FILOSOFIA MODERNA (1600-1850) – La concezione filosofica di Descartes

 

René Descartes  (Cartesio) Frans Hals

DESCARTES E IL CRITERIO CARTESIANO

René Descartes  (Cartesio) nacque a  La Haye en Touraine (Francia) il 31 marzo 1596. Studiò nel collegio gesuitico di La Flèche, uscendone con una vasta cultura. Però non ne era soddisfatto, parendogli mancasse di un’adeguata giustificazione. Si pose pertanto in un atteggiamento di dubbio completo, da cui vide che poteva legittimamente uscire con una prima constatazione certa: quella di sè, come essere pensante (cogito, ergo sum). Ciò gli apriva la via all’elaborazione d’una metodologia razionalistica, di cui stese le linee fin dal 1619.
Solo nei 1637 le pubblicò a Leida, in Olanda, dove aveva preso dimora, e furono il famoso Discorso del metodo. L’accompagnavano la Diottrica…, le Meteore…., la Geometria…, parti di un’opera dal titolo Il Mondo o Trattato della luce. (Il resto fu pubblicato postumo). Seguirono altre opere, di cui le principali sono: Meditationes de prima philosophia…,  Principia philosophiae…, Le passioni dell’anima…, Trattato dell’uomo…, Regulae ad directionem ingenii.
Il Descartes morì nel 1650 a Stoccolma, dove, accogliendo l’invito della regina Cristina di Svezia, era andato l’anno prima. Le sue ossa vennero, qualche anno più tardi, portate in patria e sepolte in una chiesa di Parigi.
Il metodo del Descartes è razionalistico, matematico, ma ha un antecedente psicologico, che è la constatazione immediata dell’esistenza nell’atto del pensiero. Pensare è essere.
Il cogito ergo sum vale a toglierci dal dubbio generale, in cui ci pongono la varietà delle opinioni umane, gli errori dei sensi e della stessa ragione comune. Il motivo della certezza è che nei cogito ergo sum non c’è distinzione fra me pensante e me pensato.
Con la sua evidenza, il cogito, costituisce dunque la prima certezza, modello di tutte le altre, poichè esso indica che la garanzia della verità è la razionale evidenza. Da qui la norma dell’evidenza, fondamentale, alla quale si accompagnano le tre altre norme dell’analisi, della sintesi, dell’enumerazione.
L’idea del me la traggo dunque da me stesso, perchè la trovo in me stesso; ma io ho altre idee, a cominciare da quella di Dio. Il riconoscere che l’idea di Dio, data la mia relatività e finitezza, non può essere un prodotto del mio pensiero, mi porta a concludere che essa abbia una causa superiore a me, adeguata; vi deve corrispondere, pertanto, un’esistenza reale e distinta da me.
Così esco dal soggettivismo del cogito ergo sum postulando, con le stesse idee innate che scopro in me, l’esistenza oggettiva di altre realità distinte da me.

Così alla garanzia psicologica e gnoseologico-ontologica, ma di valore particolare, del cogito aggiungo la garanzia gnoseologica e ontologica, di valore universale, dell’esistenza di Dio; garanzia questa, che comprende anche l’altra e si estende alla conoscenza di tutto il creato, anche al mondo dei corpi (Teoria della veracità divina, criterio supremo della verità).

La riflessione concreta e il ragionamento non hanno che da continuare a svolgersi, con la norma costante dell’evidenza logica, indipendentemente dal solito vincolante ossequio all’autorità filosofica tradizionale e cioè con perfetta autonomia della ragione.

Nel Discorso del metodo, che ha carattere autobiografico, oltre che scientifico, il Descartes confessa che fin da giovine lo appassionavano le matematiche per la certezza e l’evidenza delle loro ragioni.

Fatto adulto, applicò questo suo spirito scientifico e il criterio sperimentale, già notevolmente diffuso, a indagini molteplici e, fisico, scoprì la legge della rifrazione della luce, diede la spiegazione dell’arcobaleno, constatò la pesantezza dell’aria; anatomista, fece dissezioni di animali uccisi, per studiarne la struttura anatomica; matematico, usò per primo gli indici nell’indicazione delle potenze dei numeri e ideò l’applicazione dell’algebra alla geometria, creando la geometria analitica. Fuori dell’ambito delle scienze, per il quale serbò sempre grande predilezione, applicò il metodo geometrico alla metafisica, per farne una scienza esatta, ed ebbe di mira la costruzione d’un sistema compiuto.

