GIAMBATTISTA VICO – Rapporti fra la filosofia italiana e la filosofia europea

Rapporti fra la filosofia italiana e la filosofia europea

DA CAMPANELLA A VICO

Giambattista Vico

La vera filosofia ha valore universale; però, essendo coltivata da uomini e questi vivendo in date epoche e in dati ambienti, si può parlare anche di filosofie nazionali, intendendo mettere in rilievo le caratteristiche del pensiero d’un popolo nel corso della sua storia e il contributo da esso portato alla cultura umana.
In questa nostra trattazione si parla della cultura europea e noi abbiamo accennato al contributo dell’Italia alla filosofia occidentale, contributo di grandissimo valore, non mai interrotto dai tempi della civiltà della Magna Grecia sino al nostro Cinquecento e, in misura minore, fino a noi. Possiamo anzi ripetere che rimase sempre viva in Italia la tradizione della grande filosofia greco-italica, di tendenza metafisica e morale, e ciò insieme ad altri valori spirituali imperituri, quali il senso del diritto, quello dell’humanitas e quello d’un sano e chiaro equilibrio mentale.

Anche dopo il Cinquecento, sebbene la nostra patria sembrasse entrare in un periodo di raccoglimento e quasi di riposo, assistendo, purtroppo non senza una certa dannosa ignavia, al fervore politico, civile e culturale degli Stati vicini, continuarono da noi a fiorire le scienze, con l’accademia fiorentina del Cimento, coi seguaci di Galileo, come EVANGELISTA TORRICELLI, LORENZO MAGALOTTI, FRANCESCO REDI, continuarono pure a fiorire le arti belle.

Quanto alla filosofia propriamente detta, l’Italia nel Seicento dimenticò quasi del tutto i suoi arditi filosofi del Cinquecento, accolse le teorie cartesiane, discutendole, comparandole con le teorie antiche e con quelle della scolastica, che pur continuavano, le une e le altre, a esser conosciute, e con quelle empiristiche, accolte anch’esse verso la fine del secolo. C’era quindi un’eterogeneità di dottrine, non ben sentite, non vissute; e anche agli studiosi diligenti e meditativi, che non mancavano, difettavano troppo l’originalità e la forza.

Bisogna arrivare a GIAMBATTISTA Vico per trovare un nostro filosofo originale e profondo. La sua operosità filosofica si svolse nei primi decenni del Settecento; ma, benchè conosciuto e apprezzato, il Vico venne poco compreso e meno seguito dai pensatori italiani del secolo, che preferirono inspirarsi ancora, prevalentemente, alle filosofie europee dominanti. Così fecero per l’empirismo FRANCESCO SOAVE di Lugano (1743-1808), grande volgarizzatore della filosofia lockiana, e ANTONIO GENOVESI da Castiglione di Salerno (1712-1769), che ne fu in Italia il più notevole rappresentante, in opere varie, come gli Elementa metaphysicae, la Logica pei giovanetti e la Diceosina, o filosofia del giusto. Si richiamarono, invece, al cartesianesimo del Malebranche il cappuccino trentino GIOVENALE DELL’ANAUNIA (al secolo G. B. Ruffini) (1635-1713) e il barnabita savoiardo GIACINTO SIGISMONDO GERDIL (1718-1802). Possono esser ricollegati al movimento cartesiano, quantunque con libertà di atteggiamento e senza rigore sistematico, LUDOVICO MURATORI (1672-1750) il quale, oltre che di storia, si occupò anche di filosofia, combattendo lo scetticismo e l’empirismo, e il bolognese FRANCESCO MARIA ZANOTTI (1692-1777), che in fisica sostenne tesi cartesiane e in etica seguì Aristotele.

LO STORICISMO DEL VICO

Razionalisti ed empiristi, deisti e illuministi svolgevano le loro teorie con molto acume critico, ma con scarso senso storico; talvolta anzi la storia era volutamente dimenticata e condannata; si credeva di esser davvero nel tempo dei “lumi” e ci si riempiva la bocca volentieri del “vetustas cessit, ratio vincit!“.
Era facile cadere nell’astrattezza.

Ci riporta in piena concretezza storica GIAMBATTISTA VICO, la cui grande importanza fu, dapprima, non bene rilevata, rivendicata nell’Ottocento, oggigiorno largamente riconosciuta.

