SVILUPPO DEL RAZIONALISMO – MALEBRANCHE – PASCAL – SPINOZA – LEIBNIZ

 Il razionalismo aprioristico

IL RAZIONALISMO DAL DESCARTES A IMMANUEL KANT

La critica al principio d’autorità nel campo scientifico e l’affermazione dell’autonomia della ragione, fatte in modo definitivo dal Descartes, avevano reso più ricco e fervido anche il dibattito filosofico, al quale l’opera stessa del Descartes, per il criterio che gli abbiam visto seguire nell’impostazione e soluzione di certi problemi, portava copia di motivi. Già notammo le ripercussioni che se ne ebbero nello sviluppo dell’empirismo, sia nel campo della conoscenza, come in quello delle teorie intorno alla realtà. Ancor più evidente l’influenza cartesiana è nello sviluppo del razionalismo aprioristico. Il problema fondamentale è sempre il medesimo, cioè quello del rapporto fra realtà intelligibile e realtà fisica, fra Dio e mondo, fra anima e corpo; e vi si connette sempre intimamente, come abbiam visto avvenire nell’empirismo, il problema del l’origine delle idee e della certezza. Inoltre qui si presenta con più insistenza anche il problema morale, ossia il problema del rapporto tra l’uomo e Dio, fra la libertà nostra e l’onniscienza e onnipotenza divine.
Un grande cartesiano, lo Spinoza, scriverà, appunto, l’Etica; un altro, il Leibniz, la Teodicea.

L’interesse filosofico si potenzia, si integra; diciamo meglio, si approfondisce. L’accentuata coscienza del primato dello spirito doveva finire per ritornar su se stessa e volgersi maggiormente ai valori morali, che sono i più intimi valori dello spirito, quelli pei quali l’uomo è veramente libero e appartiene al regno di Dio.

Anche il razionalismo, come già dicemmo, conduce al Kant, che proclamerà l’autonomia della morale e la sua superiorità sull’attività conoscitiva. E forse il razionalismo vi conduce più ancora dell’empirismo.
Ma quali tenaci sforzi deve fare! Dalle Meditazioni del Descartes alla Critica della ragion pratica del Kant il movimento verso una più profonda interiorità dello spirito può sembrare talora un’involuzione o un deviamento, piuttosto che un’evoluzione. È che si passa da un razionalismo scientifico, prevalente nel Descartes, a un razionalismo spiritualistico alquanto ibrido e generico, proprio del Leibniz, e poi a un razionalismo etico puro, proprio del Kant.

Nulla può meglio mostrarci questo passaggio che l’atteggiamento assunto dai vari razionalisti rispetto al problema del rapporto fra realtà spirituale e realtà materiale o, semplicemente, rispetto al modo di concepire il mondo. Il Descartes concepisce il mondo come sostanza nettamente opposta allo spirito; in esso non vigono cause finali; è una gran macchina. Sistema meccanicistico; fisica da materialista.

Lo Spinoza, come vedremo, fa dell’universo l’estensione, ossia la realtà fisica, di Dio. Esso è l’uno dei due attributi di Dio; l’altro è di esser la realtà intelligibile, il “pensiero”. Ma le due realtà non si oppongono realmente, perchè sono la stessa unica sostanza divina. Nemmeno qui non han luogo le cause finali. Sistema panteistico; fisica da metafisico. È un modo di risolvere il problema del rapporto, annullandolo; come abbiam visto fare, beninteso in altro modo, da qualche empirista (Hobbes, Hume).

Il Leibniz, come pure vedremo, avvicina le due sostanze, spirito e materia, senza risolverle in Dio unico.
Con la teoria della monade, centro di forza, attribuisce la stessa essenza, in diverso grado, tanto alla materia quanto allo spirito. Dio, monade suprema, è posto, Sull’esempio del Descartes, tanto in alto, che si differenzia nettamente dalle altre monadi; ma è in diretto rapporto di creazione, o di ragion d’essere, con loro. Tutto ciò permette al Leibniz di riconoscere nel mondo fisico le cause finali; esso diviene un vivo organismo armonico. Sistema dinamico; fisica da spiritualista. Il problema del rapporto appare risolto genialmente; ma il dualismo dei termini, in realtà, è pressoché nuovamente scomparso e si rasenta il panteismo.

