LA PATRISTICA – MORALE DEI FILOSOFI CRISTIANI

LA PATRISTICA (300-600) 

La rivelazione Cristiana e i fondamenti dottrinali del Cristianesimo

PRELIMINARI

Separiamo dalla storia della filosofia antica la patristica (quantunque appartenga per la massima parte a un’epoca che, dal punto di vista cronologico, non si chiama ancora medioevale) perchè collegata strettamente con la filosofia scolastica del medio evo, in una stessa concezione religiosa della realtà e della vita.
Passiamo sotto silenzio, salvo ciò che è strettamente necessario alla comprensione della trattazione, la storia del messianismo di Cristo, dell’evangelizzazione cristiana, dello spirito di fede e, infine, dell’organizzazione della Chiesa, sia perchè ciò appartiene alla storia “civile in generale e, a quella religiosa in particolare, sia perchè vogliamo limitarci a mettere in rilievo il processo di formazione della dogmatica cristiana sotto il solo aspetto filosofico.

Abbiamo già accennato al valore originale e divino del cristianesimo e all’importanza capitale del suo contributo alla civiltà europea, ma abbiamo anche accennato alle condizioni storiche, morali e culturali, che concorrono a spiegarne il sorgere e l’affermarsi.
Come il diritto universale romano traeva norma dalle filosofie greche, in ispecie dalla stoica, così il pensiero universale cristiano, che è fondato sulla rivelazione divina e fa diretto appello all’intima coscienza e alla fede, traeva nonpertanto germi e sviluppo dottrinale dalle più alte filosofie greche.

TEOLOGIA DEI FILOSOFI CRISTIANI

Le Sacre Scritture e il platonismo classico sono, filosoficamente parlando, fra le fonti principali della teologia cristiana, formulata dai Padri della Chiesa.
Anche da loro Dio è concepito come Bene supremo, come Ragione suprema e come supremo Amore. Ma qui troviamo una radicale differenza dal concetto neoplatonico dell’unità e trinità di Dio. Nell’unità del Dio di Platone e d’Aristotele, Filone e Plotino vedono una generazione intrinseca, ma d’ordine discendente, produzione piuttosto che processione. Nella teologia cristiana, l’unica Dio, inteso come Bene e insieme. come Verità e Amore, acquista carattere di unità vivente, e le tre ipostasi, che ne sono l’espressione di vita, costituiscono un rapporto di reciproca processione interiore, che ne fonda non soltanto la comune eternità, come vuole ad esempio Plotino, ma anche l’uguaglianza, come non vuole nè vorrebbe mai Plotino.
L’attività d’amore, che Platone, Aristotele, Plotino riconoscono come propria del mondo e dell’uomo rispetto a Dio, Realtà e Ragione assoluta e suprema, viene ora riconosciuta, per via della testimonianza di Cristo, a Dio stesso: Padre! Da questo principio si spiega una teologia la cui formulazione è costata lunghe meditazioni e controversie, ma che è mirabile nella sua struttura; la quale fin d’allora è così perfetta, che rimane ancora intatta. La scolastica l’accetterà in pieno e Dante la tradurrà in versi, che sono una sintesi poetica del pensiero teologico di Platone, di Aristotele e di Plotino, integrato e inverato dal cristianesimo:

“Nella profonda e chiara sussistenza
Dell’alto Lume parvemi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza:
E l’un dall’altro, come Iri da Iri, 
Parea riflesso: e il terzo parea fuoco
Che quinci e quindi ugualmente si spiri…
Oh Luce eterna che sola in te sidi,
Sola t’intendi, e da te intelletta, 
E intendente te, ami ed arridi”.

La seconda ipostasi è dunque intesa ancora come Ragione divina, come Verbo divino, ma ha inoltre la natura e la dignità di Figlio, coeterno e consustanziale col Padre; e la terza ipostasi (che il neoplatonismo chiamava l’Anima del mondo), lo Spirito, esprimendo l’amore divino, si adegua alle altre due. Si chiude così il circolo eterno e soprannaturale della vita divina; il mondo, come caducità e divenire, ne è escluso.
Ma se questa esclusione rinnova il concetto del dualismo tra realtà sensibile e naturale e realtà divina, apparso già così fondamentalmente vero ai grandi filosofi anteriori al neoplatonismo e da questo perduto di vista e sommerso in un ibrido panteismo, non rende però l’esistenza del mondo inspiegabile o apparente, come pure era parso a quei filosofi. Col principio dell’amore divino, d’un amore cioè non necessario (quale ansia o necessità nell’Assoluto, che vive una vita perfetta?) ma libero (Dio è Bene, e la bontà è essenzialmente libera), la creazione è intesa come atto libero della bontà di Dio. Il concetto di creazione si sostituisce a quello di emanazione, che sembrava il più alto possibile a cui si potesse arrivare. Ne deriva, poi, che il mondo è reale, non potendosi ammettere che l’effetto d’un atto divino sia illusorio; derivano ancora altre concezioni, come quelle sulla provvidenza, sulla contingenza del mondo, ecc. Ma dal principio di Dio amore derivava alla dottrina patristica anche la certezza della verità storica della redenzione divina del mondo, operata da Cristo.
Il fatto della redenzione, che i primi tre Vangeli narravano, che Paolo predicava, che Giovanni interpretava, veniva dalla Patristica confermato e dedotto anche idealmente dalla nuova concezione di Dio. L’opera tenace e combattuta si compiva nel 325 al concilio di Nicea, dove si formulava la sintesi del Credo, che in poche espressioni racchiude una dottrina la quale, considerata dal solo punto di vista umano e storico, era la risultante di secoli d’esperienza filosofica e religiosa: Credo in unun Deum, Patrem omnipotentem, factorem caeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium, et in unum Dominum Jesum Christum Filium dei iìunigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula: Deum de deo, lumen de lumine:Deum verum de Deo veo, genitum, non factum, consubstantialem Patri, per quem omnia facta sunt: qui mpropt5er nos homines e propter nostram salutem descendit de caelis, et incarnatus est…; et in Spiritum Sanctum Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit…

