettica; da esso dipende ogni cosa ed esso non dipende da nulla. Esso è Bene, perchè il bene è perfezione; ed è la ragion d’essere d’ogni cosa, appunto perchè è Bene.
Su questa trama fondamentale del platonismo, – costituita dalla teoria delle Idee, dalla dialettica del conoscere e dell’essere, dalla concezione di Dio come Essere e Bene perfetto la cui perfezione è causa dell’esistenza dell’universo, dal conseguente rapporto di questo con Dio, – si intessono le dottrine platoniche derivate.

2) TEORIA DELLA CONOSCENZA – LA REMINISCÉNZA – L’anima nostra è capace di riconoscere le Idee, perchè è della stessa natura intelligibile di esse e viene dal loro mondo, dove già le possedeva. Unitasi al corpo e avvolta nella sua caligine, ha dimenticato quel che sapeva. Tuttavia entra in relazione, mediante i sensi, con le cose e coi fatti del mondo e della società; e, siccome questi e quelle sono imitazioni, o copie, delle Idee, così ne risvegliano in lei il ricordo, a quel modo che un ritratto ci fa ricordare la persona ritrattata, già da noi conosciuta. Pertanto, sapere è ricordare (Teoria della reminiscenza).
Questa famosa teoria platonica della reminiscenza (ἀνάμνησις), esplicita in Platone, implicita nelle dottrina di altri grandi metafisici, si lega, nel suo significato più profondo, con la concezione fondamentale della realtà e della vita, con la giustificazione dei valori morali, religiosi, scientifici. Il domandarci se il nostro conoscere sia originario o derivato, un’umana creazione o invece un ricordo o almeno un riconoscimento, è sollevare il problema del rapporto fra il relativo e l’assoluto, e ciò non soltanto nel campo gnoseologico: è porre il massimo problema dell’essere e del conoscere.
Noi avvertiamo che qualunque atto di pensiero si palesa sempre inferiore all’essere, al “dover essere”; che quando si pensa bene a fondo, bene addentro, si ha la “sensazione” dell’inadeguatezza e dell’imperfezione; che si ha la “sensazione” di qualche cosa che è di più, e si prova il bisogno di una giustificazione sempre più ampia, più profonda, più esauriente; altrimenti non ci sarebbe mai, per il pensiero, nè mistero nè oscurità, e l’errore finirebbe per essere una parola priva di senso. Non è forse sempre inappagato il desiderio nostro di sapere, per il qual desiderio, come dice Dante, nasce

…a guisa di rampollo
Appiè del vero il dubbio…?

Non sente forse l’uomo il bisogno d’un ubi consistam fermo, adeguato, assoluto? Come fermarci al relativo? Che significato avrebbe, del resto, il relativo senza l’assoluto? “Nella vita dell’uomo – dice un filosofo contemporaneo – l’assoluto e il relativo s’intrecciano come due aspetti inseparabili. Sotto un primo aspetto possiamo dire che l’uomo non conosce nulla di assoluto: ogni attività, ogni oggetto, ogni valore, per il fatto solo che è creato o riconosciuto dal soggetto umano, è qualche cosa di relativo. Ma sotto un altro aspetto dobbiamo riconoscere che se non vi fosse nel nostro spirito almeno una traccia, un presentimento dell’assoluto, noi non potremmo nemmeno porre il concetto di “relativo”. In questo concetto è implicito, almeno come negazione, il riferimento che crea le distinzioni e le gradazioni di valore nel mondo  dei relativi”.

Ora, riconosciuta la realtà dell’assoluto e il suo necessario rapporto col relativo, si può derivarne, per la conoscenza, la necessaria immanenza del primo nel secondo, a quello stesso modo che, come vedremo in Aristotele e negli scolastici, vi è una necessaria immanenza dell’idea, o forma sostanziale, nelle cose. La teoria platonica della reminiscenza porta quindi a riconoscere il nostro pensiero come un vario e progressivo “insorgere ed elaborarsi” di coscienza e riflessione nel seno dell’assoluta e reale verità. La qual cosa, dal punto di vista del tempo, sullo sfondo del quale i fatti umani devono essere considerati, può esser ben detta ricordo o reminiscenza (cosicché sembra fondato ritenere che la teoria della reminiscenza apra la via al superamento del dualismo platonico, il quale, d’altronde, pare non abbia, nemmeno nel campo ontologico, quella rigidezza che la tradizione invalsa gli attribuisce).

3) TEORIA DEL MONDO – Oltre le idee, Platone ammette il loro contrario, cioè la materia, che ora chiama l’indeterminato, ora “ciò che riceve la forma”, ora “spazio”, ora e più spesso “non-ente”. Dalla relazione tra le Idee e la materia, relazione attuata per opera di un’ipostasi (personificazione) della bontà e intelligenza di Dio, che Platone chiama Demiurgo (cioè fabbricatore del mondo), vengono all’esistenza le varie specie di esseri, moltiplicate in un’infinità di individui. Perciò, attraverso la loro caratteristica specifica, che li informa e li avviva, gli esseri del mondo sono, imitazioni e partecipazioni delle Idee.