Il Kant, come da ultimo vedremo, rielabora in modo originale e profondo le concezioni dell’ernpirismo e del razionalismo e, quanto alla concezione del mondo, lo ritiene realtà soltanto fenomenica, ordinata da noi e quindi nostra; nè essa, per noi, sta in alcun rapporto (d’imitazione platonica, d’opposizione cartesiana, di sintesi spinoziana, di gradazione leibniziana, o d’altro) con la realtà intelligibile vera e propria, divina, assoluta, perchè alla alla nostra esperienza questa sfugge, e non possiamo quindi stabilire o riconoscere un rapporto fra due termini, quando uno di essi ci manca. Il rapporto è dunque tra il nostro pensiero e il nostro mondo, ed è rapporto strettissimo, inscindibile, quasi di con-creazione (sintesi a priori). Ma il nostro mondo, realtà fenomenica, ci rinvia a una realtà non fenomenica, alla quale arriviamo, non certo mediante esso, chè sarebbe assurdo, mancando la possibilità del rapporto, ma mediante noi, cioè mediante il nostro spirito, la nostra vita interiore, la nostra volontà, la nostra azione consapevole e morale. Cosi, Dio è oltre il mondo, ma è nel più intimo di noi.

SVILUPPO DEL RAZIONALISMO

NICOLAS MALEBRANCHE

Il criterio matematico del Descartes, caratteristico del razionalismo filosofico, trovò subito, in quell’epoca di trionfo della scienza, degli applicatori entusiasti, che, prendendo le mosse da questa o da quella concezione del Descartes, ritenuta non sufficientemente chiarita, la svilupparono e, così sviluppata, la unirono con altre loro tesi, formando teorie nuove. Uno di questi fu il Malebranche, nel quale si riscontrano, però, anche analogie con l’empirista Berkeley, già da noi veduto.
NICOLÒ MALEBRANCHE nacque a Parigi nel 1638, studiò alla Sorbona, poi entrò nell’ordine degli Oratoriani. Fino a 26 anni si occupò di critica e di erudizione; poi la lettura delle opere del Descartes lo entusiasmò per la filosofia. Però, come la maggior parte dei grandi filosofi del Seicento, fu anche matematico e fisico. Morì nel 1715. Opere principali: Ricerca della verità; Meditazioni cristiane; Conversazioni di metafisica e di religione.

Malebranche cerca di superare il distacco, lasciato dal Descartes, fra anima e corpo; secondo lui, l’influsso reciproco fra anima e corpo non può spiegarsi che per un intervento continuo di Dio; i nostri atti di volontà sono la causa “occasionale” perchè Dio sia causa efficiente dei moti del nostro corpo; gli oggetti dei sensi sono le cause “occasionali” perchè Dio sia la causa effettiva delle percezioni del nostro spirito (Occasionalismo).

Ne deriva che è Dio che agisce in noi e pensa in noi, ciò che, per converso, equivale a dire che noi pensiamo e agiamo in Dio.

Era ciò che aveva già sostenuto il cartesiano ARNOLD GEULINCX di Anversa (1625-1669). Il Malebranche tuttavia faceva qualche riserva. Benchè anche per lui fosse vero che noi vediamo tutto in Dio, tuttavia egli chiarì il suo pensiero dicendo che ciò, che vediamo in Dio, non sono le cose naturali, materiali, ma le idee di esse, ossia ciò che è immutabile e fornito dei caratteri della necessità e dell’universalità. Ora, queste idee, come voleva anche Platone, sono la realtà divina e la conoscenza di esse costituisce la conoscenza vera, perchè l’oggetto ne è Dio. realtà vera (Ontologismo). Il Malebranche aggiunge infatti che la nostra ragione è la “luce” delle idee divine nel nostro spirito, è il lume divino che, come dice San Giovanni, illumina ogni uomo che viene al mondo.