Nacque a Napoli nel 1668 da un libraio; studiò filosofia e legge; fu professore di retorica all’università; scrisse biografie e discorsi; fu nominato dal re Carlo III storiografo di corte. Ebbe rattristati gli ultimi anni da pene famigliari e da una crudele malattia. Morì nel 1744.

Ricordiamo, delle sue opere, le seguenti: De nostri temporis studiorum ratione; De antiquissima Italorum sapientia ex originibus linguae latinae eruenda; Principii di Scienza Nuova intorno alla comune natura
delle nazioni; Autobiografia.

Il Vico rivendicò il valore della storia, chiamandola il vero mondo umano, di cui l’uomo può avere conoscenza, perchè, è di sua costruzione. Nel campo della storia vale il principio che verumet factum convertuntur. Non vale. per noi uomini, nel campo della fisica, perchè non l’uomo, ma Dio è l’autore del mondo naturale. Non vale nemmeno nel campo della psicologia, poichè l’autore del nostro essere è ancora Dio.; nello stesso Cogito ergo sum abbiamo coscienza del nostro essere, ma non scienza vera di esso. Vale nel campo della matematica, perchè questa e scienza di astrazioni, nostra costruzione di concetti; ma le astrazioni concettuali non sono la realtà. Vale dunque soltanto e veramente nel campo della storia.

La storia .è opera nostra, concreta, reale. Essa è un divenire continuo. Questo divenire e razionale, e perciò implica un piano eterno, conchiuso, perfetto.
Qui sta la differenza fra il Vico e Hegel, fra lo storicismo latino del Vico e quello idealistico del filosofico tedesco. Il piano eterno, considerato in se e in modo assoluto, suppone una mente provvidenziale trascendente; considerato nel suo processo di attuazione concreta (la storia umana), implica una ragione immanente e agente, che è la ragione umana. L’attuazione presenta nei vari popoli una successione di corsi e ricorsi; ogni corso ha tre fasi, corrispondenti ai tre momenti o gradi dello spirito umano: senso, fantasia, ragione. “Gli uomini prima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso, infine riflettono con mente pura”. Le epoche della storia, che si ripetono, sono la primitiva, l’eroica o poetica, la civile.

DALLE OPERE DEL VICO

Dal De antiquissima Italorum sapientia (Capitolo I)

IL CRITERIO DEL VERO

In latino “verum” e “factum” si scambiano tra loro o, per usare il comune linguaggio scolastico, si convertono [l’un nell’altro]; e nella stessa lingua “intelligere” è lo stesso che “perfettamente discernere” o “apertamente conoscere”. Si diceva poi “cogitare” quel che nel nostro volgare si dice “pensare” e “andar raccogliendo”. “Ratio” poi significa in latino così il calcolo aritmetico come quella facoltà, propria dell’uomo, onde egli differisce dai bruti e li sopravanza: e l’uomo comunemente era definito come un animale, ch’è “partecipe della ragione”, ma che non ne è in possesso in modo assoluto. Criterio e regola del vero è l’averlo fatto noi stessi, e pertanto la nostra chiara e distinta idea della mente non può esser criterio, non che delle altre verità, neanche della mente stessa; perchè la mente, intanto che si conosce, non fa se medesima, e perchè non si fa, ignora la forma, ossia il modo onde si conosce 1).

…Allora il vero si converte col fatto, quando quel vero, ch’è conosciuto, ritrae anche il proprio essere dalla mente stessa che lo conosce 2); e così la scienza umana è imitatrice della divina, per la quale Dio, mentre conosce il vero, lo genera ad intra eternalmente, ad extra nel tempo. E siccome rispetto a Dio il criterio del vero si è l’aver comunicato con la creazione la sua bontà ai suoi pensieri: vidit Deus quod essent bona; all’istesso modo nell’uomo è, un tal criterio, riposto nell’aver fatto ciò che conosce.