IL DUBBIO METODICO E IL ‘COGITO’

Il dubbio metodico, di cui parla il Descartes, è una voluta e provvisoria svalutazione del proprio patrimonio conoscitivo, anche nei suoi elementi fondamentali e più facilmente ammessi, per ricostruirlo riflessivamente, liberandolo dalle prevenzioni e dalle accettazioni passive: una revisione del proprio pensiero vivo e concreto, secondo un criterio di necessità logica e quindi oggettiva e di valore universale.

È dubbio filosofico. Il Descartes non intende far questione dei fatti e delle cose della vita abituale e nemmeno delle regole di morale, delle credenze religiose e delle prescrizioni politiche. Lo dice espressamente nel Discorso, naturalmente, dallo svolgimento della dottrina filosofica tutto quanto è proprio della vita umana acquista poi una luce e un aspetto nuovi.

Ad alcuni il cogito ergo sum cartesiano è parso equivoco, ravvisando in esso un sillogismo abbreviato, un entimema  (sillogismo retorico), la cui implicita premessa maggiore sarebbe la proposizione omnes qui cogitant sunt. Pertanto non si tratterebbe veramente d’un principio, ma d’una conseguenza, dedotta da un giudizio universale sottinteso, gratuitamente ammesso come vero.

Questa interpretazione, che rovinerebbe dalla base l’intero edificio, fu sempre energicamente respinta dal Descartes e dai cartesiani, per i quali il cogito ergo sum è il semplice enunciato d’un fatto di coscienza, che è il fatto dell’auto-avvertimento della propria esistenza come coscienza. D’altra parte, ogni volta che questo avvertimento è riflesso e veramente consapevole, si concretizza in un dato io attuale e storicamente individuato. L’assumere, poi, questo io come sostanza pensante, come anima, è passare dalla psicologia all’ontologia.

Il Descartes non temette di fare questo passaggio, ma l’appoggiò alla prova dell’esistenza di Dio, riconoscendosi, come io, un pensare nel Pensiero, un essere nell’Essere.

È la stessa dialettica che affiora anche in Sant’Agostino, con la differenza che manca nel Descartes quel fervore, ora contenuto ora spiegato, che si trova negli scritti del vescovo d’Ippona. Il Descartes vuol solo ragionare, provare; ciò fa della filosofia cartesiana e, in generale, del razionalismo moderno, la grandezza, ma insieme la debolezza; vi si celano l’insidia dell’unilateralità e il pericolo del panteismo.

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L’ESISTENZA DI DIO

Descartes integrò la prova ontologica anselmiana dell’esistenza” di Dio, ricorrendo, oltre che al principio (per così dire) di essenza, specialmente al principio di causa. Nelle Meditazioni così ne parla:

“Noi abbiamo l’idea di un essere infinito, assoluto e sovranamente perfetto. Donde ci viene tale idea? Non può venire dal nulla, perchè il nulla non produce niente; non può venire dagli enti finiti, perchè allora il finito avrebbe prodotto l’infinito e l’assoluto: l’effetto sarebbe superiore alla causa. Dunque quest’idea vien da Dio; dunque Dio esiste”.

Da questa posizione deriva, di riflesso, maggior precisione e probatività anche al concetto proprio di Sant’Anselmo, poichè, invece di dire che per noi Dio esiste in quanto noi lo concepiamo, ne viene che dobbiamo dire, più a proposito, che lo concepiamo perchè esiste e si afferma in noi mediante l’idea innata dell’infinito e dell’eterno, idea che esige una causa adeguata.

Il Descartes, venuto dal Rinascimento, portava quindi più avanti la concezione gnoseologica di Sant’Agostino e quella ontologica di Sant’Anselmo e, come i filosofi del Rinascimento, si avviava per la strada della risoluzione e dell’assorbimento di ogni realtà in Dio, per la strada cioè del panteismo; ma egli cercò di evitare questa risoluzione, a costo, alle volte, di contrastare con le sue stesse teorie. Perciò, pur avendo accettato la definizione di sostanza, come di ciò che per sè esiste e per sè si concepisce, non concluse che, dunque, non esiste che Dio, e gli altri esseri non sono che suoi modi e parziali manifestazioni, ma attribuì valore di sostanza anche alle anime e ai corpi, e perciò ancora insistette a tenere essenzialmente distinte  la realtà spirituale, o intelligibile, e quella materiale, o fisica.