BLAISE PASCAL

Deriva direttamente dal Descartes anche BLAISE PASCAL, nato a Clermont (Francia) nel 1623, morto nel 1662, di cui abbiam riferito, più indietro, alcune frasi sul grande valore da lui riconosciuto allo spirito umano. Fu matematico e fisico di gran valore. Nella breve vita passò per esperienze spirituali diverse, che sentì intensamente, profondamente. Assetato di verità, si dedicò infine alla meditazione sopra l’uomo, sulle ragioni della sua grandezza e della sua miseria, sul suo destino. Ma non fu una serena indagine; fu la bruciante inchiesta di un giudice, che si sente anche parte.

Pertanto, da un esasperato razionalismo finì in un tormentato fideismo mistico, di cui sono testimonianza i Pensieri, frammenti d’un’opera apologetica, che il Pascal aveva ideata per la difesa della religione.

Oltre ai Pensieri, dobbiamo al Pascal le Lettere provinciali, che sono una polemica contro la teologia, la morale e la politica dei Gesuiti. Il Pascal aderiva alla setta dei Giansenisti, che, come l’altro ordine religioso degli Oratoriani, al quale appartennero il Malebranche e il padre LAMY, accettava la dottrina cartesiana; vanno ricordati i due giansenisti ANTOINE ARNAULD e PIERRE NICOLE, quali autori della celebre
Logica di Portoreale.

BARUCH SPINOZA

Ben diverso atteggiamento dal Pascal, nelle indagini sulla realtà e sulla vita, tenne l’impassibile Spinoza.

BENEDETTO (Baruch) SPINOZA nacque ad Amsterdam nel 1632, da ebrei profughi dal Portogallo. Si formò un’ottima cultura. Uscì dalla Sinagoga e si diede tutto alla filosofia. Vivente, fu apprezzato da pochi spiriti superiori; guadagnò il pane limando lenti per occhiali.
Scrisse il Trattato teologico-politico e l’Etica, pubblicata però postuma. La sua memoria fu esecrata e tale rimase per più di un secolo; verso la fine del Settecento fu rivendicata, e da allora il nome dello Spinoza trova posto nella storia della filosofia, Come quello di un grandissimo pensatore. Morì all’Aja nel 1677.

Il metodo dello Spinoza è rigorosamente matematico e procede per definizioni, assiomi e dimostrazioni. Tre definizioni fondamentali sono quelle di Sostanza, di Attributo, di Modo. “Sostanza” è ciò che è in sè e che per sè si concepisce; “attributo” è ciò che entra a costituire l’essenza della sostanza; “modo” è un’affezione o determinazione particolare dell’attributo.

Se il Malebranche cercò di superare il distacco lasciato dal Descartes fra anima e corpo, lo Spinoza ritenne di poter superare l’altro distacco, voluto lasciare dal Descartes, tra Dio e il mondo, tra la realtà intelligibile e la realtà fisica. Partendo da concetto di sostanza, concluse subito che non vi può essere che un’unica vera sostanza, Dio, costituita d’infiniti attributi, di cui noi avvertiamo i due del “pensiero” e
della “estensione”. Non potendosi dare due sostanze, ne viene che Dio e la Natura sono l’identica realtà.
Tutto ciò, che nel mondo e coscienza, e modo del pensiero divino; tutto ciò, che nel mondo è corpo, è modo dell’estensione divina.

Anche l’uomo dunque è modo della sostanza divina, sia come coscienza (sentimento, intelligenza, volontà), sia come corpo (estensione, movimento). Come modo di coscienza, si fraziona in una coesistenza e successione di molteplici fatti psichici; come modo di estensione, si fraziona in una coesistenza e successione di molteplici fatti fisici. Le due serie difatti si svolgono parallelamente e indipendentemente, benchè corrispondentemente, essendo due aspetti diversi della medesima realtà (ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum). La medesima realtà fa sì che la corrispondenza, oltre che perfetta, sia anche necessaria.