4) TEORIA DELL’ANIMA – Secondo Platone, è costituita di tre parti: razionale, irascibile, concupiscibile. É paragonabile a un cocchio, guidato da un auriga e tirato da due cavalli: l’auriga è l’anima razionale, il cavallo focoso e pronto di destra è l’anima irascibile, il cavallo ansioso e restio di sinistra è l’anima appetitiva. Quel che s’ha da fare è evidente, e è detto nell’etica.

L’anima preesiste al corpo e gli sopravvive. Preesiste, perchè è della stessa essenza delle Idee eterne. Gli sopravvive, per la medesima ragione e per altre.

Eccole: la generazione reciproca infinita dei contrari (morte e vita); la natura semplice dell’anima, per cui essa non può farsi nè corrompersi come il corpo; la partecipazione dell’anima all’idea di vita e la conseguente incompatibilità col suo contrario; il fatto che l’anima muove se stessa ed è principio d’ogni altro movimento; il vedere che il peccato, che è il solo male che possa incoglierle, non la fa perire, come, se non fosse immortale, avverrebbe nel momento stesso in cui l’uomo pecca; l’esigenza morale insita nella bontà, di Dio, che pertanto non può volerla distrutta.

Platone ammette la metempsicosi, limitatamente, come pare, alle anime non ancora pure; quelle pure godrebbero subito e per sempre la vita beata: ne deriva che le anime sono destinate a essere, alla fine, tutte beate. Il Cristianesimo non lo seguì su questa strada.

5) TEORIA DELLA MORALELa virtù è la conformità dell’anima alle Idee, il riconoscimento pratico dell’essere. La saggezza, la fortezza, la temperanza, virtù proprie rispettivamente delle tre parti dell’anima, producono in essa un ordine e un’armonia di funzioni che Platone chiama giustizia interiore. La giustizia esteriore non è che l’attuazione d’un ordine analogo nella società. La giustizia, adunque, è la virtù principale, la virtù comprensiva di tutte.

È naturale che, con questi criteri, Platone non accetti l’identificazione edonistica del bene col piacere o del male col dolore, e che intenda il bene morale come unione di piacere puro e ragionevole con scienza e saggezza. Platonica è anche l’identità del bene, del bello e del vero. Quanto al rapporto fra intelletto e volontà, Platone fa suo il principio socratico che la virtù è scienza e che è necessaria la subordinazione della volontà alla ragione.

6) TEORIA DELLO STATO – Per Platone la politica non è che una morale in grande. Il fine dello Stato è di rendere gli uomini virtuosi e felici. Perciò lo Stato è un organismo etico. E se nell’individuo ognuna delle principali virtù è propria d’una parte dell’anima, nello Stato ciascuna virtù è rappresentata dal compito proprio di ciascuna classe sociale. Ai reggitori dello Stato si addice la saggezza, ai guerrieri la fortezza, ai lavoratori la temperanza; e anche nello Stato il fondamento comune è la giustizia. Al governo devono essere i dotti, i filosofi, come quelli che meglio conoscono le Idee, modelli delle cose della natura e delle azioni umane. Platone aveva pertanto una concezione, oltreché etica, anche aristocratica e gerarchica dello Stato.

Era, la sua, una teoria della competenza, non prevalentemente professionale e tecnica, come nelle concezioni democratiche e naturalistiche odierne, ma morale e spirituale, secondo una concezione religiosa e ideale della vita, qual era quella di Platone, per il quale la gerarchia non era solo condizionata dalla casta, come presso i vecchi popoli orientali, ma soprattutto dal merito intrinseco, acquistato col sapere e con la virtù.

La concezione che Platone aveva di questo suo Stato ideale, in cui doveva regnare completa armonia, lo portò dapprima alle utopie della eliminazione d’ogni interesse privato e della famiglia. Però in seguito temperò assai queste teorie; non ritenne più doversi abolire la proprietà privata, benchè continuasse a intenderla giustamente come funzione sociale; e quanto alla famiglia, ne apprezzò e venerò le leggi e l’alto valore morale.

7) TEORIA DELL’ARTELa teoria platonica dell’arte è moralistica. L’arte deve condurre alla verità e al bene. Ogni opera d’arte che, imitando la natura, la quale è già essa imitazione imperfetta delle Idee, o eccitando le passioni e cosi sottraendole al governo della ragione, allontanata dalla verità e dalla virtù, è da condannarsi. Dobbiamo non pascerci di apparenze, ma poter vedere, attraverso le immagini sensibili, la bellezza ideale e sentire, attraverso le commozioni dell’animo, il piacere spirituale.

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