Dai Principî di Scienza Nuova 

LA PROVVIDENZA

…I filosofi, infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale a Dio, come a mente signora libera ed assoluta della natura (perocchè, col suo eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l’essere, e naturalmente lo ci conserva), si dànno dagli uomini l’adorazioni co’ sacrifici ed altri divini onori; ma nol contemplarono già per la parte ch’era più propria degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale proprietà: d’essere socievoli. Alla qual Iddio provvedendo, ha così ordinate e disposte le cose umane, che gli uomini, caduti dall’intiera giustizia per lo peccato originale, intendendo di fare quasi sempre tutto il diverso e, sovente ancora, tutto il contrario – onde, per servir all’utilità, vivessero in solitudine da fiere bestie, – per quelle stesse loro diverse e contrarie vie, essi dall’utilità medesima sien tratti da uomini a vivere con giustizia, e conservarsi in società, e si a celebrare la loro natura socievole; la quale, nell’Opera, si dimostrerà essere la vera civil natura dell’uomo, e si esservi diritto in natura. La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza) di ragionare; ond’ella, per tal aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina.

1) L’osservazione colpisce direttamente il criterio del Descartes. Il “fare” vale anche del “pensare”: ma, naturalmente. del “pensare” concreto e fecondo; anche il poeta! si diceva dai Greci che “fa”, sebbene non tutti i facitori di versi siano “poeti”.

2) Pensiero, dunque, concreto, Operativo.

LE TRE ETÀ

…Questa Nuova Scienza, o sia la metafisica, al lume della provvedenza divina meditando la comune natura delle nazioni, avendo scoverte tali origini delle divine ed umane cose tralle nazioni gentili, stabilisce un sistema del diritto natural delle genti, che procede con somma egualità e costanza per le tre Età, che gli Egizi ci lasciaron detto aver camminato per tutto il tempo del mondo corso loro dinanzi, cioè: l’età degli dèi, nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa essere lor comandata con gli auspici e con gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana; – l’età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi riputata differenza di superior natura a quella de’ lor plebei; – e finalmente l’età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi si celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forme di governi umani…

I PRINCÌPI DEL VIVERE UMANO

(Si conosce veramente solo la storia nostra)

In tal densa notte di tenebre, ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce il lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è Stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritrovare i Principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia. come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perchè Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perchè l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto da quella miseria; la quale avvertimmo nelle Degnità della mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima; come l’occhiorcorporalé, che vede tutti gli obbietti fuori di sè ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso.

Or, poichè questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini., vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perchè tali cose ne potranno dare i Principi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, s0pra i quali tutte [le nazioni] sursero e tutte vi si conservano in nazioni.

Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione. tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture. Chè, per la degnità che “idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero”, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità; e per ciò si debbano: santissimamente custodire da tutte, perchè ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi Principi di questa Scienza…

Alcune DEGNITÀ (o assiomi, o elementi)

I – L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sè regola dell’universo.

II – È altra proprietà della mente umana, ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possano fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti.

V – La filosofia, per giovar al genere umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corruzione.

VI – La filosofia considera l’uomo quale dev’essere…

VII – La legislazione considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società…

VIII – Le cose fuori del loro stato naturale nè vi si adagiano, nè vi durano.

X – La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autorità dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo. (Per filologia il Vico intende anche la storia, fra le cui testimonianze sono principalmente le radici e il processo dl formazione delle lingue).

XI – L’umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso comune degli uomini d’intorno alle umane necessità o utilità, che son i due fonti del diritto natural delle genti.

XII – Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano.

XIII – Idee uniformi, nate appo intieri popoli tra essi loro non conosciuti, debbon avere un motivo comune di vero.

XIV – “Natura” di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.

XVI –  Le tradizioni volgari devon aver avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi.

XVII – I parlari volgari debbon esser i testimoni più gravi degli antichi costumi de’ popoli, che si celebrarono nel tempo ch’essi si formaron le lingue.

XIX – Se la legge delle XII Tavole furono costumi delle genti del Lazio, incominciativisi a celebrare fin dall’età di Saturno, altrove sempre andanti, e da’ Romani fissi nel bronzo, e religiosamente custoditi dalla romana giurisprudenza, ella è un gran testimone dell’antico diritto naturale delle genti del Lazio.

XX – Se i poemi d’Omero sono storie civili degli antichi costumi greci, saranno due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.

XXII – È necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne’ proverbi, che sono massime di sapienza volgare, l’istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elleno sono, per tanti diversi aspetti significate.

XXXI – Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non vi abbiano più luogo l’umano leggi, l’unico potente mezzo di ridurgli è la religione.