In ogni uomo l’anima è la coscienza, o l’idea, di quella stessa realtà di cui il corpo è la manifestazione sensibile, estesa. A ogni impressione di questo corrisponde, in quella, un’idea; ecco perchè la sensazione è, nello stesso tempo, modificazione: del corpo e avvertimento dell’anima; ed ecco perchè da essa si svolge la conoscenza, che, quando è ben condotta, è vera e concreta, e vi corrisponde necessariamente anche un’adeguata attività pratica (poichè il parallelismo sussiste sempre: parallelismo che nel fondo della sua
realtà effettiva è, come s’è detto, identità).

Lo svolgimento dell’attività conoscitiva (e pratica insieme) presenta tre gradi: . Conoscenza immaginativa, fatta di confuse, frammentarie e perciò inadeguate ed erronee percezioni sensoriali; . Conoscenza intellettiva, fatta di concetti, di valore necessario e che colgono l’universale delle cose; . Conoscenza intuitiva, mediante la quale si contemplano le cose nella loro divina essenza, sub specie aeternitis, che è la conoscenza veramente filosofica del mondo, che equivale a dire di Dio, alla quale corrisponde il superamento delle passioni e la beatitudine dell’animo; stato in cui conoscenza e virtù, intelligenza e volontà, sapienza e amore, filosofia e religione si adeguano nell’atto più alto, che è amor Dei intellectualis.

A formulare la sua filosofia lo Spinoza aveva trovato la via aperta dallo stesso Descartes, non soltanto per la definizione di sostanza, ma anche per la proscrizione delle cause finali e per aver fondato la nostra certezza dell’esistenza del mondo materiale sulla veracità divina; ciò condusse lo Spinoza a non vedere nel mondo esterno che un modo e una manifestazione della sostanza infinita. Alla stessa conclusione, applicata poi necessariamente, come abbiam visto, anche al problema del rapporto fra anima e corpo, lo conduceva pure la teoria cartesiana dell’assistenza continua di Dio, teoria portata proprio allora al massimo sviluppo dal Geulincx e dal Malebranche.

GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ

Una nuova ampia elaborazione delle concezioni cartesiane e anche di quelle empiristiche, con derivazioni imprevedute e originali, fece il tedesco Leibniz, lui pure, come il Descartes e il Pascal, illustratosi anche
nelle scienze.

GOTTFRIED LEIBNIZ nacque a Lipsia nel 1646. Studiò l’aristotelismo e la scolastica; si assimilò la ricca cultura del tempo; fu matematico insigne e a lui si deve, fra l’altro, la scoperta del calcolo infinitesimale.
Si occupò pure di politica, sostenendo vive polemiche. Visse per alcuni anni a Parigi. Fu poi nominato bibliotecario dell’Hannover; trattò con Jacques Bénigne Bossuet (Digione, 27 settembre 1627 – Parigi, 12 aprile 1704) per l’unione delle Chiese; promosse la fondazione dell’Accademia delle scienze di Berlino; visitò a lungo l’Italia a scopo di studio. Scrisse libri di filosofia, di scienza, di storia. Morì nel 1716. Opere filosofiche principali: Monadologia; Teodicea; Nuovi Saggi sull’intelletto umano.

La concezione leibniziana della realtà è quella di una pluralità di infinita di centri di forza, o monadi, di natura spirituale. Il mondo sensibile non è che la rappresentazione propria di ciascuna monade, effetto della sua forza di espansione e di applicazione. Secondo il grado della chiarezza e ricchezza di rappresentazione, si ha una gradazione di valore delle monadi, dalle più basse, dotate di percezione, ma non di appercezione (coscienza chiara), alla più alta, Dio.

Tranne per Dio, si ha per ogni monade un limite interno della sua capacità rappresentativa, cosicché si costituisce intorno ad essa come un aggregato di altre monadi, formanti la zona sub-cosciente di essa e concretantisi nella cosiddetta realtà estesa, che alla monade centrale sembra pertanto come «data». Così anche si costituisce l’individuo, in cui l’anima è la monade centrale e il corpo è l’aggregato di monadi inferiori, da essa dipendenti. L’accordo fra l’attività della monade-anima e quella delle monadi-corpo, come pure di tutte le monadi fra di loro, è prestabilito da Dio (Armonia prestabilita; finalismo; ottimismo).