DUALISMO FRA REALTÀ INTELLIGIBILE E REALTÀ FISICA

Fra spirito e corpo c’è dunque distinzione reale; l’attributo essenziale dello spirito è il pensiero, la coscienza; quello del corpo è l’estensione. Nei fatti di coscienza non si hanno le tre dimensioni proprie della realtà corporea. Ora, col semplice cogito io sono immediatamente consapevole della mia esistenza (sum) come spirito, substantia cogitans: ne ho l’idea immediata; è una verità evidente.

Quanto alla legittimità del passare all’ammissione dell’esistenza di Dio, essa è provata, come abbiamo visto, dall’applicazione all’idea, che di esso ho, del principio di causa, integrante e avvalorante il concetto contenuto nell’argomento ontologico, già proposto da Sant’Anselmo.

Ma per il mondo dei corpi la cosa è diversa; il Descartes non ritiene che l’idea chiara e distinta, che ne abbiamo, basti a dimostrarne la reale esistenza. Potrebbe essere illusione, realtà apparente. Si ripresenta il problema antico, degli Eleati, di Platone. Nè qui è possibile al Descartes, mancando la mediazione dell’autonomia interiore e costitutiva dell’io (substantia cogitans), fare, dalla rappresentazione sensibile alla realtà sostanziale, quello stesso passaggio che ha potuto fare, mediatore l’io penso, dall’idea di Dio all’ammissione necessaria della realtà di Lui, come essere pensante, spirito.

Qui la persuasione dell’esistenza del mondo corporeo, di cui abbiamo pure l’idea, non può derivare che dalla convinzione che Dio non può, data la sua natura di Essere perfetto, ingannarci.

“Dio – dice espressamente il Descartes – non può aver voluto ingannarci rispetto a una credenza [nella realtà del mondo esteriore] che ha tanta forza su di noi e tanta influenza sulle nostre azioni”.

Il Descartes apre la strada all’idealismo empiristico dei filosofi inglesi, specie del Berkely,  all’ontologismo del Malebranche e dello Spinoza. E forse questi filosofi furono, nelle loro conclusioni, più coerenti di lui.

Il Descartes non si inoltrò per quella via e, pago di fondare la certezza dell’esistenza del mondo

materiale sulla persuasione della veracità divina, evitò volutamente ogni conclusione che lo portasse al panteismo. Volle dunque affermato il dualismo fra Dio e mondo, fra anima e corpo, fra realtà intelligibile e realtà fisica. Figlio del Rinascimento, il Descartes ne aveva, nè poteva storicamente non averne, lo spirito nuovo e ne seguiva, perfezionandolo, il cammino aperto, ma non voleva accoglierne le affrettate e, forse, unilaterali conclusioni filosofiche. Non voleva il monismo naturalistico, il panteismo.

I veri grandi filosofi, nelle loro supreme esigenze spirituali, non sono soltanto figli dei tempi; superano i tempi. Al di sopra del Rinascimento il Descartes, nell’ambito della metafisica, ridava la mano all’abborrita scolastica; insieme, componeva soluzioni, che erano già state problemi per i grandi pensatori greci e torneranno, fatalmente, a esserlo per la filosofia moderna: primo, il problema del rapporto fra realtà intelligibile e realtà fisica.

Dal fatto che la realtà fisica non è animata, non è intelligente, non è mente, ma solo estensione, non deriva per il Descartes che il mondo fisico manchi di ordine. È opera anch’esso di Dio, che ha agito secondo quelle leggi razionali che noi, con esperienza riflessa, riconosciamo in esso. Ma in sè, assolutamente preso, il mondo dei corpi è muto e opaco. È lo spirito che l’anima e lo fa parlare. E, così facendo, avviene che gli attribuiamo anche quello che non gli spetta, cioè vita, coscienza e libertà, proprie dello spirito, mentre esso non ha altra legge che quella della necessità, e la scienza sua sta tutta nella soluzione d’un enorme e complesso problema di meccanica.

Per il Descartes non vi può essere, nell’universo, estensione senza corpi, ossia spazio vuoto, nè corpi senza estensione, ossia atomi; le molecole dei corpi, e questi tra loro, agiscono meccanicamente gli uni sugli altri, per il diretto impulso dato loro da Dio.

La scienza dei corpi non ha nulla di comune con la scienza dell’anima e deve limitarsi all’interpretazione meccanica del mondo.