XXXIII – La fisica degli ignoranti è una volgar metafisica, con la quale rendono le cagioni delle cose, ch’ignorano, alla volontà di Dio, senza considerare i mezzi de’ quali la volontà divina si serve.

XXXVI – La fantasia tanto è più robusta, quanto è più debole il raziocinio.

XXXVII – Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso, passione ; ed è proprietà de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarci come se fussero, quelle, persone vive.

L – Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all’eccesso la fantasia, ch’altro non è che memoria o dilatata o composta (1). Questa degnità è ’l principio dell’evidenza dell’immagini poetiche, che dovette formare il primo mondo fanciullo.

LIII – Gli uomini prima sentono senz’avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente, riflettono con mente pura. Questa degnità è ’l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini: onde queste più s’appressano al vero, quanto più s’innalzano agli universali; e quelle sono più certe, quanto più s’appropriano a’ particolari.

LXIII – La mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori nel corpo, e con molta difficultà per mezzo della riflessione ad intendere se medesima.

LXIV – L’ordine dell’idee dee procedere secondo l’ordine delle cose (2).

LXVI – Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente 1mpazzano in istrapazzar le sostanze.

CXIII – Il vero delle leggi e un certo lume e splendore di che ne illumina la ragion naturale; onde spesso i giureconsulti usan dire: “verum, est” per “aequum est”.

(1) Dilatata = Ingrandimento fantastico delle cose ricordate.
Composta = Accostamenti e mescolanze di cose ricordate.

2) Cfr. il principio analogo dello Spinoza: ordo idearum idem est ac ordo rerum. Nota la differenza nell’uso dei verbi essere (sostanza) e procedere (genesi).

I RICORSI STORICI

Se i popoli marcìscano in quell’ultimo civile malore, che nè dentro acconsentino ad un monarca natio, nè vengano nazioni migliori a conquistargli e conservargli da fuori, allora la Provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che – poichè tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare ch’alle particolari proprie utilità di ciascuno ed avevano dato nell’ultimo della dilicatezza o, per me’ dir, dell’orgoglio, a guisa di fiere… – per tutto ciò, con ostinatissime fazioni e disperate guerre civili, vadano a fare selve delle città, e delle selve covili d’uomini ; e, ’n cotal guisa, dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso. Perchè quella (la barbarie del senso, propria dei popoli primitivi) scuopriva una fierezza generosa, dalla quale altri poteva difendersi o campare o guardarsi; ma questa (la barbarie delle riflessioni, ossia della malizia, malvagità e lussuria, propria dei popoli corrotti) con una fierezza vile, dentro le lusinghe e gli abbracci insidia alla vita e alle fortune de’ suoi confidenti ed amici. Perciò [deve avvenire che] popoli di sì fatta riflessiva malizia, con tal ultimo rimedio, ch’adopera la Provvedenza, così storditi e stupidi, non sentano più agi, dilicatezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilità della vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e, per la ritornata primiera semplicità del primo mondo da popoli,. sieno religiosi, veraci e fidi; e così ritorni tra essi la pietà, la fede, la verità, che sono i naturali fondamenti della giustizia e sono grazie e bellezze dell’ordine eterno di Dio.

Profonde parole, che per la convulsa Europa d’oggi acquistano valore di penosa attualità e invitano alla riflessione. Tuttavia non vanno intese superficialmente, come se fossero espressione d’uno storicismo deterministico, la cui logica conseguenza sarebbe un desolato pessimismo. Bisogna considerare, più di quanto non lo si faccia, che a fondamento del pensiero di Giambattista Vico c’è, latinamenté e cristianamente, il concetto di trascendenza divina. Ora, ebbe ragione il Vico di fermarsi, col suo mirabile senso di positività storica, a questa interpretazione delle vicende terrene e sociali della storia umana? O c’è un lato della questione della vita umana, che il Vico non credette, forse, di mettere in rilievo, cioè il lato etico personale, anch’esso di valore essenziale (oltre e in relazione con quello sociale), così chiaramente affermato nella dottrina cristiana e, per il campo puramente speculativo e filosofico, nella teoria del Kant?
È stato detto che Vico e Kant debbono trovare ancora la loro unità”. Chi l’ha detto vede questa unità come “il coronamento della nuova cultura storica”. Può essere; soprattutto se lo spirito informatore della nuova cultura storica sarà quell’alto spirito cristiano, che pure informava il pensiero del Vico.

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