La conoscenza umana avviene per un progressivo rischiararsi, acquistare evidenza, arricchirsi e integrarsi, mediante l’esperienza e secondo l’armonia prestabilita, di quei vestigi di idee e di quelle virtualità di pensiero, che costituiscono la natura rappresentativa e appercettiva della monade-anima? Questa capacità di conoscere, innata, è la forza intellettiva della monade-anima.

Così il Leibniz riteneva di aver conciliato empirismo lockiano e innatismo cartesiano, conciliazione da lui formulata nel detto “Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus“. Credette di dover portare un’integrazione anche ai principî logici di Aristotele e, da rigido matematico qual era, aggiunse al principio di contraddizione quello di ragion sufficiente, cosi espresso: “Non basta che un concetto non implichi contraddizione, perchè sia ritenuto vero, ma deve poter venire sufficientemente provato, cioè riportato alla verità di altre conoscenze sicure”.

Due noti seguaci del Leibniz in Germania furono CHRISTIAN WOLFF e ALEXANDER BAUMGARTEN, sistematore il primo della dottrina leibniziana, iniziatore il secondo della scienza moderna dell’estetica.

CONOSCENZA E MORALITÀ NELLE TEORIE DEI GRANDI CARTESIANI

Il razionalismo dei grandi cartesiani spicca in un carattere comune della loro dottrina morale: essi cercano il principio della virtù e della felicità nella ragione; per essi il sommo bene e l’intellezione dell’assoluto, la quale ci unisce a Dio e confonde la nostra volontà con la sua. È ancora l’intellettualismo dei grandi pensatori greci, passato attraverso la Scolastica e il Rinascimento.
Leibniz riecheggia tutte le voci del Cinquecento e del Seicento, previene quelle del Settecento; risponde, scienziato, alla voce della scienza; storico, a quella della storia; giurista, a quella del diritto, e pare dica a se stesso e agli altri: “Ragioniamo”.

La ragione unisce gli uomini e porta alla verità e alla giustizia. L’intelligenza è il principio della perfezione, e la perfezione è il fine della morale. Questo dicevano gli antichi e questo ripeté il Leibniz. Il bene morale è lo sforzo verso la scienza, lo sviluppo della ragione, il passaggio continuo da percezioni confuse a percezioni distinte; il male è ignoranza, deficienza, cecità. Cosi diceva. anche Spinoza. E non è anche ciò che dicevano Socrate e Platone, Sant’Agostino e San Tommaso? Non è forse questo il motivo costante che abbiam veduto svolgersi, ora più ora meno accentuato, in tutta la storia della filosofia?

Ragione! Grande parola, ma come terribile! La storia anche qui insegna. E per ricordare qualche esempio dei tempi moderni, vediamo, nel campo della dottrina, lo Hume finire nello scetticismo e il Leibniz nell’eccesso opposto, l’apriorismo dogmatico; e, nel campo dell’azione, vediamo la rivoluzione francese deificare la ragione, ma altresì compiere, in nome anche di essa, i peggiori delitti.

Quanto sentiamo vicino all’aninio il tormento del Pascal, contemporaneo dello Spinoza e del Locke, cartesiano come il Leibniz, assetato di scienza e di luce razionale, come forse nessun altro mai, e che finisce disperando della ragione!

È che il puro razionalismo non soddisfa. Ci sono cose che non possiamo comprendere che per i sentimenti che esse suscitano in noi; ci sono verità accessibili soltanto alla fede religiosa o alla volontà morale; “il cuore ha le sue ragioni che la mente non conosce”.

Tuttavia non gettiamo facilmente la condanna sulla ragione, su questo dono divino, prerogativa dello spirito umano, che rende consapevoli e umani anche i sentimenti. Soltanto, ragioniamo bene, con responsabilità. Del resto, la ragione non muore e, ancora ai tempi dell’illuminismo razionalistico e di quello empiristico, che, se furono di critica distruttrice, furono anche di laborioso rinnovamento dello spirito, eccola lavorare tenace e fortunata nel campo delle scienze, eccola raccogliersi nella meditazione del Vico, eccola nel Kant rivedere i suoi principî e ritemprare le sue forze.

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