Si è molto discusso sul come il Descartes intendesse il rapporto fra anima e corpo nell’uomo, essere composto. La soluzione da lui data non è chiara nè costante. Altri, dopo di lui, riprenderanno il problema e lo risolveranno nel modo che vedremo. Pare che il Descartes ammettesse, tra anima e corpo, reciproca azione, ma ritenesse pure che sia necessaria l’assistenza divina, perchè quest’azione possa esercitarsi.

In base alla sua teoria dell’anima come sostanza pensante, il Descartes considerava gli animali come privi di anima, perchè privi di pensiero, e quindi automi, che vedono e sentono, ma senza aver coscienza della loro visione nè del loro sentimento.

L’ERRORE

La spiegazione dell’errore, secondo il Descartes, sta nella libertà e illimitatezza della volontà in confronto dell’intelligenza, che è finita e sottomessa alle leggi della logica. Quindi l’errore è volontario ed è una sorta d’inganno che facciamo a noi stessi. L’intelletto, dandoci idee chiare e distinte, non c’inganna; sono l’immaginazione e il desiderio le cause che le alterano e danno a idee inadeguate e confuse quella certezza logica, che in realtà fa loro difetto.

Con questa teoria il Descartes spiega pure come Dio abbia potuto permettere il male e l’errore. L’intelligenza d’un essere finito deve necessariamente aver dei limiti; la volontà, invece, come tale, cioè come atto libero (perchè altrimenti l’uomo sarebbe un automa e varrebbero anche per lui, ente risultante di anima e di corpo, le leggi necessarie e meccaniche proprie dei soli corpi), non può essere limitata, senza essere distrutta nella sua essenza.

Dio poteva non dare la volontà all’uomo; dandola, non poteva non dargliela illimitata e, per conseguenza, più estesa dell’intelligenza.

Anche questo è un punto cruciale della filosofia cartesiana, nel quale avvertiamo lo sforzo di mantenere un difficile equilibrio fra le parti dello stesso sistema cartesiano e, al di sopra di esso, fra le supreme contrastanti esigenze poste dall’eterno problema dei valori dello spirito. Anche qui il Descartes riecheggia motivi teoretici e morali antichi, platonici e postaristotelici; e qui si annodano, ancora, le premesse di criteri filosofici che saranno svolti e dichiarati in teorie successive, come, ad esempio, in quelle del Leibniz, del Kant, del Rosmini.

 LE IDEE INNATE

Molti hanno inteso, anche ai tempi del Descartes, che egli ammettesse innate, cioè presenti a noi fin dalla nascita, alcune idee bell’e fatte. Ma questo grossolano innatismo, che per esigenze polemiche fu accolto dallo stesso Locke e facilmente da lui confutato, è lontano dal pensiero del Descartes, il quale dichiara che le idee, che solitamente chiamiamo innate, si sviluppano con l’età, e che negli idioti esse restano prive di svolgimento. Il Descartes non ammette nemmeno che le idee, cosiddette innate, siano sempre innanzi alla nostra mente; no, solamente abbiamo sempre in noi il potere di produrle, perchè costituiscono, per così dire, la trama di fondo del nostro pensare.

Le principali idee innate, secondo il Descartes, sono l’idea della nostra sostanza personale spirituale, l’idea di sostanza in generale, l’idea di Dio, l’idea di sostanza corporea o di estensione, le idee di numero e di moto, i principi logici fondamentali, come quelli d’identità, di contraddizione, di causa, e infine tutte le idee, che non contengono nè affermazione nè negazione, come le idee generiche di figura, di colore, di suono.

Tutte le altre idee sono acquisite, per il tramite dei sensi e l’elaborazione dell’intelletto, o sono fattizie, parto della fantasia. Però il Descartes non è il realista scolastico, che crede che le nostre idee siano copie conformi delle cose esterne. Pur non insistendo sul fatto che le idee acquisite, dipendendo dalla funzione sensoriale e intellettiva ed essendo immateriali, sono altra cosa che gli oggetti materiali, di cui supponiamo siano le rappresentazioni, è convinzione del Descartes che nelle stesse qualità dei corpi bisogna distinguere fra quelle primarie o oggettive e quelle secondarie o del tutto soggettive. Distinzione, anche questa, prudenziale e che risponde all’economia d’equilibrio, che abbiamo già visto esser propria e caratteristica della filosofia del Descartes. E anche qui assistiamo al ripresentarsi di concezioni antiche e recenti, come quelle di Democrito e di Galileo per la distinzione fra le qualità corporee, e al delinearsi della traccia di teorie successive, come quelle di Locke, di Hume, di Kant per il rapporto fra noi e gli oggetti.

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