MORALE DEI FILOSOFI CRISTIANI

La concezione di Dio come Padre, la cui essenza è di essere amore libero, e la concezione del rapporto fra Lui e noi, redenti per il dono a noi fatto del Figlio, segno d’immenso amore (Sic Deus dilexit mundum ut filium suum unignitum daret), fonda la fratellanza umana mediante il vincolo del vero amore, ossia della carità, che diventa così il principio essenziale della morale, superiore a quello stesso di giustizia.

La carità umana, concepita a imitazione della bontà creatrice e redentrice divina, diviene attiva e benefica, come attivo e causa di ben fare dev’esser l’amore verso Dio (Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come te stesso, per amore di Dio). L’amore pertanto non è più inteso come una fatalità, nè per Dio nè per gli uomini, ma come essenzialmente libero, voluto, come un dovere morale (dover essere). Ma questa obbligatorietà morale dell’amore, che può essere intesa come un influsso diretto della grazia divina, non attenta alla stessa libertà umana dell’amore?
Anche ciò rientra nel grave problema della grazia e del libero arbitrio. La miglior soluzione è sembrata quella di ritenere che, essendo il nostro un amore in seno all’amore divino e quasi una risposta a questo per noi, noi non siamo veramente liberi, cioè agenti secondo la nostra vera natura e non servi di elementi inferiori, se non quando uniamo la nostra volontà a quella libera di Dio; cosicché la moralità, o carità, è una specie di nostra libera cooperazione d’amore con Dio.

Se l’amore verso gli uomini è fatto in funzione dell’amore che si ha per Dio, ne viene che il termine ultimo e vero di esso è Dio: solo nell’amore di questo Essere ha giustificazione l’amore per gli altri esseri, e solo nel riposare in questo Essere, godendolo, consisterà la felicità. La virtù, pertanto, non è fine a se stessa, nè si conchiude con la vila terrena, ma è mezzo per meritarsi la visione e il godimento di Dio, e non in questa, ma nella vita ultraterrena, nella quale continuerà e si perfezionerà l’amore proprio dalla vita terrena. Il circolo si chiude, così, anche per l’uomo, con un suggello pure divino ed eterno, ma dopo un periodo di lontananza da Dio, di lotta, di prova: prezzo che esige da noi l’amore libero e vivo in tutti noi, grandi e piccoli, secondo lo spirito veramente universalistico, e non poteva non esserlo, del cristianesimo.

Questo costante centro di gravitazione in Dio doveva portare, più ancora che non avvenisse nello stoicismo, al disprezzo della vita presente e dei beni terreni. Non si può servire a due padroni. L’amore, se tale è veramente, vuol tutto per sè. E, come sopra si è visto che la dottrina dell’amore libero nostro interferisce con quella dell’influsso dell’amore di Dio verso di noi o grazia, così qui la dottrina dell’amore integrale verso Dio e della carità verso gli uomini interferisce con la dottrina dei doveri e dei diritti sociali, o della vita terrena.

Se è vero che il dovere dell’amore ci impone il perdono e la rinuncia, come tollerare tuttavia che l’ingiustizia e la violenza siano esercitate impunemente ?  E come tollerare ciò, specialmente quando si trattasse di farne una norma per la vita sociale?

Una terza interferenza di dottrine, in seno alla nuova morale, è il contrasto fra la dottrina dell’affermazione della libertà per se stessi e quella della negazione della libertà per chi non segue la stessa religione e non pratica gli stessi precetti morali. Cosicché non sempre si segue lo spirito di Cristo, espresso, ad esempio, nel Discorso della Montagna (Matteo, V-VII).

Queste difficoltà d’interpretazione e d’applicazione non diminuiscono la nobiltà e la purezza della morale cristiana. È che gli uomini sono molto spesso e troppo a lungo sviati e dominati da sole preoccupazioni terrene e materiali, o da false immagini di bene. Lo spirito di verità, carità e sacrificio del cristianesimo lotta ancora fra molte tenebre.

Le stesse antinomie morali, o contrasti di doveri, sono risolvibili col portarsi in un piano superiore di pensiero e di vita, di carità e di fede.

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